
cerca in rete Keith Jarrett, The Köln Concert, 1975
L’intero mondo musicale attendeva qualche notizia certa sul suo stato di salute. Gli innumerevoli fans in ogni angolo del globo aspettavano una dichiarazione, qualsiasi cosa. In una corposa intervista al New York Times Keith Jarrett ha messo da parte il riserbo proverbiale e, forse anche per mettere fine ad una ridda di voci che s’intensificano da due anni a questa parte, ovvero da quando è stato colpito da due ictus che lo han costretto ad abbandonare la scena e lo strumento, ha preso la parola per lasciarsi andare ad una franca conversazione con Nate Chinen e chiarire anzitutto il suo stato di salute attuale. “Sono rimasto paralizzato. Il mio lato sinistro è ancora parzialmente paralizzato. Posso camminare con il bastone ora, ma c’è voluto oltre un anno. Ci sono voluti lunghi mesi di riabilitazione in una clinica. Fingevo di essere Bach con una mano sola, ma era solo un gioco…
View original post 200 altre parole
Tracks:CD1 (Salle Pleyel, Paris: November 26, 2008): Part I; Part II; Part III; Part IV; Part V; Part VI; Part VII; Part VIII. CD2 (Royal Festival Hall, London: December 1, 2008): Part I; Part II; Part III; Part IV; Part V; Part VI. CD3 (Royal Festival Hall, London: December 1, 2008): Part VII; Part VIII; Part IX; Part X; Part XI; Part XII.
Personnel:Keith Jarrett: piano.
Il nuovo album di prossima uscita, Live from Budapest, è una registrazione del concerto nella capitale ungherese durante la tournè europea del 2016. Dopo di allora è calato il silenzio, nessun concerto, nessun tour annunciato, e i pochi album che ECM ha pubblicato da allora ad oggi sono registrazioni live di periodi precedenti, risalenti anche a diversi anni prima. Quasi immediatamente sulla rete si sono sovrapposte voci in un continuo tam tam sulle condizioni di salute di Jarrett. Da indiscrezioni peraltro non…
View original post 504 altre parole
Capriccioso, irascibile, insopportabile, ma appena mette le mani sulla tastiera ecco che la magia si sprigiona. Una carriera lunga, forse oggi minata da problemi alle mani (che speriamo siano risolvibili), costellata da una lunghissima discografia, forse eccessiva considerando la ripetitività delle due formule esclusive ormai da quasi quarant’anni: piano solo e Standard Trio. Volendo fare l’avvocato del diavolo alcuni album, sopratutto nel penultimo periodo, sembrano un pò di routine, ma, una routine di gran classe senza mai cadute di gusto. La qualità è sempre garantita, certo la freschezza e la novità non abitano più da quelle parti, ma la classe e il tocco sono rimasti immutati.
“Jarrett possiede l’abilità di far “cantare” il pianoforte, al punto che quando lo suona lo strumento acquisisce caratteristiche innografiche quasi sacre. Il primo ad introdurre elementi di questo tipo nel Jazz è stato Coltrane , ma Jarrett non ha rivali nel coltivare e trasporre…
View original post 278 altre parole
| ||||||
|
View original post 902 altre parole
For Charlie
So…Charlie….what can I say? The bass became the bass again in your hands, after all the players who thought they were making it hipper, while they were also making it more synthetic and metallic and harsh and cold (leading to the eventual winner of the contest…the so-called electric bass). You wrapped yourself around the bass while you played; inhabited it, made love to it; and those of us who heard you and played with you heard that. All around you were players who were more “detached” from the instrument. What must you have thought of that detachment? Actually, I know the answer, because in all the time we played together in my trio, the American Quartet, and with a string section, etc. (even when you were strung out on heavy drugs), you didn’t think about anything but the music. You said it was hard for you to listen to me play with my band because you knew what notes you would have played. Other bass players didn’t impress you much; what was technique if there was no heart there?
I had a tour assistant who heard “Jasmine” in a limo on the way to a gig. She was young and not familiar with jazz, but she said “You guys are so together!” and so I asked her: “What do you mean, Amy?” She said, “Well, if you played bass and Charlie played piano, you would play the same way.” This was a compliment.
Once I was backstage at a jazz festival and Ornette Coleman was also there. We had never met, and by that time I had a quartet with Dewey Redman (who was a serious alcoholic) and Charlie (who was a serious drug addict) and Paul Motian, but Dewey and Charlie had both been with Ornette and then joined my group. Ornette asked me how I knew this “church music”; I had to be black. “No,” I said, but church is everywhere. Then he asked me how I could keep a group together this long (ten years, at least) with Charlie and Dewey in the band; how was it possible? And I answered, “because they’re the best.”
In the very beginning, when I had the chance to make my first record with anybody I wanted to use, I rehearsed with another bass player, who was too busy with a different group at the time; so Charlie was my second choice (!?). I hadn’t heard him very much at the time, but after the first rehearsal it never occurred to me to look for anybody else. We had an indelible connection that lasted over 40 years. After the quartet broke up, Charlie cleaned himself up and we recorded again after 30+ years.
People will always love his playing but no one will ever imitate him. He was a rare, true original. Perfect intonation, the biggest ears, the warmest, most captivating tone in the history of the jazz bass; and ALWAYS musical. And I never had a better partner on a project for his honest input and deep understanding of our intentions in choosing the tracks for “Jasmine” and “Last Dance.”
Love You, Man.
Mostra FREQUENZE 140621/0712 Spazio Natta, Como, 12 luglio 2014
Nell’ambito della mostra di Doriam Battaglia BATT realizzata con il patrocinio del Comune di Como, Assessorato alla Cultura è stato organizzato un incontro-conversazione sul tema “Spazio, Tempo e Musica” che si è svolto sabato 12 luglio (giorno di chiusura della mostra) alle ore 18,30 presso lo Spazio Natta.
I relatori sono stati l’Arch. Angelo Monti ed il Prof. Paolo Ferrario (docente presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca) che dialogheranno con me e con l’artista Benny Posca che ha realizzato una installazione nel giardino antistante lo spazio della mostra
Parto dal testo di BATT che introduce le opere esposte:
“alcune considerazioni sulle opere recenti: sguardo verso l’infinito e l’eterno; pittura “preformale” (vibrazioni, frequenze, particelle, atomi); l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande; regola dei frattali; l’opera come memoria nello spazio; il pensiero che genera la materia; l’attimo fugace (pag. 9-11)
la sua idea di invitarmi parte da questa canzone di Nina Simone: “He was too good to me” (1961) dove l’emozione dell’ascolto dipende dalle pause di silenzio che lei sa introdurre nel suo canto. Di lei diceva Charles Aznavour: “Nina Simone canta le parole delle canzoni”
Da qui una prima suggestione sul rapporto fra spazio (di una tela, di un pannello, di un quadro) e musica: spesso mi capita di rappresentarmi dentro la mia percezione uditiva la musica come delle pennellate gialle, rosse, blu.
E infatti il blu, nella musica jazz (basta ricordarsi di Duke Ellington) è molto ricorrente. E ora lo vediamo nel video in quella tela di Batt.
A me sembra che i fondamenti del nostro percorso di attraversamento della vita siano:
il Tempo
lo Spazio
l’Eros
la Polis
il Destino
Sul Tempo possiamo fare riferimento ad una splendida lezione del fisico Carlo Rovelli al TedXlakeComo del 2002 nella quale “mostrava ” questi concetti:
Ecco: a mio avviso l’arte, la pittura, la musica riescono a rappresentare, tramite l’uso di spazio, colori, note soggettivamente rielaborate, questa complessità che ci appartiene
Qui il video di Carlo Rovelli:
Il Tempo nella musica è ben raccontato dal violoncellista Mario Brunello nel libro Il silenzio, Il Mulino, 2014. Vediamo alcuni passaggi del suo dire:
Leggiamo:
“ogni forma d’arte ha il suo spazio per il silenzio: la pittura, sorda a ogni commento, vive nel silenzio, ma arriva a descriverlo. La scultura, muta, silenziosa suo malgrado, custodisce gelosamente un insieme di suoni, parole o rumori. La poesia scritta o detta vive nel silenzio, rotto dalle parole, vive nel silenzio degli spazi bianchi non misurabili perchè possono durare all’infinito. La musica addirittura del silenzio ne fa materia prima. Il silenzio che precede la prima nota eil silenzio dopo l’ultima sono indispensabili affinchè la musica si riveli ed esista.” (pag14)
Qui una lezione di Mario Brunello nella quale farà “vedere” come John Cage è il cantore del silenzio, quando rovescia i rapporti fra suono e silenzio. Il silenzio diventa accettazione dei “suoni altri esistenti ” all’interno dello spazio concesso all’autore:
Ma è lo Spazio ad avvicinare molto la musica alla pittura.
Qui l’associazione mentale ed emotiva che faccio è al concetto di Cerchio dell’apparire, insegnato dal filosofo Emanuele Severino. Un quadro e una musica fanno apparire qualcosa. Lo fissano nel tempo.
Leggiamo le sue parole:
“La parola “apparire” non indica la parvenza, l’apparenza illusoria. Anche le parvenze e le apparenze appaiono – e appare il loro rapporto con la “realtà” di cui sono parvenze. L’apparire non è l’apparenza che altera e nasconde l’essere, ma è la manifestazione dell’essere, il suo illuminarsi, il suo mostrarsi. … Appaiono anche i sogni e i silenzi; anche i pensieri e gli affetti – tutte cose che, insieme a tante altre, non sono illuminate dalla luce del sole … e la stessa parola “apparire” proviene dal latino apparere, che è riconducibile a pario, che significa “partorisco” e a paro, “preparo, allestisco”. (in La filosofia futura, Rizzoli, 1989, p. 195-196)
e ancora:
“L’uomo e le altre cose vanno lungo una strada, così come gli astri eterni percorrono la volta del cielo. Il loro sorgere non è il loro nascere, il loro tramontare non è il loro morire, essi brillano eterni anche prima di sorgere e dopo essere tramontati. Tutte eterne, le cose, dalle più umili alle più grandi, tutte ingenerabili e incorruttibili, esse vanno lungo una strada, nel senso che vanno via via mostrandosi, vanno entrando e uscendo dalla volta dell’apparire del mondo. (in La strada, Rizzoli, 1983, p. 134)
Ecco, a me la figura del cerchio dell’apparire -guardo voi nella sala con i quadri di Batt ed effettivamente apparite come dentro a un cerchio- sembra perfetta per vedere le vicinanze percettive ed esistenziali fra una musica e un quadro. L’arte produce questo effetto: renderci consapevoli della eternità di ogni attimo.
C’è un’altra immagine molto adatta a far riflettere su questo tema. Le immagini di una pellicola fotografica sono una sequenza di fotogrammi. Noi percepiamo quell’attimo, che poi scompare, e nella sequenza della comparsa e scomparsa ottemiamo l’effetto della visione e dell’ascolto. Dunque i fotogrammi scorrono lungo la linea del tempo, compaiono nello spazio e scompaiono: Ma la struttura della pellicola rimane. Dunque quelle singole immagini non finiscono nel nulla, ma sono eterne.
Spiega meglio questo passaggio il filosofo Aldo Natoli, in una intervista alla vicina Radio Svizzera:
A me sembra che quando Doriam Battaglia dice “ciò che provo a rappresentare sono le vibrazioni, le frequenze dello spettro visibile, le particelle, gli atomi e le molecole che vengono a costruire la materia di cui siamo fatti e di cui è fatto l’universo” ci avvicini, con il linguaggio dell’arte, a fare esperienza diretta della struttura sottostante ad ogni evento che compaia nel cerchio dell’apparire
Cosa resta della scomparsa o affievolimento, nella pittura dell’ultimo secolo, dei volti, dei paesaggi? Resta la struttura delle cose. Le cose non sono solo “cose”, ma energia. La natura del mondo è un fluire di energia. La materia è un “campo” in cui le diverse espressioni dell’energia si muovono incessantemente. Il mondo fisico non è una serie di oggetti, ma una rete di interazioni in costante flusso.
I frattali, presenti nella espressione pittorica di BATT, ne sono una delle manifestazioni. Il frattale è una figura geometrica, sostenuta dalle regola matematiche, in cui un motivo identico si ripete su scala continuamente ridotta. le zone del dettaglio fanno vedere la struttura ricorsiva che si ripete, ma è l’effetto visivo quello che ci emoziona. Apputo: struttura sottostante e risultato complessivo. C’è una struttura che sostiene ciò che entrerà nel nostro campo della visione
Un’altra associazione mi è indotta dai pannelli di Batt, soprattutto di quello “bianco” che si vede anche nel video: il rapporto fra mente e cervello.
Qui mi sostiene il libro di Daniel J. Levitin, Fatti di musica, Codice edizioni, 2006. L’autore è un neuroscienziato che ci propone una visione cognitiva dell’ascolto estetico della musica. La mente è la parte di noi che incarna pensieri, speranze, desideri, ricordi, convinzioni, esperienze. Il cervello è un organo fisico (materia) fatto di cellule, acqua, sostanze chimiche. E’ costituito da 100 miliardi di neuroni ed è capace di una quantità enorme di connessioni. Dunque: strutture e connessioni sono alla base della nostra presenza ed identità. Una struttura di base è capace di produrre esiti infiniti. E l’opera d’arte ci offre, per via emozionale, questa vertiginosa e profonda esperienza.
La musica è una combinazione organizzata di suoni nel tempo e nello spazio. E un”arte che sa esprimere i sentimenti per mezzo di un linguaggio delle note che il cervello sa elaborare, sia per la sua struttura biologica, sia per la sua capacità di “fare memoria” e di rielaborala.
Concludo con la musica che accompagna il lavoro produttivo delle opere pittoriche di Batt. Questa mostra è stata costantemente accompagnata dalla musica di Roberto Cacciapaglia.In riferimento al suo disco “Canone degli spazi” Cacciapaglia dice: “Per comporre i miei brani io uso le triadi, che sono elementi elementari alla base dell’armonia. Usufruisco dei cicli, in cui lo strumento solista rimane sempre al centro, mentre l’orchestra ruota intorno ad esso, facendo delle fasce che vanno dal pianissimo al fortissimo, dando vita a delle orbite, come quelle dello spazio. L’orchestra diviene così come una sorta di costellazione che gira intorno, come fossero onde planetarie. Lavoro sulla presenza del suono, cercando di creare una alchimia fra gesto, suoni e intenzioni per cercare di toccare le emozioni di chi ascolta. Ad ogni modo per me è importantissimo comporre immerso nel silenzio“.
Di Nina Simone e della sua straordinaria capacità di usare il silenzio per agire con il canto e il suo pianoforte nel creare il momento “unico” dell’ascolto interiore ho già detto all’inizio.
Ma ci sono tre musicisti australiani che suonano da una trentina d’anni ad offrire, a mio avviso, una eccezionale base musicale al modo di fare pittura di Batt. Si tratta dei The Necks (Chris Abrahams, tastiere, Tony Buck batteria, Lloyd Swanton, basso).
In Italia sono praticamente sconosciuti. Io li ho inseguiti dove ho potuto, una volta a Forlì e un’altra a Berna
Ascoltiamo questo due framment musicale:
E’ difficile per i Necks proporre dei frammenti perchè la loro specificità consiste nel creare, nel qui ed ora di una serata, un unico pezzo musicale di circa un’ora. Per ascoltarli (e nel tempo di internet oggi questo sembra impossibile) occorre darsi un’ora di tempo
Vi invito a sentire i due pezzi di Aquatic e se volete a inseguire le mie successive note di ascolto.
Qui c’è un estratto di Aquatic:
I The Necks creano e suonano assieme dal 1989, fanno un jazz nuovissimo, esplorano nuove frontiere come hanno fatto i loro predecessori, che cercavano
“la nota impossibile, quella che non esiste, che non c’è sulla terra” (Steve Lacy su Thelonius Monk).
Il loro ascolto lascia sempre il segno. Eppure non hanno attraversato quella invisibile linea che passa fra il notturno trascinare gli strumenti per il piccolo pubblico e la notorietà. Ripeto: almeno in Italia.
Dipenderà anche dal fatto che abitano in una terra straordinaria, ancestrale e moderna nello stesso tempo: l’Australia. Là devono essere molto famosi, visto che continuano il loro progetto musicale difficile e inusuale: in quasi vent’anni hanno realizzato solo 34 pezzi per un totale di 20 ore. Effettivamente la loro musica assomiglia molto a quel paesaggio: sanno creare uno spazio psichico e visivo che è bello e coinvolgente attraversare con la loro guida. Sì, sanno costruire un percorso ipnotico. Come nel film Picnic ad Hanging Rock ha fatto Peter Weir (1975).
C’è una zona d’ombra su di loro e allora vorrei colmare la lacuna e illuminare qua e là.
In “Aquatic” (1999) Chris Abrahams è al Piano e all’organo Hammond, Lloyd Swanton al Contrabbasso acustico ed elettrico, Tony Buck alla batteria e alle percussioni. Questa volta c’è anche Stevie Wishart all’”Hurdy-Gurdy” (una specie di violino elettrico che ha un suono simile alla cornamusa).
I pezzi sono due: uno di 27 minuti, e l’altro di 25. Una eccezione rispetto al loro standard, che quello di un’unica scultura musicale di circa un’ora.
L’ascolto lascia vigilmente intontiti per la bellezza del ritmo (Tony Buck è un batterista eccezionale), per le armonie degli accordi pianistici, per la ripetizione ipnotica, per tutte le cose che accadono in quella che non è solo un’iterazione minimalista.
Già il primo movimento è di grande soddisfazione per la mente musicale. Suoni raffinati che alimentano l’immaginazione, rintocchi pianistici di forte energia, un drumming-beat davvero unico, rumori ambientali appena accennati e stimolatori di benessere psichico. Come a dire: “sei in un altro spazio, ma qui si può stare bene. E’ solo diverso”.
Ma il secondo movimento è incredibilmente bello (cercherò di scegliere un assaggio che lo rappresenti). Uno “Swing” che è indubbiamente jazzistico, ma che si avventura in un’Ambient Music di gran cultura. Inizia subito a grande velocità, con il contrabbasso violineggiante di Swanton, incalzato dal terribile Tony Buck, un vero monello della batteria. Poi il piano diAbrahams comincia a spingere avanti. Sempre di più: trilli, battiti, con il basso a contenere. Ecco di nuovo gli archi. Sempre più veloce, impercettibilmente veloce. Viene voglia di chiudere gli occhi. Ecco: nel nero si vede lo spazio che è attraversato dalle note del piano sorrette da quel tappeto volante che è la batteria, baroccheggiata dal contrabbasso. Ora il ritmo si fa un po’ meno frenetico. E comincia il gioco fra di loro. Sì: l’interplay jazzistico inventato dal trio di Bill Evans risorge, si riattualizza in un’altra dimensione ! I tre improvvisano dentro un sonno spaziale reso possibile dalla (leggera) elaborazione elettronica dei suoni. La conclusione è di grande pace.
Sì è bello stare qui. E dove siamo ?
Ma guarda un po’: ancora in Drive By.
La loro è un’architettura musicale: siamo sempre a casa ! O meglio: si ritorna sempre a casa. Come insegna la cadenza d’inganno, qui raccontata da Alessandro Baricco:
Infine una esperienza musicale irripetibile è quella di Prism , suonato dal trio Keith Jarrett, Gary Peacock, Jack Dejhonette.
Irripetibile perchè questo pezzo è stato suonato così solo quella sera del 1985 a Tokyo e poi mai più:
Guardate Keith Jarret che vola sul pianoforte inseguendo quel frammento di mondo che ha trovato in quell’istante
Guardate Gary Peacock che ride con il batterista come per dire: “hai visto … è partito …”
E non dimentichiamoci di Dejohnette che umilmente si mette al servizio di questa esperienza unica di spazio, tempo e suoni.
Infine: grazie Doriam Battaglia Batt che ha reso possibile questo inimmaginabile incontro nell’imbrunire sul centro storico di Como, nella giornata di sabato 12 luglio 2014.
Paolo Ferrario
Il senso iniziale è dunque la felicità, che poi diventa l’evento festivo di cui parlano gli ordini perentori delle religioni (“ricordati di santificare la festa“, come se ci fosse bisogno di qualcuno che deve pretendere che si santifichino le feste).
In realtà è felice colui o colei che è vicino alla fonte della felicità, che, all’origine del ciclo della vita, è il seno materno, portatore dell’alimento essenziale.
La “festa” allude alla necessità che si interrompa l’opera e che si pensi al senso dell’opera. Dopo aver lavorato l’uomo (e il dio che si è inventato) riflette sulla propria opera e celebra la festa della contemplazione del modo in cui ha agito.
|
il 21 luglio 2011, al Teatro Arcimboldi di Milano – Greco
Keith Jarrett, Gary Peacock e Jack De Johnette Hanno suonato: All Of You, Summertime, Stars Fell On Alabama, I’gonna laugh you right of my life; Life is just a bowl of cherries; G Blues, Answer Me My Love, Solar, All the Things You Are; When will the blues leave (tenuta su un tono molto free); Tennessee Waltz. Una diecina di brani in tutto. Ci sono anche due bis: l’ellingtoniano Things Ain’t What They Used To Be e Once Upon A Time Nel 1983, venticinque anni fa, nasceva il cosiddetto Trio Standards, ovvero l’incontro di Keith Jarrett con il contrabbassista Gary Peacock e con il batterista Jack DeJohnette. In quell’anno Jarrett propose a De Johnette e a Peacock, di registrare un album di standard jazz, intitolato semplicemente Standards, Volume 1. Fanno seguito immediatamente dopo Standards, Volume 2 e Changes, registrati nella medesima sessione. Il successo di questi album e il conseguente tour del gruppo consacrarono questo nuovo Standards Trio nella rosa delle formazioni jazz storiche. |
I tre suonano così:
Scrive Cesare Balbo:
E’ un live act quello del “Keith Jarrett Standards Trio” di domani sera agli Arcimboldi così atteso a Milano che sarebbe così scontato parlare di evento, un termine abusato e quindi inadatto per un musicista che dell’improvvisazione ha fatto arte. In un’estate musicale di alto livello per la scena milanese il ritorno di Jarrett è come un suggello.
Ma se le precedenti performance scaligere erano “solo piano” stavolta è accompagnato dai suoi fidi sodali Gary Peacock e Jack Dejohnette con cui condivide un felice sodalizio artistico da ventotto anni sotto il nome di Standards Trio, titolo del loro album di esordio. Per loro che sono ormai un classico del jazz è un atto di amore misurarsi ancora con gli standards della musica classica afro-americana: un’operazione culturale analoga a quella della musica classica ma nel segno di maggior libertà esecutiva. Non a caso la loro formazione risale ai libertari primi anni Settanta e si esprime nella scelta stilistica di cercare di improvvisare all’interno della tradizione.
L’improvvisazione è una musica al presente, che accade solo in quel momento e non si ripeterà più. E’ un “unicum” nel solco della tradizione intesa come pretesto per addentrarsi nei territori della variazione assoluta. Si fa presto a parlare di “improvvisazione” ma è una vera e propria tecnica che richiede rigore e grande conoscenza in grado di creare quel flusso sonoro in cui l’ascoltatore può immergersi una sola volta. E richiede grande concentrazione da parte di Jarrett, la voce narrante del trio sostenuta dagli sciabordii dei piatti della batteria di DeJohnette e dall’accompagnamento sinuoso del contrabbasso di Peacock. Concentrazione, a volte fraintesa come capricciosa, per i disturbi esterni provenienti dal pubblico o dai fotografi. C’è una ricca aneddotica sui tic e le manie di Jarrett che accompagna ogni esibizione, in ogni caso pensando alla magia creata dall’improvvisazione del Trio più famoso del mondo non si può non condividere il richiamo di Jarrett alle continue distrazioni che rischiano di far perdere tante cose, i dettagli, la capacità di ascolto. E’ un riconoscimento, in fondo, all’importanza del pubblico inteso come il quarto elemento delle triangolazioni musicali dei tre musicisti che dopo Napoli e Milano proseguono nel loro tour europeo.
Dopo il concerto
Scrive Franco Fayenz in Il Sole 24 ore :
Il superdivo Keith Jarrett è tornato a Milano, questa volta al Teatro degli Arcimboldi con il suo celebre Standards Jazz Trio (Jarrett pianoforte, Gary Peacock contrabbasso, Jack Dejohnette batteria). Tre giorni prima i tre maestri avevano suonato al Teatro San Carlo di Napoli, e chi ha ascoltato entrambi i concerti assicura che nulla è stato ripetuto, salvo la camicia rossa e i discutibili calzoni neri del pianista.
Non ci sono dubbi. Jarrett, Peacock e Dejohnette lavorano insieme da 28 anni, pur avendo nello stesso tempo appuntamenti musicali diversi.
Significa che suonano in simbiosi, e che a loro basta un sussurro, uno sguardo, e talvolta soltanto l’istinto o le vie misteriose dell’inconscio, per intendersi sulla strada da percorrere o da cambiare.
Il pianoforte, il contrabbasso e la batteria sono fonti d’emissione di suoni stupendi e di uguale peso specifico, quello che oggi chiamiamo interplay. Oggi, in ciò che resta della grande musica per piccolo complesso che ancora, per intenderci, chiamiamo jazz, non si può fare niente di meglio. E’ vero che tempo fa c’erano stati nel trio vaghi sentori di routine, ma sappiamo che si dovevano attribuire ad alcuni problemi di salute di Peacok e ai guai sentimentali di Jarrett, adesso metabolizzati con qualche residuo percepibile nei brani che propone.
Scelgono, i tre – ma soprattutto Jarrett e Peacock – dall’immenso patrimonio di temi sempreverdi, perlopiù americani, da cui il nome e lo scopo del trio riunito nel 1983.
La struttura di ciascuna interpretazione creativa è piuttosto semplice: esposizione del tema, variazioni improvvisate, riesposizione tematica conclusiva non priva di nuove variazioni finali talvolta lasciate volutamente sospese.
E’ nella parte centrale che non di rado emerge l’emozione del capolavoro: qui l’improvvisazione è assoluta, supera i ricordi e le influenze ambientali; e chiunque può capire che, seppure in ipotesi uno stesso tema fosse ripreso, un’improvvisazione siffatta coincide con i sentimenti dei musicisti e con un qui e ora che mai più, e in nessun altro luogo, potrà essere ripetuto nello stesso modo.
E’ un’autobiografia istantanea, una dazione di sé che supera perfino la bellezza dei mezzi con cui si esprime: il tocco e il fraseggio aereo del pianoforte, la fantasia del contrabbasso, il vigore contenuto della batteria.
Si comincia con All Of You che Jarrett nobilita con una lunga prolusione pianistica. Ecco poi Summertime a tutti noto, Stars Fell On Alabama, G Blues e nella seconda parte (Jarrett ama l’intervallo) Answer Me My Love, All the Things You Are, Tennessee Waltz. Una diecina di brani in tutto, quelli citati sono i migliori. Ci sono anche due bis, l’ellingtoniano Things Ain’t What They Used To Be e Once Upon A Time.
Questi ultimi, per quanto possa sembrare incredibile ai non iniziati, sono un premio per il pubblico (folto, ma con qualche vuoto qua e là): il pubblico, dicevo, che ha fatto il bravo e si è comportato secondo un decalogo di istruzioni per l’uso del concerto di Jarrett contenuto in un foglietto consegnato ad ogni spettatore e ripetuto da una voce femminile, per sua fortuna tra le quinte. Cari amatori della buona musica, Jarrett è così e non da oggi, ma così va accettato per quello che malgrado ciò sa donare, in solo o con gli altri due campioni. E’ evidente che in questo modo intimidisce l’uditorio che per quasi mezzora non si arrischia nemmeno ad applaudire a scena aperta come si usa nel jazz. Qualche anno fa, nel Teatro La Fenice di Venezia riaperto da poco dopo l’incendio, durante un concerto solitario Jarrett fu costretto a fermarsi e a dire al pubblico: «Applaudite o fischiate, fate qualcosa, perché non capisco se sto suonando bene o male». Alla fine, ovviamente, arrivano anche agli Arcimboldi boati di applausi e la standing ovation.
C’è una novità, almeno per noi italiani. Jarrett ha deciso di porre il pianoforte in posizione tale da voltare le terga alla platea. La giustificazione ufficiale è che in questo modo non vede nessuno, nemmeno con la coda dell’occhio, e l’ispirazione resta integra. Sarà, ma non è carino. Tanto più che il nostro suona alzandosi più che mai in piedi, limita a se stesso l’uso dei pedali e fa vedere in questo modo una gestualità che richiama alla mente più un pipistrello che un virtuoso della tastiera.
Ma, ripeto, accettiamolo così, basta che non esageri come fece in modo imperdonabile (non ha mai chiesto scusa) a Perugia nel 2007. Ve lo dice un ascoltatore di lungo corso che lo apprezzò per la prima volta dal vivo a Bologna nel 1969 (Jarrett aveva 24 anni) e fu un trionfo. Era un’altra persona, allora. Timido (lo è anche adesso), affabile, gentile. Si poteva stare a tavola con lui davanti a un piatto di spaghetti, e sentirsi dire all’improvviso: «Sai, ho paura. Ho paura di quando sarò celebre, se mai lo sarò, perché potrei perdere il senso delle proporzioni». Lo perse per la prima volta qualche anno dopo in un teatro di New York. Il sottoscritto fu testimone oculare e auricolare.
E’ così per quaranta minuti, una buona mezz’ora di meritata pausa, poi si riprende il viaggio, tra delicate ballate e brani esplosivi.
Fine, applausi scroscianti, due bis, di nuovo applausi, fine.
Esci, nel fresco della notte milanese, la tangenziale ti accompagna verso casa, con già nel cuore il ricordo di una serata bellissima e la consapevolezza di aver udito l’eccellenza del panorama musicale moderno ….
Concerti europei per il tour estivo 2011 del trio
Jarrett chiude il Ravenna Festival. “Dalle tenebre…” un colpo di flash rompe l’incantesimo
![]() |
![]() |
![]() |
|
![]() |
![]() |
![]() |
|
La radio francese France Musique dedicherà un’intera settimana di programmazione alla figura e all’opera di Keith Jarrett, in occasione dell’uscita di Jasmine, il nuovo lavoro con Charlie Haden.
Ecco il palinsesto:
French radio France Musique will dedicate a week of programming to Keith Jarrett, on the occasion of Jasmine release, the new recording with Charlie Haden.
Here is the program:
KEITH JARRETT – CHARLIE HADEN JASMINE (E.C.M.) 2010
Post n°1489 pubblicato il 20 Aprile 2010 da pierrdeTag: RECENSIONI
For All We Know Where Can I Go Without You No Moon At All One Day I’ll Fly Away Intro – I’m Gonna Laugh You Right Out Of My Life Body And Soul Goodbye Don’t Ever Leave Me
vai alla recensione di Mondo Jazz: KEITH JARRETT – CHARLIE HADEN JASMINE (E.C.M.) 2010 su Mondo Jazz
See larger imagefunction openRecsRadio(url) { if (window.name == “krex”) { this.location = url; } else { var win = window.open( url, ‘krex’, ‘resizable=yes,’ + ‘width=820,’ + ‘height=550’ ); win.focus(); } } jQuery(“#recs_music_sampler_link”).html(”);
Amazon.com: Jasmine: Keith Jarrett, Charlie Haden: Music
11 luglio 2010 – Montreaux Jazz Festival
… in ogni società conosciuta, musica e danza sono forme espressive universali. E’ solo negli ultimi 500 anni che la musica è diventata un’attività per spettatori: “L’idea del concerto musicale – dice ancora Levitin – in cui una classe di “esperti” si esibisce per un pubblico riconoscente è praticamente assente nella nostra storia come specie”.
E’ in questo lunghissimo orizzonte evolutivo che possiamo ripensare il nostro piacere nell’ascoltare (o vedere ed ascoltare) la musica. Quello che cerchiamo è un’esperienza delle emozioni. Potremmo dire ancora meglio: ci educhiamo ad entrare in rapporto con le nostre emozioni. La musica serve a trasmettere sentimenti attraverso un rapporto fra i gesti fisici e il suono. Il felice compito del musicista è di mettere assieme il suo stato mentale ed emotivo per comunicarlo a noi: e così facendo, dentro di noi si sviluppa un apprendimento esistenziale. Ma facciamo una prova, visto che internet ce lo permette. Osserviamo come Nina Simone costruisce con il corpo, le mani e la voce il suo meraviglioso Four Woman. E ancora, guardiamo la faccia beata di Gary Peacock mentre imbocca il paesaggio musicale di quel capolavoro di improvvisazione del Trio Keith Jarrett che è Prism. In queste due interpretazioni si può percepire cos’è la bellezza e come si struttura dentro una relazione. Ma leggiamo anche le migliaia di commenti che i visitatori di tutto il mondo lasciano: ci renderemo conto che stiamo partecipando ad una esperienza sociale priva di barriere geografiche. Sono solo due esempi (fra i più alti) di quanta strada sia stata fatta nell’evoluzione umana SEGUE
L’INTERO ARTICOLO E’ QUI: Ferrario Paolo, Festival di Sanremo, Musica, Canzonette e biografia
Nuove date in agenda per il Trio Jarrett/Peacock/DeJohnette.
Come ufficializzato sul sito di Koinuma Music, il gruppo terrà infatti cinque concerti nell’autunno di quest’anno, tutti in Giappone. Consulta la pagina dedicata agli appuntamenti live.
- September 23, 2010: Orchard Hall, Bunkamura, Tokyo
- September 26, 2010: Kobe Kokusai Kaikan (Kobe International House), Kobe
- September 29, 2010: Orchard Hall, Bunkamura, Tokyo
- October 1, 2010: Kanagawa Kenmin Hall, Yokohama
- October 3: Orchard Hall, Bunkamura, Tokyo
(Thanks to keithjarrett.org)
Sulla rivista musicale “Jazzit” di gennaio/febbraio appare una lunga intervista a Jarrett condotta da Stuart Nicholson e relativa a “Testament”, ultimo disco del pianista.
Jazzit – Intervista a Keith Jarrett
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
||
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
|
![]() |
![]() ![]() |
![]() |
![]() |
|
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
||||
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
|||
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
|||
![]() |
![]() ![]() |
![]() |
![]() |
|
Su questi concerti scrive Gianluigi Bozzi
KEITH JARRETT Piano solo
27 ottobre 2002
OSAKA Festival Hall
30 ottobre 2002
TOKYO Metropolitan Festival Hall (150° concerto in Giappone)
31 ottobre 2002
TOKYO Metropolitan Art Space
Sento il bisogno di ripensare con calma a quello che è successo, di ricostruirlo e riviverlo nella mente, di raccontarlo agli amici per renderli, almeno in parte e per quel poco che la scrittura e la difficoltà di esprimere le emozioni consentono, partecipi di questa straordinaria avventura.
Ci sono momenti nei quali, ancora adesso, a distanza di una settimana, non mi pare possibile essere stato a 10.000 chilometri e a 12 ore di volo da qua e aver provato gioia, emozioni, stupore, commozione, entusiasmo così intensi e assoluti.
La scelta della musica di accompagnamento alla scrittura di questi “ricordi” è stata facile: Osaka, 8 novembre 1976, per omaggio, coerenza e continuità storica ed emozionale. Poi proseguirò con Tokyo, 14 novembre.
Le prime notizie in merito al ritorno di Keith Jarrett ai concerti in piano solo e al tour in Giappone per celebrare il 150° concerto in quel paese mi erano state fornite dall’amico Mirco, sempre attento e informatissimo a tutto ciò che riguarda il “maestro”.
L’idea un po’ folle di andare in Giappone apposta per questi concerti è nata, quasi per scherzo, durante il tour europeo dello Standards Trio di quest’estate. Ma l’amico Roberto ha saputo tradurre lo scherzo (o il sogno?) in realtà, organizzando tutto quanto (voli, soggiorni, spostamenti, biglietti) con competenza, coraggio, fortuna, entusiasmo e simpatia, vincendo tutte le mie pigrizie e incertezze e paure e rendendo così possibile questa indimenticabile avventura giapponese.
Siamo partiti sabato 26 ottobre alle ore 14.30 da Malpensa, con un volo diretto per Osaka (precisiamolo una volta per tutte: si pronuncia òsaca, con l’accento sulla o e con la s di “sale”). Dopo 12 ore di viaggio (più 8 ore di fuso) siamo arrivati a destinazione e alle ore 17, con una modesta oretta di anticipo sull’orario di inizio, ci siamo presentati all’entrata della Festival Hall, un bellissimo auditorium di ca. 2700 posti, ovviamente esauriti.
I giapponesini arrivano al concerto alla spicciolata, non formano code (ognuno possiede già il biglietto e tutti i posti sono numerati), parlano molto sottovoce e si accomodano in silenzio (sembra di stare in chiesa!). Purtroppo però si annidano anche tra di loro alcuni incurabili bronchitici che, con indicibili sofferenze, sapranno trattenersi fino all’inizio del concerto per poi finalmente lasciarsi andare a isolati ma ben calibrati e cadenzati colpi di tosse (ma allora “tutto il mondo è paese”!?! E le caramelle? E gli sciroppi? E starsene a casa se si è malati? E tossire “educatamente”, magari approfittando di un crescendo e non sguaiatamente proprio mentre il brano sta attraversando il suo momento di maggior lirismo e di minor numero di note suonate? Mah!).
Alle 18.10 compare Jarrett, si dirige al piano con il solito passo flemmatico, ringrazia il pubblico, si leva l’orologio, si siede e inizia il concerto.
Il primo brano ha un avvio free molto lento e pacato, quindi prende sempre più corpo per diventare deciso e veemente fino a quando Jarrett, verso il decimo minuto, trova una melodia romantica e classicheggiante che risolve, intorno al quindicesimo minuto, su un basso ostinato e ripetuto, con varie divagazioni, fino alla conclusione del pezzo, dopo circa venti minuti in totale.
Nonostante la lunga pausa (il brano è del tutto evidentemente finito) il pubblico non applaude (forse perché Jarrett rimane troppo concentrato sulle tastiera o non ne allontana decisamente le mani).
Jarrett riprende a suonare una parte sui bassi molto decisa ma si interrompe quasi subito per alcuni rumori e colpi di tosse da parte del pubblico. Partono allora gli applausi ma Jarrett fa segno di no con le mani e richiede a gesti altri colpi di tosse. Poi dice al pubblico:”Tossite adesso!”, quindi si alza, beve un sorso d’acqua, ringrazia un po’ ironicamente, si risiede e regala un gioiello di circa cinque minuti, una sorta di ballad molto melodica e “americana”.
Con il terzo brano si torna alle atmosfere free: dopo un paio di minuti di note veloci e in libertà c’è una brusca interruzione e il brano riprende, più lentamente, con note alte ribattute e un lavoro di bassi e pedale a prolungare e mischiare tutti i suoni in un magma sonoro straniante e ipnotico. Dopo circa otto minuti Jarrett ritorna decisamente al free per circa due minuti fino alla conclusione.
Segue un nuovo brano lento e romantico, con grande melodia e accompagnamento ad arpeggi di stampo classico. Circa sei minuti di grande atmosfera ed emozione e si chiude il primo tempo.
Il secondo tempo inizia con Jarrett che ancora ironizza con il pubblico per i continui colpi di tosse che quasi gli impediscono di cominciare. Parte finalmente il primo brano, con circa cinque minuti di free piuttosto deciso che sfocia, incredibilmente e sorprendentemente, in un fugato veloce di rigorosa matrice classica per circa altri cinque minuti (credo di sapere che la composizione classica ha canoni e regole che possono indirizzare verso passaggi quasi “obbligati” e che quindi possono, entro certi limiti, “agevolare” la creazione istantanea ma la complessità e la ricchezza delle linee melodiche e l’intrecciarsi continuo delle varie “voci” mi hanno lasciato, ancora una volta, stupefatto di fronte a tanta “perfezione”!).
Il secondo brano è un nuovo gioiello di circa cinque minuti: una classica “americana”, con una bellissima, ritmata e coinvolgente melodia.
Seguono altri cinque minuti di melodia, sviluppata su un tappeto di accordi secchi e ripetuti a segnare un tempo lento, che si interrompe all’improvviso.
Il quarto brano dura circa quindici minuti. Inizia lentamente, con una melodia che si fa strada fra una serie di accordi quasi dissonanti, di stampo impressionista, per diventare sempre più carico di pathos e di tensione, fino al finale con i bassi a fare da cassa di risonanza.
Il concerto si chiude con uno “scherzo”: un pezzo free con frasi e accentazioni bebop di circa un minuto.
Due bis. Il primo è un grandioso “ostinato” di circa sei minuti, con basso fisso e ripetuto e destra “svolazzante” sulla tastiera. Il secondo è il capolavoro del concerto! Una ballad di circa cinque minuti assolutamente stupenda. Potrebbe essersi trattato di uno standard (da me mai sentito prima) o di un “traditional” (a questo mi ha fatto pensare la struttura del pezzo) ma se, come ritengo, si è trattato di un brano improvvisato, siamo di fronte a un nuovo incredibile colpo di genio del maestro!
Dopo 2 giorni di turismo a Kyoto (del tutto inutile dopo una simile performance ma d’altronde bisognava pure far passare il tempo in attesa del nuovo evento!) ci siamo trasferiti a Tokyo ( con un simpatico trenino che si è bevuto 552 chilometri in poco più di due ore!). Pomeriggio a fare shopping per tenere a bada l’emozione e finalmente (questa volta con un’ora e mezza di anticipo) siamo davanti alla Metropolitan Festival Hall, altro bellissimo auditorium di circa 2300 posti.
Alle 19.05 Jarrett entra in scena e inizia “l’avvenimento”, il 150° concerto giapponese!
Parte un brano free lento, pacato, arioso, quasi “melodico”. Dopo circa sette minuti la melodia prende il sopravvento e diviene struggente. Ma riprende il free, quindi inizia un fugato sui bassi di sapore bachiano che si tramuta in un basso ribattuto e risonante sul quale si innesta una melodia dapprima dissonante,poi via via sempre più classica, grandiosa, sofferta, struggente. Jarrett è in totale trance creativa: canta, soffre, gioisce, si alza, si risiede, si contorce, mugola e raggiunge una delle sue vette più alte (non mi vergogno a dire che ho pianto! Mi rendo conto che probabilmente si è trattato di un momento di particolare commozione dovuto all’accumularsi di una serie di emozioni di carattere anche esterno, ma la musica creata da Jarrett è stata poesia pura e in quel momento, sul palco davanti a me, c’era la perfezione dell’arte, il bello assoluto, il gesto, il pensiero, il sentimento, la creazione, la purezza, la semplicità, l’amore…).
Alla conclusione del brano, durato circa venticinque minuti, il pubblico rimane ammutolito. E qui ho amato i giapponesi perché l’applauso sarebbe suonato “stonato”, avrebbe turbato l’incanto del momento, avrebbe ricondotto alla banale normalità l’eccezionalità di ciò a cui avevamo assistito.
Dopo una lunga pausa di silenzio Jarrett parte con un basso free ma viene interrotto da un applauso isolato (subito zittito). Riprende con un trillo/tremolio e quindi con un free veloce ricco di note, di dissonanze, di scale che si inseguono e si intrecciano per circa dieci minuti. Quindi trova una melodia con note ribattute che diventa sempre più imponente e decisa fino a spegnersi su una linea romantica e classicheggiante dopo circa cinque minuti. Ma è un falso finale perché il brano riprende forza, acquista di nuovo pathos e drammaticità e si chiude dopo altri quattro minuti circa di nuova struggente melodia.
Un primo tempo indescrivibile!!! Posso solo augurarmi che venga realizzato, come è nelle previsioni, il DVD del concerto e che tutti possano godere di questo momento di assoluta creatività e genialità.
Il secondo tempo ha inizio con un brano di circa dieci minuti con una melodia bellissima e classicheggiante che si sviluppa su un avvolgente e misterioso accompagnamento ad arpeggi.
Il secondo brano ha una partenza veemente e incisiva, con un basso ostinato e note ripetute che si rincorrono fino a un’improvvisa interruzione, preludio a una ripresa decisamente classica, quasi un’invenzione a due voci, con le linee melodiche che si intrecciano e sovrappongono. Dopo circa dieci minuti il brano ha una nuova stasi, su note staccate, alte e basse, lasciate risonare a lungo. Purtroppo alcuni colpi di tosse rompono l’atmosfera trasognata e sognante che si stava creando e costringono Jarrett a interrompersi e a dar vita alla solita gag con il pubblico. Ma, come tante altre volte ci è già capitato di constatare, l’interruzione non rovina l’ispirazione.
Jarrett riprende con accordi e melodia tipo standard e crea una nuova “americana”, un gioiello, un capolavoro assoluto di quasi dieci minuti.
E c’è ancora il tempo per circa altri quindici minuti di grande musica: un brano che inizia con dei trilli a più note lasciate risonare tenendo premuto il pedale, si sviluppa con una melodia innestata su bassi ribattuti e tenuti che diventano via via sempre più puliti e incisivi e danno vita a un classico momento iterativo jarrettiano, con melodie arabeggianti, concessioni blues, aumento di ritmo e finale con interruzione improvvisa.
Tre bis. Il primo è “Danny boy”, in un’ennesima, nuova, romantica e struggente riproposizione di circa cinque minuti.
Il secondo bis è un’incredibile versione di “Old man river”, circa sei minuti di genio assoluto! Strofa e bridge in versione classico-melodica, quindi ripetizione con basso ostinato e ripetitivo (suonato quasi tutto in piedi battendo il ritmo), ancora il bridge improvvisamente e sorprendentemente in stile bachiano e chiusura blues!!
Il terzo bis, dopo applausi trionfali e una standing ovation, è un altro bellissimo standard ballad già sentito ma di cui, purtroppo, non ho individuato il titolo (ci sarebbe voluto il mitico Riccardo Facchi al mio fianco!).
E dopo un concerto di tale intensità e bellezza è quasi sconveniente riferire di un avvenimento del tutto frivolo e di secondaria importanza. Ma so che qualcuno mi capirà e saprà comprendere, con la giusta indulgenza, questo mio entusiasmo un po’ infantile.
Grazie alla nostra amica giapponese che ci aveva procurato i biglietti (esauriti da due mesi!) siamo potuti entrare nel retro del teatro e abbiamo aspettato Jarrett davanti all’ascensore che l’avrebbe portato dai camerini all’uscita (fuori, intorno alle auto dell’organizzazione, si era formato un capannello di un centinaio di persone ma dentro non c’era nessuno). Quando si sono aperte le porte dell’ascensore e dietro a un paio di accompagnatori non identificati (non c’era il mitico Stephen Cloud) sono comparsi Jarrett e signora, vincendo, non so ancora come, l’emozione, la tachicardia, il tremore alle mani e grazie alla presenza di spirito di Roberto che, con grande prontezza e agilità, ha chiuso al maestro ogni via di fuga e l’ha incantato con un inglese fluente riuscendo, in 30 secondi, a fargli i complimenti per il magnifico concerto e a dirgli che eravamo venuti apposta dall’Italia per sentirlo, sono riuscito a mettergli in mano una biro (che è già stata riposta in una bacheca con vetro antiproiettile) e a farmi fare l’autografo sulla prima pagina del programma (un bellissimo libro di fotografie riportante tutti i concerti tenuti da Jarrett in Giappone, in edizione numerata non in vendita e riservata ai possessori del biglietto). Ovviamente il mito, pur non potendosi esimere dall’apporre la tanto desiderata firma, non ha mancato di sottolinearci come tale disdicevole attività fosse assolutamente sconsigliata per la buona salute e la conservazione del suo prezioso arto ( letteralmente: “That is bad for my arm”).
Ovviamente non chiedetemi cosa abbiamo fatto dopo il concerto! I miei ricordi riprendono dopo circa 15 ore quando, sia pure a fatica, ho cominciato a riavermi!
E siamo così giunti all’ultimo concerto, al Metropolitan Art Space, ancora un bellissimo auditorium di oltre 2000 posti (ma quanti ce ne sono a Tokyo?).
Jarrett si siede al piano intorno alle 19.05. Il primo brano ha un inizio classicheggiante, ancora una volta di chiara ispirazione bachiana. Dopo circa cinque minuti si sviluppa una melodia romantica e struggente che cresce sempre più in intensità e pathos, si incupisce su bassi inquietanti e misteriosi e torna lentamente alla luce con un nuovo sviluppo di grande dolcezza fino a chiudere il pezzo dopo circa venti minuti in totale.
Il secondo brano è una lunga, stupenda versione (oltre dodici minuti) di “Every time we say goodbye”, dolce, romantica, commovente, con una lunga coda finale con bassi ribattuti e ritmati e una conclusione improvvisa.
Il terzo brano inizia con leggere dissonanze sulle note alte, a creare quasi un effetto di campane. Poi il pezzo diventa free, dapprima molto leggero e sfuggente, poi sempre più incisivo e violento fino al parossismo, con irrefrenabili cascate di note. Quindi ancora l’effetto campane con note ribattute e ancora cascate di note, questa volta sui bassi, fino all’improvvisa interruzione dopo circa dodici minuti.
Il secondo tempo si apre con uno standard mediamente lento (purtroppo non ho individuato il titolo) di circa sette minuti, con molta improvvisazione e un finale rallentato con la melodia in grande evidenza.
Jarrett sembra un po’ indeciso sul da farsi. Prende un foglio che stava sul tavolinetto posto al suo fianco e lo appoggia sul pianoforte. Quindi parte con un altro standard, molto romantico e melodico, per circa altri sette minuti (e anche questa volta niente titolo).
Il terzo brano è “Bewitched” in una bella versione, lenta e cantabile, di circa sei minuti.
Alla fine di ogni brano Jarrett sembra leggere sul foglio che si è messo davanti( forse si è appuntato una serie di titoli “possibili”).
Il quarto brano è un altro standard di circa cinque minuti, con un bellissimo finale classicheggiante e fugato. Quindi ancora uno standard di oltre dieci minuti, con lunghe e bellissime divagazioni e improvvisazioni su un arpeggio di accompagnamento ripetuto. Purtroppo, in entrambi i casi, pur avendo riconosciuto la melodia dei pezzi, non sono stato in grado di individuare i titoli.
Il sesto brano è una struggente versione di circa dieci minuti di “As time goes by”. Jarrett, durante la parte di improvvisazione, aumenta leggermente il tempo fino a trasformarlo in uno swing, quindi rallenta e ritorna per il finale sul ritmo ballad dell’inizio.
Il concerto si chiude con un ultimo brano melodico abbastanza ritmato, di circa quattro minuti, che non ho riconosciuto e che potrebbe anche essere stato frutto di improvvisazione.
Tre bis.Il primo è un brano improvvisato di circa cinque minuti tutto giocato su un vigoroso riff di bassi ripetuti: una danza selvaggia con Jarrett sempre in piedi a battere il tempo e a dimenarsi e con stupendi stacchi finali e successiva ripresa del ritmo. Un’esplosione di gioia, una festa!
Il secondo bis è ancora uno standard, ancora una ballad di quasi dieci minuti suonata con grande sentimento e creatività (e perdonatemi l’ennesima carenza del titolo).
Il terzo bis, a ripagare il pubblico per gli applausi calorosi e per la standing ovation, è una lenta e commovente versione di “If I should lose you”.
Ho cercato di ricordare tutto e spero di essere riuscito a dare almeno un’idea della grandiosità di questi tre concerti, come sempre molto diversi tra loro ma tutti bellissimi per intensità e creatività. E chi ha assistito almeno una volta a un concerto di piano solo di Jarrett potrà immaginare lo sconvolgimento emotivo che tre avvenimenti di questo genere, concentrati nel breve spazio temporale di cinque giorni, sono in grado di provocare.
Ho ancora la mente piena di immagini, suoni, colori. E’ stato davvero difficile ritornare alla quotidianità. Ma ho aggiornato la mia lista dei concerti jarrettiani (42 dal 1983 a oggi!), mi risfoglio quasi quotidianamente il libro di foto autografato, alterno l’ascolto di “Always let me go” con quello dei “Sun bear concerts” e aspetto notizie per dare inizio a una nuova avventura.
Come dice il maestro: “Think of your ears as eyes”.
in: Io c’ero l’avventura Giapponese – Osaka, Tokyo, Tokyo
Nov 8th, 2002 Scritto da Gianluigi Bozzi
Ieri Angelo Ghirotti mi ha spedito un suo testo sul concerto che Keith Jarrett, questa volta in “a solo”, ha tenuto al Teatro alla Scala il 18 ottobre 2007.
Angelo Ghidotti
Keith Jarrett Solo Piano Improvisations, 18 ottobre 2007, Teatro alla Scala , Milano
Non mi è simpatica, La Scala. Anche se non è che ci ho visto granchè, giusto qualche opera, per biglietti omaggio o rinunce, tra nobildonne ingioiellate e notabili con il papillon. L’unica volta che mi sono sentito bene è quando ho fatto sei ore di fila per un posto in piedi in piccionaia alle Nozze di Figaro. Mi sentivo nel posto giusto, la curva sud del teatro. All’opposizione.
E invece, domenica sera siamo in prima fila. Gli altri dietro, ex sindaci giudici presidenti opinionisti e dame, e va bene così. Gianluigi 92 concerti, Enzo 51, Mirco 36, Roberto 40, io 20, (Riccardo uno solo ma un milione di ore di jazz sul contachilometri), tra Osaka e Los Angeles. Ce lo siamo guadagnato, il posto a bordo palco.
Quando entra Jarrett, alle 8 e un paio di minuti, occhialetti scuri, pantaloni e camicia neri e un gilet grigio a disegni tribali double face, e si siede alla tastiera, penso al concerto di dodici anni prima, che ho mancato nonostante ogni sforzo, ma il cui disco ho consumato. Penso all’inizio dolcissimo, lirico, irresistibile, i primi 18 minuti che hanno fatto dire a centinaia di jarrettiani in tutto il mondo, my favourite album is La Scala.
Il primo pezzo di allora durò 44 minuti. Negli ultimi solo che ho sentito, a Roma Venezia Parigi Chicago, il primo pezzo è sempre piuttosto breve e tormentato, mette le dita sulla tastiera e ne tira fuori qualcosa di irto e dissonante. Quello mi aspetto, alle 20.03 di domenica sera. E invece, l’omino in nero mi sorprende ancora una volta.
Il secondo, invece, è appunto come mi aspettavo il primo. Free jazz, bop di impronta atonale, echi di In Front. Con una precisione e una limpidezza di fraseggio, che poi, e quil’animo europeo se ne va sotto il palco, viene fuori l’americano. Emerge un ritmo che lo cambia in una specie di ostinato violento con echi di blues, per il godimento assoluto dei fans più evoluti. E la disperazione di un gentiluomo sui 90 nella fila dietro, perfetto abito da sera, panciotto e paipllon, che dice, nemmno tanto sottovoce, ‘Questo qui non ha mai sentito la musica!’. La moglie, di qualche anno più giovane, ma non molto, lo zittisce.
Al terzo pezzo una progressione di accordi che ricorda Heartland, bellissima, di una raccolta solennità. La dialettica vuole che il quarto sia di nuovo veloce e difficile. Del quinto pezzo si riconosce l’ispirazione perché la canta, quattro note a intervalli discendenti di quarta, più o meno. Un po’ modale, oserei dire.
L’ultimo della prima parte è un robusto, travolgente blues, che suona con una energia sorprendente. Ecco, a questo punto del concerto comincio a pensare che l’omino ha fatto un patto con il diavolo: a 63 anni ha il fisico asciutto, l’entusiasmo e la determinazione di un ventenne. Si alza, si china, si arcua, canta e danza tra lo sgabello e la tastiera, con raddoppi di velocità impressionanti. Quei video che circolano degli inzi degli anni 70, lui con una massa enorme di capelli che si avventa sul piano come un ossesso: è ancora lui. Il desiderio feroce di suonare.
L’intervallo non esco nemmeno dalla fila, niente foyer, niente bar, niente toilette delle signore della Milano bene da ammirare. Ci alziamo talmente entusiasti che i commenti fra di noi esauriscono il quarto d’ora di pausa.
Quando rientra, riprende il discorso del primo pezzo, o forse della Scala anni 90. Melodia accattivante, arpeggi, gemiti. Nel momento della maggiore concentrazione, in un pianissimo, piegato sui tasti alla ricerca di quel niente che separa una improvvisazione nebulosa da una ispirazione, un colpo di tosse in fortissimo dal centro della platea. Ahia.
Si ferma di colpo, si rialza. Il signore dietro di me dice . ‘Noooo!’. Jarrett chiude gli occhi un attimo, a sbollire il disappunto. Poi guarda la sala, una faro puntato negli occhi, e dice, senza acredine, anche con una certa rassegnazione: ‘No, it’s impossible. This cough.. I have lost this music, and you too, and it will never exist forever. Have you noticed that in hundreds of concerts I never coughed once? It’s a matter of concentration and respect. We are looking for silence, but the world is full of scream and noise. It’s a world… and I am American. I’m not proud of it.’
Deboli applausi. Qualcuno sibila, qualcuno parlotta, qualcuno approffitta per tossire. Magia del pezzo svanita. Lui riprende, ma a fatica. Un pezzo veloce, free, difficile. Deve ritrovare la concentrazione. Il successivo è più lungo, discontinuo, con squarci di bellezza. Ancora non si è ritrovato. Si vede che cerca ma non trova. Ha già fatto nove pezzi, potrebbe alzarsi e uscire e iniziare la liturgia dei bis.
E invece no. Poggia le dita di nuovo sulla tastiera, e va. Mi ricordo che da piccolo studiavo l’Hanon, un metodo di esercizi per le dita, e quasi verso la fine c’era un esercizio che si chiamava Tremolo, e c’era una nota che di ceva: quando Seibelt iniziava a suonare il tremolo, in sala calava un brivido.
Alla Scala cala un brivido. Un tremolo con la mano destra, incessante, martellante, e con la mano sinistra una melodia commovente. Ho i brividi, guardo Enzo sulla mia sinistra con gli occhi sgranati, tutta il teatro trattiene il fiato. Quando finisce, un uragano liberatorio di applausi.
Così può finire. Così l’incidente è chiuso. Col viso imperlato di sudore, stremato, sta in mezzo al palco, si inchina, entra ed esce diverse volte. Finche non si risiede, e ci regala quattro bis. My Wild Irish Rose, una versione delicata ma il cui tessuto armonico e ritmico si arrichisce via via e diventa un piccolo capolavoro. Poi un blues improvvisato, quindi uno standard che nessuno riconosce – almeno così pensiamo.
All’ultima uscita si fa accendere le luci in platea, e si caspice chiaramente che vuole godersi lo spettacolo. Mi volto verso i palchi, ed è veramente da trattenere il respiro. Tutta la Scala lo sta osannando. Noi in piedi nelle prime file. Poi finisce con Old Man River, Jarrett l’europeo, Jarrett che si dispiace di essere americano finisce con un classico dell’epopea afroamericana. Appalusi che non finiscono. Sorride ed esce.
Dopo la fine del concerto, Steve ci fa segno di entrare. Keith Jarrett ci riceve e non l’ho mai visto così amabile. Divertito e ironico nel resistere alle richieste di autografo, sull’interruzione per la tosse finge di battere la testa contro il muro, poi parla dell’America, della globalizzazione, della perdita della semplicità e della spontaneità, ci rivela che lo standard del bis non era un vero standard ma una improvvisazione in forma di standard, ci dà la mano, la sinistra come sempre, e alla fine fa firmare gli autografi alla moglie. Con il suo nome, e con un sorriso.
Era annuciata la registrazione del concerto, spero di poter risentire la soffusa meraviglia del primo pezzo, lo strepitoso blues, il tremolo, Ol’man River. Siamo gli ultimi. I portoni del grande ingresso del teatro sono chiusi e girovaghiamo un po’ prima di trovare l’uscita. Esco, tento di rubare il manifesto da sotto una bacheca ma si straccia e a malincuore lo lascio lì, di fronte a quello della Madama Butterfly. Allontanandomi verso via Manzoni, mi giro un’ultima volta, e guardo l’ingresso imponente della Scala, illuminato di luce gialla, con la bandiera italiana che sventola all’aria fresca di ottobre.
Sarà un po’ come ritornarci o esserci.
Grazie ad Angelo Ghirotti!
God bless the trio
Ero stato contento per mesi, dal giorno in cui avevano annunciato il concerto del trio in Piazza Loggia. Dopo aver arrancato per Europa e America a seguirlo, non ci potevo credere, veniva nella mia città, nella più bella piazza di Brescia. Potevo prendere la moto e in venti minuti arrivare lì, tranquillo, e godermi il concerto. E invece, a Perugia, qualche giorno prima, il fattaccio. I flash, gli insulti al pubblico e alla città, i bis negati, i fischi, gli articoli sui giornali, i forum, tutti durissimi, pagine e pagine con il post ‘Keith Jarrett the asshole’ pieno di repliche, una discussione già fatta mille volte ma stavolta ancora più accesa. Come fan assoluto di Jarrrett mi sentivo stretto in un angolo.
E Brescia non promette bene. Innanzitutto, i bresciani, lo dico per esperienza diretta, non è che siano tutti del gentlemen. Poi Piazza Loggia, da controllare non è facile. Vie che entrano da tutte le parti, case, palazzi, tetti, balconi affacciati, chi può impedire di usare il flash o registrare o fare un video da casa propria? Chi può evitare che intorno, dai bar, dalle viuzze, dagli stretti passaggi dietro la loggia, qualcuno non si metta a rumoreggiare, a fischiare, a gridare, a smanettare motorini? E quindi, Keith Jarrett a Brescia da un’attesa si trasforma in un’ansia.
Quando arrivo alle cinque nella piazza, parcheggio la moto e tolgo il casco, sento suonare dietro l’angolo. Corro. Jarrett con i soliti jeans azzurri la t shirt bianca e il cappellino, la sua tenuta estiva da prove. Prova i due steinway sul palco, parla con Peacock e De Johnette, con il suo manager, con il tecnico del suono. Sembra rilassato, nessuna traccia di Perugia: c’è pieno di gente ai lati del palco, che chiacchiera, fotografa, lecca gelati e cerca di avvicinarsi, ma lui niente. Suona, Never let me go, As time goes by, accenna un blues. Tutto fila liscio.
E’ un pomeriggio di sole feroce. Il palco è sistemato a ridosso della Loggia rinascimentale, al lato opposto dei portici, quelli della strage del 78. Ci saranno 1500-2000 posti. Il colpo d’occhio è notevole. Su un camper aprono la biglietteria, ci sono ancora posti disponibili. Mai visto.
La serata è bellissima, calda, dalle finestre, dai balconi, dai tetti la gente si affaccia. Due signore di una finestra tra le più vicine hanno anche messo il vestito buono e sono andate a farsi i capelli. Cominciano gli annunci, e questa volta ci vanno giù pesante. Li ripetono due o tre volte, in diverse lingue. Niente foto, né flash né senza flash, niente video, niente registrazioni fino a concerto finito. Qualche fischio alla ennesima ripetizione.
Quasi mezzanotte quando escono per un’ultima volta, e allora tutti in piedi, alle finestre, sui balconi, sui tetti, poi mi diranno nei vicoli intorno, ad acclamare quello che era stato tre giorni prima il mostro di Perugia. La gente non si tiene più, adesso davvero i flash sono molti, e il pubblico si accalca proprio sotto il palco. Anche per una serata di grazia, è troppo. Jarrett non dice niente, saluta, si volta e se ne va, si vedono i tre salire gli scalini della Loggia dandosi pacche sulle spalle.
Esco dal concerto commosso, quasi stremato. Sapere che non è stato registrato e che non sarà mai un disco mi strugge. Ma andiamo a cena, Brescia è in tiro, sexy come non mai, e alla Porta Bruciata, tra i tavoli dei ristorantini all’una di notte c’è la folla. Troviamo posto a fatica, ceniamo con grande piacere, con i racconti di Beppe e Enzo sulla tournee giapponese, i microbagni degli hotel di Tokyo dove si sbatte la testa dapperutto, la mitica camicia con l’autografo regalata da Jarrett a Enzo, che per metterla ha dovuto calare di dieci chili, e via così.
Noi c’eravamo.
Sarà un po’ come ritornarci o esserci.
Grazie ad Angelo Ghirotti!
God bless the trio
Ero stato contento per mesi, dal giorno in cui avevano annunciato il concerto del trio in Piazza Loggia. Dopo aver arrancato per Europa e America a seguirlo, non ci potevo credere, veniva nella mia città, nella più bella piazza di Brescia. Potevo prendere la moto e in venti minuti arrivare lì, tranquillo, e godermi il concerto. E invece, a Perugia, qualche giorno prima, il fattaccio. I flash, gli insulti al pubblico e alla città, i bis negati, i fischi, gli articoli sui giornali, i forum, tutti durissimi, pagine e pagine con il post ‘Keith Jarrett the asshole’ pieno di repliche, una discussione già fatta mille volte ma stavolta ancora più accesa. Come fan assoluto di Jarrrett mi sentivo stretto in un angolo.
E Brescia non promette bene. Innanzitutto, i bresciani, lo dico per esperienza diretta, non è che siano tutti del gentlemen. Poi Piazza Loggia, da controllare non è facile. Vie che entrano da tutte le parti, case, palazzi, tetti, balconi affacciati, chi può impedire di usare il flash o registrare o fare un video da casa propria? Chi può evitare che intorno, dai bar, dalle viuzze, dagli stretti passaggi dietro la loggia, qualcuno non si metta a rumoreggiare, a fischiare, a gridare, a smanettare motorini? E quindi, Keith Jarrett a Brescia da un’attesa si trasforma in un’ansia.
Quando arrivo alle cinque nella piazza, parcheggio la moto e tolgo il casco, sento suonare dietro l’angolo. Corro. Jarrett con i soliti jeans azzurri la t shirt bianca e il cappellino, la sua tenuta estiva da prove. Prova i due steinway sul palco, parla con Peacock e De Johnette, con il suo manager, con il tecnico del suono. Sembra rilassato, nessuna traccia di Perugia: c’è pieno di gente ai lati del palco, che chiacchiera, fotografa, lecca gelati e cerca di avvicinarsi, ma lui niente. Suona, Never let me go, As time goes by, accenna un blues. Tutto fila liscio.
E’ un pomeriggio di sole feroce. Il palco è sistemato a ridosso della Loggia rinascimentale, al lato opposto dei portici, quelli della strage del 78. Ci saranno 1500-2000 posti. Il colpo d’occhio è notevole. Su un camper aprono la biglietteria, ci sono ancora posti disponibili. Mai visto.
La serata è bellissima, calda, dalle finestre, dai balconi, dai tetti la gente si affaccia. Due signore di una finestra tra le più vicine hanno anche messo il vestito buono e sono andate a farsi i capelli. Cominciano gli annunci, e questa volta ci vanno giù pesante. Li ripetono due o tre volte, in diverse lingue. Niente foto, né flash né senza flash, niente video, niente registrazioni fino a concerto finito. Qualche fischio alla ennesima ripetizione.
Quasi mezzanotte quando escono per un’ultima volta, e allora tutti in piedi, alle finestre, sui balconi, sui tetti, poi mi diranno nei vicoli intorno, ad acclamare quello che era stato tre giorni prima il mostro di Perugia. La gente non si tiene più, adesso davvero i flash sono molti, e il pubblico si accalca proprio sotto il palco. Anche per una serata di grazia, è troppo. Jarrett non dice niente, saluta, si volta e se ne va, si vedono i tre salire gli scalini della Loggia dandosi pacche sulle spalle.
Esco dal concerto commosso, quasi stremato. Sapere che non è stato registrato e che non sarà mai un disco mi strugge. Ma andiamo a cena, Brescia è in tiro, sexy come non mai, e alla Porta Bruciata, tra i tavoli dei ristorantini all’una di notte c’è la folla. Troviamo posto a fatica, ceniamo con grande piacere, con i racconti di Beppe e Enzo sulla tournee giapponese, i microbagni degli hotel di Tokyo dove si sbatte la testa dapperutto, la mitica camicia con l’autografo regalata da Jarrett a Enzo, che per metterla ha dovuto calare di dieci chili, e via così.
Noi c’eravamo.
Venerdì, lemmi lemmi, senza prendere autostrade e quindi raddoppiando i tempi dello spostamento (per uno come me che vorrebbe solo stare fermo, anche un viaggetto è uno stress) ce ne andiamo a Brescia. Dove Keith Jarrett terrà l’ultimo suo concerto in Italia (di quest’anno?).
Qualcuno dei miei amici conosce la mia venerazione per questo pianista. Il massimo del Novecento. Un talento genetico poi alimentato e sostenuto da un lavoro (sì:lavoro) quotidiano di ore ed ore, per giorni e giorni, per anni e anni. Uno sforzo di improvvisazione sulla scena del tutto unico: una concentrazione impossibile per trovare, come dice lui stesso, una nota, quella nota di quel momento. Una nota che non ritornerà più. L’unica, solo quella e solo quella volta e poi mai più.
Ci sono persone (una l’ho incontrata sulla rete proprio oggi) che lo inseguono nei teatri d’Europa per cogliere quell’attimo.
Ebbene ieri a Perugia è andata così:
“Quando dal buio sono sbucate tre ombre, Jarrett caracollando verso il microfono e con aria sprezzante e ingiustificatamente provocatoria ha sibilato: “Non parlo Italiano ma qualcuno deve aver detto a tutti gli ‘assholes’ (intraducibile senza deviare nello scurrile) presenti di mettere via tutte queste fottute macchine fotografiche. Se non lo fate immediatamente mi riservo il diritto di lasciare immediatamente il palco e questa ‘God Damn City’ (maledetta città ndr), così voi avrete pagato per vedere nulla, ricordatevi che il privilegio è vostro, non certo il mio”.
Dopo i magnifici tre (Peacock, Dejohnette e Jarrett) hanno suonato a dirla con le parole del cronista di prima “una musica di una bellezza stordente”.
Poi, a fine concerto, uno stronzo del pubblico inveisce contro di loro con un”motherfucker”.
E così i tre se ne vanno senza i ricercatissimi bis. Quelli per cui i tre tirano fuori e sublimano gli eterni standard jazzistici.
E ora questi giornalistucoli del cazzo lo criticano, inveiscono sul suo carattere. E sono giornalisti “specializzati”. Immagino i cronachieri della serata.
Signori miei: di Keith Jarrett le generazioni degli umani ed anche degli extraterrestri ne tirano fuori uno ogni due secoli.
Lasciatelo stare.
State zitti. Mettete via i flash. E le cineprese da giapponesi che visitano Venezia. E i telefonini con i quali la mamma vi chiama per dire che ha versato la pasta.
Abbiamo il privilegio di essere contemporanei di un genio.
Proviamo ad avere un po’ raccoglimento.
Non sprechiamoci. Forse venerdì i tre individueranno quel corridoio che porta a “Prism”. Solo quella sera avevano imboccato quel sentiero. E per un flash lo si sarebbe perso.
Accontententiamoci.
Vogliamoci bene.
Siamo piccoli ascoltatori.
Siamo persone che facciamo (bene, magari) il nostro lavoro.
Ma non siamo dei geni.
Non abbiamo dedicato centinaia di giorni a scoprire le armonie nascoste nelle pieghe delle note.
Si va a Brescia con la possibilità di andarci per niente. Come Jannacci: “Son venuto da Como per niente …”.
Dea pagana della musica, fai che qualche cretino non mandi a puttane questo appuntamento desideratissimo.
Qui sotto il video, giustamente, si sofferma sulla faccia felice e beata di Gary Peacock. Ma chiudete un attimo gli occhi. Fatto? Li avete chiusi? Cosa sentite? …. Keith Jarrett che si è infilato nel corridoio dl capolavoro. E gli altri due lo guardano con gratitudine ed amore. Perchè è lui che ha aperto le porte di quel paradiso terreno.