Roberto Masotti, KEITH JARRETT, A Portrait, Seipersei, 2021, articolo: Tutta la musica di Keith Jarrett, di Helmut Failoni, in La Lettura Corriere della Sera, 17 gennaio 2021

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Il sommo Keith e un futuro senza piano.

Tracce di Jazz

L’intero mondo musicale attendeva qualche notizia certa sul suo stato di salute. Gli innumerevoli fans in ogni angolo del globo aspettavano una dichiarazione, qualsiasi cosa. In una corposa intervista al New York Times Keith Jarrett ha messo da parte il riserbo proverbiale e, forse anche per mettere fine ad una ridda di voci che s’intensificano da due anni a questa parte, ovvero da quando è stato colpito da due ictus che lo han costretto ad abbandonare la scena e lo strumento, ha preso la parola per lasciarsi andare ad una franca conversazione con Nate Chinen e chiarire anzitutto il suo stato di salute attuale. “Sono rimasto paralizzato. Il mio lato sinistro è ancora parzialmente paralizzato. Posso camminare con il bastone ora, ma c’è voluto oltre un anno. Ci sono voluti lunghi mesi di riabilitazione in una clinica. Fingevo di essere Bach con una mano sola, ma era solo un gioco…

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Keith Jarrett: Testament. Aspettando Live from Budapest

Tracce di Jazz

Tracks:CD1 (Salle Pleyel, Paris: November 26, 2008): Part I; Part II; Part III; Part IV; Part V; Part VI; Part VII; Part VIII. CD2 (Royal Festival Hall, London: December 1, 2008): Part I; Part II; Part III; Part IV; Part V; Part VI. CD3 (Royal Festival Hall, London: December 1, 2008): Part VII; Part VIII; Part IX; Part X; Part XI; Part XII.

Personnel:Keith Jarrett: piano.

Il nuovo album di prossima uscita, Live from Budapest, è una registrazione del concerto nella capitale ungherese durante la tournè europea del 2016. Dopo di allora è calato il silenzio, nessun concerto, nessun tour annunciato, e i pochi album che ECM ha pubblicato da allora ad oggi sono registrazioni live di periodi precedenti, risalenti anche a diversi anni prima. Quasi immediatamente sulla rete si sono sovrapposte voci in un continuo tam tam sulle condizioni di salute di Jarrett. Da indiscrezioni peraltro non…

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I 75 anni di Jarrett (08/5/1945)

Tracce di Jazz

Capriccioso, irascibile, insopportabile, ma appena mette le mani sulla tastiera ecco che la magia si sprigiona. Una carriera lunga, forse oggi minata da problemi alle mani (che speriamo siano risolvibili), costellata da una lunghissima discografia, forse eccessiva considerando la ripetitività delle due formule esclusive ormai da quasi quarant’anni: piano solo e Standard Trio. Volendo fare l’avvocato del diavolo alcuni album, sopratutto nel penultimo periodo, sembrano un pò di routine, ma, una routine di gran classe senza mai cadute di gusto. La qualità è sempre garantita, certo la freschezza e la novità non abitano più da quelle parti, ma la classe e il tocco sono rimasti immutati.

jar“Jarrett possiede l’abilità di far “cantare” il pianoforte, al punto che quando lo suona lo strumento acquisisce caratteristiche innografiche quasi sacre. Il primo ad introdurre elementi di questo tipo nel Jazz è stato Coltrane , ma Jarrett non ha rivali nel coltivare e trasporre…

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Esce mercoledì 6 marzo per Chinaski Edizioni il libro di Alessandro Balossino Keith Jarrett- improvvisazioni dell’anima: un omaggio ad uno dei pianisti più geniali della recente storia della musica, Keith Jarrett, raccontato attraverso la sua opera, ma anche attraverso quegli aspetti, decisamente più umani, che hanno travagliato la sua vita materiale e spirituale

Tracce di Jazz

Umano troppo umano: l’altro volto di Keith Jarrett per Alessandro Balossino

Esce mercoledì 6 marzo per Chinaski Edizioni il libro di Alessandro BalossinoKeith Jarrett- improvvisazioni dell’anima: un omaggio ad  uno dei pianisti più geniali della recente storia della musica, Keith Jarrett, raccontato attraverso la sua opera, ma anche attraverso quegli aspetti, decisamente più umani, che hanno travagliato la sua vita materiale e spirituale: dai momenti terribili della malattia all’interesse per le illuminanti teorie filosofiche di Georges Ivanovic Gurdjieff, dalle intuizioni sul palco alla turbolenza nei rapporti con gli altri.  E poi la musica e la sua ricerca dell’improvvisazione pura.
Keith sale sul palco non sapendo ancora cosa suonare. Si concentra mentre in sala non vola una mosca, rendendo a volte l’attesa persino imbarazzante. Poi, come per miracolo, si china sulla tastiera, le mani si avvicinano ai tasti, li sfiorano e finalmente arriva la prima nota. A…

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for Charlie Haden (1937-2014), di Keith Jarrett

For Charlie

So…Charlie….what can I say? The bass became the bass again in your hands, after all the players who thought they were making it hipper, while they were also making it more synthetic and metallic and harsh and cold (leading to the eventual winner of the contest…the so-called electric bass). You wrapped yourself around the bass while you played; inhabited it, made love to it; and those of us who heard you and played with you heard that. All around you were players who were more “detached” from the instrument. What must you have thought of that detachment? Actually, I know the answer, because in all the time we played together in my trio, the American Quartet, and with a string section, etc. (even when you were strung out on heavy drugs), you didn’t think about anything but the music. You said it was hard for you to listen to me play with my band because you knew what notes you would have played. Other bass players didn’t impress you much; what was technique if there was no heart there?

I had a tour assistant who heard “Jasmine” in a limo on the way to a gig. She was young and not familiar with jazz, but she said “You guys are so together!” and so I asked her: “What do you mean, Amy?” She said, “Well, if you played bass and Charlie played piano, you would play the same way.” This was a compliment.

Once I was backstage at a jazz festival and Ornette Coleman was also there. We had never met, and by that time I had a quartet with Dewey Redman (who was a serious alcoholic) and Charlie (who was a serious drug addict) and Paul Motian, but Dewey and Charlie had both been with Ornette and then joined my group. Ornette asked me how I knew this “church music”; I had to be black. “No,” I said, but church is everywhere. Then he asked me how I could keep a group together this long (ten years, at least) with Charlie and Dewey in the band; how was it possible? And I answered, “because they’re the best.”

In the very beginning, when I had the chance to make my first record with anybody I wanted to use, I rehearsed with another bass player, who was too busy with a different group at the time; so Charlie was my second choice (!?). I hadn’t heard him very much at the time, but after the first rehearsal it never occurred to me to look for anybody else. We had an indelible connection that lasted over 40 years. After the quartet broke up, Charlie cleaned himself up and we recorded again after 30+ years.

People will always love his playing but no one will ever imitate him. He was a rare, true original. Perfect intonation, the biggest ears, the warmest, most captivating tone in the history of the jazz bass; and ALWAYS musical. And I never had a better partner on a project for his honest input and deep understanding of our intentions in choosing the tracks for “Jasmine” and “Last Dance.”

Love You, Man.

intervento di Paolo Ferrario su SPAZIO, TEMPO E MUSICA in occasione della Mostra FREQUENZE di Doriam Battaglia BATT, allo Spazio Natta, Como 12 luglio 2014

Mostra FREQUENZE 140621/0712 Spazio Natta, Como, 12 luglio 2014
Nell’ambito della mostra di Doriam Battaglia BATT realizzata con il patrocinio del Comune di Como, Assessorato alla Cultura è stato organizzato un incontro-conversazione sul tema “Spazio, Tempo e Musica” che si è svolto sabato 12 luglio (giorno di chiusura della mostra) alle ore 18,30 presso lo Spazio Natta.

I relatori sono stati l’Arch. Angelo Monti ed il Prof. Paolo Ferrario (docente presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca) che dialogheranno con me e con l’artista Benny Posca che ha realizzato una installazione nel giardino antistante lo spazio della mostra

 

Parto dal testo di BATT che introduce le opere esposte:

batt1184

“alcune considerazioni sulle opere recenti: sguardo verso l’infinito e l’eterno; pittura “preformale” (vibrazioni, frequenze, particelle, atomi); l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande; regola dei frattali; l’opera come memoria nello spazio; il pensiero che genera la materia; l’attimo fugace (pag. 9-11)

la sua idea di invitarmi parte da questa canzone di Nina Simone: “He was too good to me” (1961) dove l’emozione dell’ascolto dipende dalle pause di silenzio che lei sa introdurre nel suo canto. Di lei diceva Charles Aznavour: “Nina Simone canta le parole delle canzoni”

Da qui una prima suggestione sul rapporto fra spazio (di una tela, di un pannello, di un quadro) e musica: spesso mi capita di rappresentarmi dentro la mia percezione uditiva la musica come delle pennellate gialle, rosse, blu.

E infatti il blu, nella musica jazz (basta ricordarsi di Duke Ellington) è molto ricorrente. E ora lo vediamo nel video  in quella tela di Batt.

A me sembra che i fondamenti del nostro percorso di attraversamento della vita siano:

il Tempo

lo Spazio

l’Eros

la Polis

il Destino

battSul Tempo possiamo fare riferimento ad una splendida lezione del fisico Carlo Rovelli al TedXlakeComo del 2002 nella quale “mostrava ” questi concetti:

  • il tempo non esiste. E’ una concezione utile ma la scienza dimostra, con le argomentazioni degli orologi,  che il tempo non esiste perchè è influenzato dalla gravità. Non esiste un unico orologio, ma tanti orologi diversi, tanti tempi diversi
  • come pure la nozione di alto e basso: che non c’è nell’universo
  • l’universo è sterminato e noi vi occupiamo un angolo piccolissimo, dove percepiamo alcune cose e che interpretiamo con i nostri necessari criteri appresi nella cultura. Il mondo è molto più ricco di come lo percepiamo
  • sull’estremamente piccolo e sull’estremamente grande abbiamo meno nozioni

Ecco: a mio avviso l’arte, la pittura, la musica riescono a rappresentare, tramite l’uso di spazio, colori, note soggettivamente rielaborate, questa complessità che ci appartiene

Qui il video di Carlo Rovelli:

Il Tempo nella musica è ben raccontato dal violoncellista Mario Brunello nel libro Il silenzio, Il Mulino, 2014. Vediamo alcuni passaggi del suo dire:

  • il silenzio è parte dell’ascolto
  • la musica ha bisogno di tempo per essere “sentita”. Occorrerebbe dedicare tempo all’ascolto
  • il silenzio valorizza i suoni
  • il silenzio consente al suono di essere valorizzato

Leggiamo:

ogni forma d’arte ha il suo spazio per il silenzio: la pittura, sorda a ogni commento, vive nel silenzio, ma arriva a descriverlo. La scultura, muta, silenziosa suo malgrado, custodisce gelosamente un insieme di suoni, parole o rumori. La poesia scritta o detta vive nel silenzio, rotto dalle parole, vive nel silenzio degli spazi bianchi non misurabili perchè possono durare all’infinito. La musica addirittura del silenzio ne fa materia prima. Il silenzio che precede la prima nota eil silenzio dopo l’ultima sono indispensabili affinchè la musica si riveli ed esista.” (pag14)

Qui una lezione di Mario Brunello nella quale farà “vedere” come John Cage è il cantore del silenzio, quando rovescia i rapporti fra suono e silenzio. Il silenzio diventa accettazione dei “suoni altri esistenti ” all’interno dello spazio concesso all’autore:

Ma è lo Spazio ad avvicinare molto la musica alla pittura.

Qui l’associazione mentale ed emotiva che faccio è al concetto di Cerchio dell’apparire, insegnato dal filosofo Emanuele Severino. Un quadro e una musica fanno apparire qualcosa. Lo fissano nel tempo.

Leggiamo le sue parole:

“La parola “apparire” non indica la parvenza, l’apparenza illusoria. Anche le parvenze e le apparenze appaiono – e appare il loro rapporto con la “realtà” di cui sono parvenze. L’apparire non è l’apparenza che altera e nasconde l’essere, ma è la manifestazione dell’essere, il suo illuminarsi, il suo mostrarsi. … Appaiono anche i sogni e i silenzi; anche i pensieri e gli affetti – tutte cose che, insieme a tante altre, non sono illuminate dalla luce del sole … e la stessa parola “apparire” proviene dal latino apparere, che è riconducibile a pario, che significa “partorisco” e a paro, “preparo, allestisco”. (in La filosofia futura, Rizzoli, 1989, p. 195-196)

e ancora:

“L’uomo e le altre cose vanno lungo una strada, così come gli astri eterni percorrono la volta del cielo. Il loro sorgere non è il loro nascere, il loro tramontare non è il loro morire, essi brillano eterni anche prima di sorgere e dopo essere tramontati. Tutte eterne, le cose, dalle più umili alle più grandi, tutte ingenerabili e incorruttibili, esse vanno lungo una strada, nel senso che vanno via via mostrandosi, vanno entrando e uscendo dalla volta dell’apparire del mondo.  (in La strada, Rizzoli, 1983, p.  134)

Ecco, a me la figura del cerchio dell’apparire -guardo voi nella sala con i quadri di Batt  ed effettivamente apparite come dentro a un cerchio- sembra perfetta per vedere le vicinanze percettive ed esistenziali fra una musica e un quadro. L’arte produce questo effetto: renderci consapevoli della eternità di ogni attimo.

C’è un’altra immagine molto adatta a far riflettere su questo tema. Le immagini di una pellicola fotografica sono una sequenza di fotogrammi. Noi percepiamo quell’attimo, che poi scompare, e nella sequenza della comparsa e scomparsa ottemiamo l’effetto della visione e dell’ascolto. Dunque i fotogrammi scorrono lungo la linea del tempo, compaiono nello spazio e scompaiono: Ma la struttura della pellicola rimane. Dunque quelle singole immagini non finiscono nel nulla, ma sono eterne.

Spiega meglio questo passaggio il filosofo Aldo Natoli, in una intervista alla vicina Radio Svizzera:

A me sembra che quando Doriam Battaglia dice “ciò che provo a rappresentare sono le vibrazioni, le frequenze dello spettro visibile, le particelle, gli atomi e le molecole che vengono a costruire la materia  di cui siamo fatti e di cui è fatto l’universo” ci avvicini, con il linguaggio dell’arte, a fare esperienza diretta della struttura sottostante  ad ogni evento che compaia nel cerchio dell’apparire

Cosa resta della scomparsa o affievolimento, nella pittura dell’ultimo secolo, dei volti, dei paesaggi? Resta la struttura delle cose. Le cose non sono solo “cose”, ma energia. La natura del mondo è un fluire di energia. La materia è un “campo” in cui le diverse espressioni dell’energia si muovono incessantemente. Il mondo fisico non è una serie di oggetti, ma una rete di interazioni in costante flusso.

I frattali, presenti nella espressione pittorica di BATT, ne sono una delle manifestazioni. Il frattale è una figura geometrica, sostenuta dalle regola matematiche, in cui un motivo identico si ripete su scala continuamente ridotta. le zone del dettaglio fanno vedere la struttura ricorsiva che si ripete, ma è  l’effetto visivo quello che ci emoziona. Apputo: struttura sottostante e risultato complessivo. C’è una struttura che sostiene ciò che entrerà nel nostro campo della visione

Un’altra associazione mi è indotta dai pannelli di Batt, soprattutto di quello “bianco” che si vede anche nel video: il rapporto fra mente e cervello.

Qui mi sostiene il libro di Daniel J. Levitin, Fatti di musica, Codice edizioni, 2006. L’autore è un neuroscienziato che ci propone una visione cognitiva dell’ascolto estetico della musica. La mente è la parte di noi che incarna pensieri, speranze, desideri, ricordi, convinzioni, esperienze. Il cervello è un organo fisico (materia) fatto di cellule, acqua, sostanze chimiche. E’ costituito da 100 miliardi di neuroni ed è capace di una quantità enorme di connessioni. Dunque: strutture e connessioni sono alla base della nostra presenza ed identità. Una struttura di base è capace di produrre esiti infiniti. E l’opera d’arte ci offre, per via emozionale, questa vertiginosa e profonda esperienza.

La musica è una combinazione organizzata di suoni nel tempo e nello spazio. E un”arte che sa esprimere i sentimenti per mezzo di un linguaggio delle note che il cervello sa elaborare, sia per la sua struttura biologica, sia per la sua capacità di “fare memoria” e di rielaborala.

Concludo con  la musica che accompagna il lavoro produttivo delle opere pittoriche di Batt. Questa mostra è stata costantemente accompagnata dalla musica di Roberto Cacciapaglia.In riferimento al suo disco “Canone degli spazi” Cacciapaglia dice: “Per comporre i miei brani io uso le triadi, che sono elementi elementari alla base dell’armonia. Usufruisco dei cicli, in cui lo strumento solista rimane sempre al centro, mentre l’orchestra ruota intorno ad esso, facendo delle fasce che vanno dal pianissimo al fortissimo, dando vita a delle orbite, come quelle dello spazio. L’orchestra diviene così come una sorta di costellazione che gira intorno, come fossero onde planetarie. Lavoro sulla presenza del suono, cercando di creare una alchimia fra gesto, suoni e intenzioni per cercare di toccare le emozioni di chi ascolta. Ad ogni modo per me è importantissimo comporre immerso nel silenzio“.

Di Nina Simone e della sua straordinaria capacità di usare il silenzio per agire con il canto e il suo pianoforte nel creare il momento “unico” dell’ascolto interiore ho già detto all’inizio.

Ma ci sono tre musicisti australiani che suonano da una trentina d’anni ad offrire, a mio avviso, una eccezionale base musicale al modo di fare pittura di Batt. Si tratta dei The Necks (Chris Abrahams, tastiere, Tony Buck batteria, Lloyd Swanton, basso).

In Italia sono praticamente sconosciuti. Io li ho inseguiti dove ho potuto, una volta a Forlì e un’altra a Berna

Ascoltiamo questo due framment musicale:

E’ difficile per i Necks proporre dei frammenti perchè la loro specificità consiste nel creare, nel qui ed ora di una serata, un unico pezzo musicale di circa un’ora. Per ascoltarli (e nel tempo di internet oggi questo sembra impossibile) occorre darsi un’ora di tempo

Vi invito a sentire i due pezzi di Aquatic e se volete a inseguire le mie successive note di ascolto.

Qui c’è un estratto di Aquatic:

I The Necks creano e suonano assieme dal 1989, fanno un jazz nuovissimo, esplorano nuove frontiere come hanno fatto i loro predecessori, che cercavano

la nota impossibile, quella che non esiste, che non c’è sulla terra” (Steve Lacy su Thelonius Monk). 

Il loro ascolto lascia sempre il segno. Eppure non hanno attraversato quella invisibile linea che passa fra il notturno trascinare gli strumenti per il piccolo pubblico e la notorietà. Ripeto: almeno in Italia.
Dipenderà anche dal fatto che abitano in una terra straordinaria, ancestrale e moderna nello stesso tempo: l’Australia. Là devono essere molto famosi, visto che continuano il loro progetto musicale difficile e inusuale: in quasi vent’anni hanno realizzato solo 34 pezzi per un totale di 20 ore. Effettivamente la loro musica assomiglia molto a quel paesaggio: sanno creare uno spazio psichico e visivo che è bello e coinvolgente attraversare con la loro guida. Sì, sanno costruire un percorso ipnotico. Come nel film Picnic ad Hanging Rock ha fatto Peter Weir (1975).
C’è una zona d’ombra su di loro e allora vorrei colmare la lacuna e illuminare qua e là.
In “Aquatic” (1999) Chris Abrahams è al Piano e all’organo Hammond, Lloyd Swanton al Contrabbasso acustico ed elettrico, Tony Buck alla batteria e alle percussioni. Questa volta c’è anche Stevie Wishart all’”Hurdy-Gurdy” (
una specie di violino elettrico che ha un suono simile alla cornamusa).
I pezzi sono due: uno di 27 minuti, e l’altro di 25. Una eccezione rispetto al loro standard, che quello di un’unica scultura musicale di circa un’ora.
L’ascolto lascia vigilmente intontiti per la bellezza del ritmo (Tony Buck è un batterista eccezionale), per le armonie degli accordi pianistici, per la ripetizione ipnotica, per tutte le cose che accadono in quella che non è solo un’iterazione minimalista.
Già il primo movimento è di grande soddisfazione per la mente musicale. Suoni raffinati che alimentano l’immaginazione, rintocchi pianistici di forte energia, un drumming-beat davvero unico, rumori ambientali appena accennati e stimolatori di benessere psichico. Come a dire: “sei in un altro spazio, ma qui si può stare bene. E’ solo diverso”.
Ma il secondo movimento è incredibilmente bello (cercherò di scegliere un assaggio  che lo rappresenti). Uno “Swing” che è indubbiamente jazzistico, ma che si avventura in un’Ambient Music di gran cultura. Inizia subito a grande velocità, con il contrabbasso violineggiante di Swanton, incalzato dal terribile Tony Buck, un vero monello della batteria. Poi il piano di
Abrahams comincia a spingere avanti. Sempre di più: trilli, battiti, con il basso a contenere. Ecco di nuovo gli archi. Sempre più veloce, impercettibilmente veloce. Viene voglia di chiudere gli occhi. Ecco: nel nero si vede lo spazio che è attraversato dalle note del piano sorrette da quel tappeto volante che è la batteria, baroccheggiata dal contrabbasso. Ora il ritmo si fa un po’ meno frenetico. E comincia il gioco fra di loro. Sì: l’interplay jazzistico inventato dal trio di Bill Evans risorgesi riattualizza in un’altra dimensione ! I tre improvvisano dentro un sonno spaziale reso possibile dalla (leggera) elaborazione elettronica dei suoni. La conclusione è di grande pace.
Sì è bello stare qui. E dove siamo ?

Ma guarda un po’: ancora in Drive By.

La loro è un’architettura musicale: siamo sempre a casa ! O meglio: si ritorna sempre a casa. Come insegna la cadenza d’inganno, qui raccontata da Alessandro Baricco:

Infine una esperienza musicale irripetibile è quella di Prism , suonato dal trio Keith Jarrett, Gary Peacock, Jack Dejhonette.

Irripetibile perchè questo pezzo è stato suonato così solo quella sera del 1985 a Tokyo e poi mai più:

Guardate Keith Jarret che vola sul pianoforte inseguendo quel frammento di mondo che ha trovato in quell’istante

Guardate Gary Peacock che ride  con il batterista come per dire: “hai visto … è partito …

E non dimentichiamoci di Dejohnette che umilmente si mette al servizio di questa esperienza unica di spazio, tempo e suoni.

Infine: grazie Doriam Battaglia Batt che ha reso possibile questo inimmaginabile incontro nell’imbrunire sul centro storico di Como, nella giornata di sabato 12 luglio 2014.

Paolo Ferrario

Essere autenticamente festivi: vedere e ascoltare il trio di Keith Jarrett che suona al Teatro Arcimboldi di Milano, 4 agosto 2011

Nella parola “festa” si sente l’iniziale “fe”  di  “felice“.

Il senso iniziale è dunque la felicità, che poi diventa l’evento festivo di cui parlano gli ordini perentori delle religioni (“ricordati di santificare la festa“, come se ci fosse bisogno di qualcuno che deve pretendere che si santifichino le feste).

In realtà è felice colui o colei che è vicino alla fonte della felicità,  che, all’origine del ciclo della vita, è il seno materno, portatore dell’alimento essenziale.

La “festa” allude alla necessità che si interrompa l’opera e che si pensi al senso dell’opera. Dopo aver lavorato l’uomo (e il dio che si è inventato) riflette sulla propria opera e celebra la festa della contemplazione del modo in cui ha agito.

questa sera sarò, con Luciana, al Teatro Arcimboldi di Milano Greco – Bicocca per: Keith Jarrett, Gary Peacock e Jack DeJohnette

Keith Jarrett, Gary Peacock e Jack De Johnette

il 21 luglio 2011, al Teatro Arcimboldi di Milano – Greco
Keith Jarrett, Gary Peacock e Jack De Johnette

Hanno suonato:

All Of You, Summertime, Stars Fell On AlabamaI’gonna laugh you right of my life; Life is just a bowl of cherriesG Blues, Answer Me My Love, Solar, All the Things You Are; When will the blues leave (tenuta su un tono molto free); Tennessee Waltz. Una diecina di brani in tutto. Ci sono anche due bis: l’ellingtoniano Things Ain’t What They Used To Be e Once Upon A Time

Nel 1983, venticinque anni fa, nasceva il cosiddetto Trio Standards, ovvero l’incontro di Keith Jarrett con il contrabbassista Gary Peacock e con il batterista Jack DeJohnette.

In quell’anno Jarrett propose a De Johnette e a Peacock, di registrare un album di standard jazz, intitolato semplicemente Standards, Volume 1. Fanno seguito immediatamente dopo Standards, Volume 2 e Changes, registrati nella medesima sessione. Il successo di questi album e il conseguente tour del gruppo consacrarono questo nuovo Standards Trio nella rosa delle formazioni jazz storiche.
Il trio è un piccolo miracolo di equilibrio e creatività, di ispirazione e di perfezione formale, il vero grande erede del Trio Bill Evans, ovvero il trio pianistico per eccellenza. Ne viene fuori, nel corso di più di tre lustri, una collezione di dischi superbi, incluso il monumentale cofanetto di sei CD registrato nel 1994 al Blue Note, il tempio del jazz newyorkese. Il Trio ha registrato numerosi album live e studio, nei quali rivisitano pezzi del repertorio jazz, citando Ahmad Jamal quale principale ispiratore, per il suo uso di linee melodiche e multitonali.
La comunicazione fra i tre artisti è praticamente telepatica e le improvvisazioni raggiungono una complessità tale che i tre strumenti si fondono in un’unica melodia. Il Trio ha intrapreso diversi tour mondiali in diverse sale da concerto (gli unici palchi, salvo sporadiche eccezioni, sui quali Jarrett, noto purista del suono, intende esibirsi).

da Teatro Arcimboldi

I tre suonano così:

Scrive Cesare Balbo:

E’ un live act quello del “Keith Jarrett Standards Trio” di domani sera agli Arcimboldi così atteso a Milano che sarebbe così scontato parlare di evento, un termine abusato e quindi inadatto per un musicista che dell’improvvisazione ha fatto arte. In un’estate musicale di alto livello per la scena milanese il ritorno di Jarrett è come un suggello.

Ma se le precedenti performance scaligere erano “solo piano” stavolta è accompagnato dai suoi fidi sodali Gary Peacock e Jack Dejohnette con cui condivide un felice sodalizio artistico da ventotto anni sotto il nome di Standards Trio, titolo del loro album di esordio. Per loro che sono ormai un classico del jazz è un atto di amore misurarsi ancora con gli standards della musica classica afro-americana: un’operazione culturale analoga a quella della musica classica ma nel segno di maggior libertà esecutiva. Non a caso la loro formazione risale ai libertari primi anni Settanta e si esprime nella scelta stilistica di cercare di improvvisare all’interno della tradizione.

L’improvvisazione è una musica al presente, che accade solo in quel momento e non si ripeterà più. E’ un “unicum” nel solco della tradizione intesa come pretesto per addentrarsi nei territori della variazione assoluta. Si fa presto a parlare di “improvvisazione” ma è una vera e propria tecnica che richiede rigore e grande conoscenza in grado di creare quel flusso sonoro in cui l’ascoltatore può immergersi una sola volta. E richiede grande concentrazione da parte di Jarrett, la voce narrante del trio sostenuta dagli sciabordii dei piatti della batteria di DeJohnette e dall’accompagnamento sinuoso del contrabbasso di Peacock. Concentrazione, a volte fraintesa come capricciosa, per i disturbi esterni provenienti dal pubblico o dai fotografi. C’è una ricca aneddotica sui tic e le manie di Jarrett che accompagna ogni esibizione, in ogni caso pensando alla magia creata dall’improvvisazione del Trio più famoso del mondo non si può non condividere il richiamo di Jarrett alle continue distrazioni che rischiano di far perdere tante cose, i dettagli, la capacità di ascolto. E’ un riconoscimento, in fondo, all’importanza del pubblico inteso come il quarto elemento delle triangolazioni musicali dei tre musicisti che dopo Napoli e Milano proseguono nel loro tour europeo.

in Sole 24 ore Eventi

Dopo il concerto

Scrive Franco Fayenz  in Il Sole 24 ore :

Il superdivo Keith Jarrett è tornato a Milano, questa volta al Teatro degli Arcimboldi con il suo celebre Standards Jazz Trio (Jarrett pianoforte, Gary Peacock contrabbasso, Jack Dejohnette batteria). Tre giorni prima i tre maestri avevano suonato al Teatro San Carlo di Napoli, e chi ha ascoltato entrambi i concerti assicura che nulla è stato ripetuto, salvo la camicia rossa e i discutibili calzoni neri del pianista.

Non ci sono dubbi. Jarrett, Peacock e Dejohnette lavorano insieme da 28 anni, pur avendo nello stesso tempo appuntamenti musicali diversi.

Significa che suonano in simbiosi, e che a loro basta un sussurro, uno sguardo, e talvolta soltanto l’istinto o le vie misteriose dell’inconscio, per intendersi sulla strada da percorrere o da cambiare.

Il pianoforte, il contrabbasso e la batteria sono fonti d’emissione di suoni stupendi e di uguale peso specifico, quello che oggi chiamiamo interplay. Oggi, in ciò che resta della grande musica per piccolo complesso che ancora, per intenderci, chiamiamo jazz, non si può fare niente di meglio. E’ vero che tempo fa c’erano stati nel trio vaghi sentori di routine, ma sappiamo che si dovevano attribuire ad alcuni problemi di salute di Peacok e ai guai sentimentali di Jarrett, adesso metabolizzati con qualche residuo percepibile nei brani che propone.  

Scelgono, i tre – ma soprattutto Jarrett e Peacock – dall’immenso patrimonio di temi sempreverdi, perlopiù americani, da cui il nome e lo scopo del trio riunito nel 1983.

La struttura di ciascuna interpretazione creativa è piuttosto semplice: esposizione del tema, variazioni improvvisate, riesposizione tematica conclusiva non priva di nuove variazioni finali talvolta lasciate volutamente sospese.

E’ nella parte centrale che non di rado emerge l’emozione del capolavoro: qui l’improvvisazione è assoluta, supera i ricordi e le influenze ambientali; e chiunque può capire che, seppure in ipotesi uno stesso tema fosse ripreso, un’improvvisazione siffatta coincide con i sentimenti dei musicisti e con un qui e ora che mai più, e in nessun altro luogo, potrà essere ripetuto nello stesso modo.

E’ un’autobiografia istantanea, una dazione di sé che supera perfino la bellezza dei mezzi con cui si esprime: il tocco e il fraseggio aereo del pianoforte, la fantasia del contrabbasso, il vigore contenuto della batteria.

Si comincia con All Of You che Jarrett nobilita con una lunga prolusione pianistica. Ecco poi Summertime a tutti noto, Stars Fell On Alabama, G Blues e nella seconda parte (Jarrett ama l’intervallo) Answer Me My Love, All the Things You Are, Tennessee Waltz. Una diecina di brani in tutto, quelli citati sono i migliori. Ci sono anche due bis, l’ellingtoniano Things Ain’t What They Used To Be e Once Upon A Time.

Questi ultimi, per quanto possa sembrare incredibile ai non iniziati, sono un premio per il pubblico (folto, ma con qualche vuoto qua e là): il pubblico, dicevo, che ha fatto il bravo e si è comportato secondo un decalogo di istruzioni per l’uso del concerto di Jarrett contenuto in un foglietto consegnato ad ogni spettatore e ripetuto da una voce femminile, per sua fortuna tra le quinte. Cari amatori della buona musica, Jarrett è così e non da oggi, ma così va accettato per quello che malgrado ciò sa donare, in solo o con gli altri due campioni. E’ evidente che in questo modo intimidisce l’uditorio che per quasi mezzora non si arrischia nemmeno ad applaudire a scena aperta come si usa nel jazz. Qualche anno fa, nel Teatro La Fenice di Venezia riaperto da poco dopo l’incendio, durante un concerto solitario Jarrett fu costretto a fermarsi e a dire al pubblico: «Applaudite o fischiate, fate qualcosa, perché non capisco se sto suonando bene o male». Alla fine, ovviamente, arrivano anche agli Arcimboldi boati di applausi e la standing ovation.

C’è una novità, almeno per noi italiani. Jarrett ha deciso di porre il pianoforte in posizione tale da voltare le terga alla platea. La giustificazione ufficiale è che in questo modo non vede nessuno, nemmeno con la coda dell’occhio, e l’ispirazione resta integra. Sarà, ma non è carino. Tanto più che il nostro suona alzandosi più che mai in piedi, limita a se stesso l’uso dei pedali e fa vedere in questo modo una gestualità che richiama alla mente più un pipistrello che un virtuoso della tastiera.

Ma, ripeto, accettiamolo così, basta che non esageri come fece in modo imperdonabile (non ha mai chiesto scusa) a Perugia nel 2007. Ve lo dice un ascoltatore di lungo corso che lo apprezzò per la prima volta dal vivo a Bologna nel 1969 (Jarrett aveva 24 anni) e fu un trionfo. Era un’altra persona, allora. Timido (lo è anche adesso), affabile, gentile. Si poteva stare a tavola con lui davanti a un piatto di spaghetti, e sentirsi dire all’improvviso: «Sai, ho paura. Ho paura di quando sarò celebre, se mai lo sarò, perché potrei perdere il senso delle proporzioni». Lo perse per la prima volta qualche anno dopo in un teatro di New York. Il sottoscritto fu testimone oculare e auricolare.

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…Jarrett è in forma. Energico, scattante, suona in piedi e si contorce come ai bei tempi, piazza delle scale a velocità stellare e poi fa cantare il piano. E’ un piacere aspettare il secondo tempo, stasera. Anche perché poi riesco a infilarmi in platea, quinta o sesta fila, dove Enzo mi segnala qualche posto libero.Si riparte con una interlocutoria Life is just a bowl of cherries, giusto per mescolare le carte. Seguita poi da una meravigliosa, emozionanteAnswer me my love, suonata con una delicatezza e ricchezza di sfumature e un tocco sublime che mi commuovono. E infatti, alla fine del pezzo l’applauso non finisce più. Segue Solar, con un lungo assolo un po’ esitante all’inizio di Jack, e poi una straordinaria versione di When will the blues leave, così diversa da tutto il resto della serata, quasi free nella sua libertà, trascinante e selvaggia. Gary si trasfigura e va in estasi nel corso del pezzo.Difficile riprendersi dopo. Ci vuole qualcosa di un po’ leggero. Tennessee Waltz è perfetta, certo non per quelli che l’hanno sentita cinquanta volte, ma la sala apprezza. I tre vecchietti si alzano, ringraziano il pubblico osannante e escono. Nonostante molti flash, ritornano in scena più volte finche non si risiedono, prima per la classica Things ain’t what they used to be, e una seconda volta. Noi pensiamo che ovviamente faranno la solita chiusura con When I fall in love, ma Jarrett decide di deliziarci con Once upon a time.Puro piacere. La gente si alza in piedi. Applaude, pesta i piedi, urla, fischia. Fotografa. Jarrett non fa una piega. Un ultimo inchino poi si accendono le luci. Sono le undici e venti. Steve appare sul palco, con una barba bianca incolta, ci dice che Jarrett stasera non riceve nessuno perché l’aeroporto sta per chiudere. ‘Please, tell him it has been a wonderful one’. ‘Ok, see you in Spain’. Nei sei concerti di questa tournèe estiva – Copenhagen, Strasburgo, Parigi, Juan, Napoli, Milano – ha suonato pezzi sempre differenti. La sua memoria musicale è mostruosa.
… Il Genio introduce e disegna arabeschi, su cui gli amici cesellano: Gary estrae voci sorprendenti dal suo contrabbasso, Jack usa spazzole e piatti con una infinita sensibilità.
Insieme, sono una dimostrazione vivente di intesa, classe, tecnica sopraffina, misura, equilibrio, enorme padronanza degli strumenti.
Il Genio non concede nulla, piegato con la testa sulla tastiera, nella tastiera, contorcendosi, con scariche di ispirazione che gli attraversano il corpo, mugugnando, di tanto intanto sorseggia da un calice.

E’ così per quaranta minuti, una buona mezz’ora di meritata pausa, poi si riprende il viaggio, tra delicate ballate e brani esplosivi.

Fine, applausi scroscianti, due bis, di nuovo applausi, fine.

Esci, nel fresco della notte milanese, la tangenziale ti accompagna verso casa, con già nel cuore il ricordo di una serata bellissima e la consapevolezza di aver udito l’eccellenza del panorama musicale moderno ….

Concerti europei per il tour estivo 2011 del trio

  • Il 7 Luglio 2011 a Stasburgo (F) al  Palais de la Musique, in occasione dello Strasbourg Jazz Festival
  • Il 9 Luglio 2011 a Copenhagen (DK) alla Opera House in occasione del Copenhagen Jazz festival
  • Il 12 Luglio 2011 a Parigi (F) alla Salle Pleyel
  • Il 16 Luglio 2011 ad Antibes Juan les Pins (F) alla Pinède Gould in occasione del Jazz a Juan
  • il 18 Luglio 2011 a Napoli (I) al Teatro San Carlo
  • il 21 Luglio 2011 a Milano (I), al Teatro degli Arcimboldi
  • il 23 Luglio 2011 a Barcelona, Spain, al Festival Grec
  • Il 27 Luglio 2011 a Londra (UK) alla Royal Festival Hall
  • il 21 Ottobre 2011 a Chicago (Illinois) alla Symphony Hall
  • il 26 Ottobre 2011 a Los Angeles (California) alla UCLA Royal Hall
  • il 29 Ottobre 2011 a Berkeley (California) alla Zellerbach Hall

Jarrett chiude il Ravenna Festival


Jarrett appare divertito e sereno, tanto che più d’uno tra gli habituè si è stupito che iniziasse a suonare nonostante gli applausi si prolungassero ben oltre il suo sedersi al piano. Conquistato il silenzio e voltate le spalle al pubblico, Jarrett si raccoglie sul piano e inizia.
Della musica c’è poco da dire. Chi lo conosce sa che quando questo omino, poco più alto di 1 metro e sessanta, che si alza, si inginocchia, si mette di sbieco, ondeggia, alza i gomiti, li abbassa, butta dietro la testa, si scuote, guarda Gary e Jack, smette appena, riparte, urla sottovoce quando, insomma, suona il suo pianoforte diventa un gigante e la musica che sembra si generi da sola, va esattamente dove deve andare e ti aspetti che vada, esattamente lì dove pochi altri riescono a mandarla: vicino al cuore, ad illuminare l’anima con una naturalezza, una velocità ed una lancinante poesia da lasciare l’ascoltatore “disarmato”.
La sua musica, insomma, illumina il buio del Pala De Andrè (l’avvocato Mauro, collaboratore del Gruppo Ferruzzi, nonché fratello di Fabrizio) e si pone come il giusto coronamento del tema scelto dal Ravenna Festival. Come sempre, però, l’imprevisto con Jarrett è dietro l’angolo. E dire che il segnale del cambiamento d’umore del musicista statunitense era arrivato.
Puntuale come un orologio, infatti, contrariamente al solito, lo speaker, all’inizio del secondo tempo, ha ripetuto – in italiano, prima e in inglese, poi – come fosse assolutamente vietato fare foto pena la cancellazione dei “bis” e dei saluti finali.
Ma tant’è, i tanti giovani presenti non vi hanno dato peso e, così, al termine del secondo tempo, in cui l’intensità delle esecuzioni è – se possibile – cresciuta, il primo dei “bis” ha tardato ad arrivare. Quando, poi, tutto il pubblico in piedi ha iniziato a rumoreggiare ed è partito il “flash” d’una foto, Jarrett non ci ha visto più. Ha conquistato il microfono da cui, se avesse funzionato, avrebbe avuto modo di spiegare, come sempre fa in questi casi “No photo, i said. The music is a flux, you don’t understand”.

Jarrett chiude il Ravenna Festival. “Dalle tenebre…” un colpo di flash rompe l’incantesimo

JARRETT TRIO Al LAZZARETTO DI BERGAMO


Nel corso del tempo il trio è divenuto una macchina sempre più perfetta, eliminando orpelli e contenendo esuberanze. Basta vedere il ruolo di De Johnette, mai cosi’ basilare e fondamentale nel suono complessivo, e sempre assolutamente controllato e minimale. Esattamente il contrario di quello che accade invece nella maggior parte dei progetti personali del batterista. Anche l’apporto di Peacock mi è parso particolarmente concentrato ed in evoluzione; mai solo supporto ritmico ma sopratutto melodico, liricamente alternativo al leader, con un suono di inconfondibile bellezza.
Il repertorio è ovviamente il solito: la grande canzone americana più qualche brano preso direttamente dalla penna di grandi jazzisti (Thelonious Monk, John Lewis,…). Due set, il primo di circa 50 minuti con la musica che sale progressivamente di intensità, raggiungendo il culmine nella coda improvvisata dell’ultimo pezzo. Sono momenti di magia pura, con Jarrett che inventa una melodia costruita su poche note ripetute. Tensione e rilascio, bellezza e rapimento. I piatti che scandiscono meravigliosamente il tema, poi la musica si acquieta e purtroppo giunge la pausa che spezza l’incantesimo.
l’intero articolo qui:

PARANOIE E MAGIE: JARRETT TRIO A BERGAMO su Mondo Jazz

Keith Jarrett Gary Peacock Jack DeJohnette Standards I/II Tokyo 1985 and 1986

Keith Jarrett
Gary Peacock
Jack DeJohnette
Standards I/II
Tokyo 1985 and 1986

Keith Jarrett piano
Gary Peacock double-bass
Jack DeJohnette drums

DVD 1

I Wish I knew
If I Should Lose You
Late Lament
Rider
It’s Easy To Remember
So Tender
Prism
Stella By Starlight
God Bless The Child
Delaunay’s Dilemma

DVD 2

You Don’t Know What Love Is
With A Song In My Heart
When You Wish Upon a Star
All Of You
Blame It On My Youth
Love Letters
Georgia On My Mind
You And The Night And The Music
When I Fall In Love
On Green Dolphin Street
Woody’n You
Young And Foolish

Recorded live February 1985 and October 1986
ECM 5502_03

Order

Two long out of print concert films of the ‘Standards Trio’ in Tokyo – 1985 and 1986 – make their first appearance on ECM as a specially priced 2-DVD set. The two Japanese shows – earliest filmed documents of the trio – have quite different characters.
Volume I finds Jarrett reaching into a down-home, country-and-gospel inflected mode on several tunes, especially his own piece “Rider” and the Arthur Herzog/Billie Holiday “God Bless The Child”. In these moments, the trio moves into a joyful zone that has qualities in common with Jarrett’s playing in the Belonging band.
Volume II features a particularly exquisite performance of an all-standards programme, with a transcendent “On Green Dolphin Street” and a version of Dizzy Gillespie’s “Woody’n’You” that embodies the best of bebop

ECM 5502_03

Keith Jarrett Gary Peacock Jack DeJohnette Live In Japan 93 / 96

Keith Jarrett
Gary Peacock
Jack DeJohnette
Live In Japan 93 / 96

Keith Jarrett piano
Gary Peacock double-bass
Jack DeJohnette drums

DVD 1

Introduction
In Your Own Sweet Way
Butch And Butch
Basin Street Blues
Solar – Extension
If I Were A Bell
I Fall In Love Too Easily
Oleo
Bye Bye Blackbird
The Cure
I Thought About You

DVD 2

Introduction
It Could Happen To You
Never Let Me Go
Billie’s Bounce
Summer Night
I’ll Remember April
Mona Lisa
Autumn Leaves
Last Night When We Were Young – Caribbean Sky
John’s Abbey
My Funny Valentine – Song
All The Things You Are
Tonk

Recorded live July 1993 and March 1996
ECM 5504_5

Order

Concluding a celebratory year for the Standards Trio, a second specially-priced double DVD package of Tokyo concerts. Standards III/IV brings together the films “Live At Open Theater East 1993” and “Concert 1996” for the first time on ECM. The 1993 set is an open air concert that tackles a large slice of jazz history from “Basin Street Blues” to Sonny Rollins’ “Oleo”, Jarrett’s own “The Cure” and much more. The 1996 date is the filmed footage that corresponds to the trio’s “Tokyo ‘96” CD but adds extra material – including a glowing “All The Things You Are” and a jaunty account of Ray Bryant’s “Tonk”.

ECM 5504_5

un’intera settimana di programmazione alla figura e all’opera di Keith Jarrett, in occasione dell’uscita di Jasmine, il nuovo lavoro con Charlie Haden


La radio francese France Musique dedicherà un’intera settimana di programmazione alla figura e all’opera di Keith Jarrett, in occasione dell’uscita di Jasmine, il nuovo lavoro con Charlie Haden.
Ecco il palinsesto:

  • Dal 3 al 6 maggio, ogni sera dalle 19.10 alle 20.00, le puntate del programma Open Jazz verteranno sulla musica di Jarrett e saranno condotte da Alex Dutilh;
  • La notte tra l’8 e il 9 maggio, invece, avrà luogo una maratona speciale dall’ 1.00 alle 7.00, tutta dedicata a Jarrett.

French radio France Musique will dedicate a week of programming to Keith Jarrett, on the occasion of Jasmine release, the new recording with Charlie Haden.
Here is the program:

  • From 3rd May to 6th May, every evening from 7.10 PM to 8.00 PM, the Open Jazz will be dedicated to Keith Jarrett: Alex Dutilh will host the program;
  • On the entire night between 8th and 9th May, from 1.00 AM to 7.00 AM, France Musique will broadcast exclusively Jarrett’s Music.

une semaine avec Keith Jarrett

KEITH JARRETT – CHARLIE HADEN JASMINE (E.C.M.) 2010, recensione di Mondo Jazz

KEITH JARRETT – CHARLIE HADEN JASMINE (E.C.M.) 2010

Post n°1489 pubblicato il 20 Aprile 2010 da pierrde


  • For All We Know
  • Where Can I Go Without You
  • No Moon At All
  • One Day I’ll Fly Away
  • Intro – I’m Gonna Laugh You Right Out Of My Life
  • Body And Soul
  • Goodbye
  • Don’t Ever Leave Me
  • vai alla recensione di Mondo Jazz:  KEITH JARRETT – CHARLIE HADEN JASMINE (E.C.M.) 2010 su Mondo Jazz

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    Keith Jarrett, Charlie Haden, Jasmine, Amazon.com

    Jasmine
     
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    Festival di Sanremo: Musica, Canzonette e Biografia, di Paolo Ferrario in Muoversi Insieme Stannah | Tracce e Sentieri

    … in ogni società conosciuta, musica e danza sono forme espressive universali. E’ solo negli ultimi 500 anni che la musica è diventata un’attività per spettatori: “L’idea del concerto musicale – dice ancora Levitin – in cui una classe di “esperti” si esibisce per un pubblico riconoscente è praticamente assente nella nostra storia come specie”.
    E’ in questo lunghissimo orizzonte evolutivo che possiamo ripensare il nostro piacere nell’ascoltare (o vedere ed ascoltare) la musica. Quello che cerchiamo è un’esperienza delle emozioni. Potremmo dire ancora meglio: ci educhiamo ad entrare in rapporto con le nostre emozioni. La musica serve a trasmettere sentimenti attraverso un rapporto fra i gesti fisici e il suono. Il felice compito del musicista è di mettere assieme il suo stato mentale ed emotivo per comunicarlo a noi: e così facendo, dentro di noi si sviluppa un apprendimento esistenziale. Ma facciamo una prova, visto che internet ce lo permette. Osserviamo come Nina Simone costruisce con il corpo, le mani e la voce il suo meraviglioso Four Woman. E ancora, guardiamo la faccia beata di Gary Peacock mentre imbocca il paesaggio musicale di quel capolavoro di improvvisazione del Trio Keith Jarrett che è Prism. In queste due interpretazioni si può percepire cos’è la bellezza e come si struttura dentro una relazione. Ma leggiamo anche le migliaia di commenti che i visitatori di tutto il mondo lasciano: ci renderemo conto che stiamo partecipando ad una esperienza sociale priva di barriere geografiche. Sono solo due esempi (fra i più alti) di quanta strada sia stata fatta nell’evoluzione umana   SEGUE

    L’INTERO ARTICOLO E’ QUI: Ferrario Paolo, Festival di Sanremo, Musica, Canzonette e biografia

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    Trio Jarrett/Peacock/DeJohnette, Concerti in Giappone nell’autunno 2010

    Nuove date in agenda per il Trio Jarrett/Peacock/DeJohnette.

    Come ufficializzato sul sito di Koinuma Music, il gruppo terrà infatti cinque concerti nell’autunno di quest’anno, tutti in Giappone. Consulta la pagina dedicata agli appuntamenti live.

    • September 23, 2010: Orchard Hall, Bunkamura, Tokyo
    • September 26, 2010: Kobe Kokusai Kaikan (Kobe International House), Kobe
    • September 29, 2010: Orchard Hall, Bunkamura, Tokyo
    • October 1, 2010: Kanagawa Kenmin Hall, Yokohama
    • October 3: Orchard Hall, Bunkamura, Tokyo

    (Thanks to keithjarrett.org)

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    Jazzit – Intervista a Keith Jarrett

    Sulla rivista musicale “Jazzit” di gennaio/febbraio appare una lunga intervista a Jarrett condotta da Stuart Nicholson e relativa a “Testament”, ultimo disco del pianista.

    Jazzit – Intervista a Keith Jarrett

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    Keith Jarrett, Gary Peacock, Jack DeJohnette, Live at Open Theater East, 25 luglio 1993

    visto e sentito oggi:
    Keith Jarrett, Gary Peacock, Jack DeJohnette, Live at Open Theater East, 25 luglio 1993
    Eccezionale la creazione della loro irripetibile amicizia al 46° minuto
    Il pezzo non è questo.
    Dovrò metterlo su Youtube

    Keith Jarrett Gary Peacock Jack DeJohnette Standards I/II Tokyo 1985 and 1986


    Keith Jarrett
    Gary Peacock
    Jack DeJohnette
    Standards I/II
    Tokyo 1985 and 1986

    Keith Jarrett piano
    Gary Peacock double-bass
    Jack DeJohnette drums
     
    DVD 1

    I Wish I knew
    If I Should Lose You
    Late Lament
    Rider
    It’s Easy To Remember
    So Tender
    Prism
    Stella By Starlight
    God Bless The Child
    Delaunay’s Dilemma

    DVD 2

    You Don’t Know What Love Is
    With A Song In My Heart
    When You Wish Upon a Star
    All Of You
    Blame It On My Youth
    Love Letters
    Georgia On My Mind
    You And The Night And The Music
    When I Fall In Love
    On Green Dolphin Street
    Woody’n You
    Young And Foolish

    Recorded live February 1985 and October 1986
    ECM 5502_03

    Order

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    Keith Jarrett Tokyo Solo, 2002


    Keith Jarrett
    Tokyo Solo

    Keith Jarrett piano
     
    Applause
    Part 1a
    Part 1b
    Part 1c
    Part 2a
    Part 2b
    Part 2c
    Part 2d
    Part 2e
    Danny Boy
    Old Man River
    Don’t Worry ‘Bout Me

    DVD!

    Recorded October 2002
    ECM 5501
     
    Background
    Pressreactions

    Order

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    Keith Jarrett, Solo, Tokyo 2002

    Su questi concerti scrive Gianluigi Bozzi

    KEITH JARRETT Piano solo
    27 ottobre 2002
    OSAKA Festival Hall

    30 ottobre 2002
    TOKYO Metropolitan Festival Hall (150° concerto in Giappone)

    31 ottobre 2002
    TOKYO Metropolitan Art Space

    Sento il bisogno di ripensare con calma a quello che è successo, di ricostruirlo e riviverlo nella mente, di raccontarlo agli amici per renderli, almeno in parte e per quel poco che la scrittura e la difficoltà di esprimere le emozioni consentono, partecipi di questa straordinaria avventura.

    Ci sono momenti nei quali, ancora adesso, a distanza di una settimana, non mi pare possibile essere stato a 10.000 chilometri e a 12 ore di volo da qua e aver provato gioia, emozioni, stupore, commozione, entusiasmo così intensi e assoluti.

    La scelta della musica di accompagnamento alla scrittura di questi “ricordi” è stata facile: Osaka, 8 novembre 1976, per omaggio, coerenza e continuità storica ed emozionale. Poi proseguirò con Tokyo, 14 novembre.

    Le prime notizie in merito al ritorno di Keith Jarrett ai concerti in piano solo e al tour in Giappone per celebrare il 150° concerto in quel paese mi erano state fornite dall’amico Mirco, sempre attento e informatissimo a tutto ciò che riguarda il “maestro”.

    L’idea un po’ folle di andare in Giappone apposta per questi concerti è nata, quasi per scherzo, durante il tour europeo dello Standards Trio di quest’estate. Ma l’amico Roberto ha saputo tradurre lo scherzo (o il sogno?) in realtà, organizzando tutto quanto (voli, soggiorni, spostamenti, biglietti) con competenza, coraggio, fortuna, entusiasmo e simpatia, vincendo tutte le mie pigrizie e incertezze e paure e rendendo così possibile questa indimenticabile avventura giapponese.

    Siamo partiti sabato 26 ottobre alle ore 14.30 da Malpensa, con un volo diretto per Osaka (precisiamolo una volta per tutte: si pronuncia òsaca, con l’accento sulla o e con la s di “sale”). Dopo 12 ore di viaggio (più 8 ore di fuso) siamo arrivati a destinazione e alle ore 17, con una modesta oretta di anticipo sull’orario di inizio, ci siamo presentati all’entrata della Festival Hall, un bellissimo auditorium di ca. 2700 posti, ovviamente esauriti.

    I giapponesini arrivano al concerto alla spicciolata, non formano code (ognuno possiede già il biglietto e tutti i posti sono numerati), parlano molto sottovoce e si accomodano in silenzio (sembra di stare in chiesa!). Purtroppo però si annidano anche tra di loro alcuni incurabili bronchitici che, con indicibili sofferenze, sapranno trattenersi fino all’inizio del concerto per poi finalmente lasciarsi andare a isolati ma ben calibrati e cadenzati colpi di tosse (ma allora “tutto il mondo è paese”!?! E le caramelle? E gli sciroppi? E starsene a casa se si è malati? E tossire “educatamente”, magari approfittando di un crescendo e non sguaiatamente proprio mentre il brano sta attraversando il suo momento di maggior lirismo e di minor numero di note suonate? Mah!).

    Alle 18.10 compare Jarrett, si dirige al piano con il solito passo flemmatico, ringrazia il pubblico, si leva l’orologio, si siede e inizia il concerto.

    Il primo brano ha un avvio free molto lento e pacato, quindi prende sempre più corpo per diventare deciso e veemente fino a quando Jarrett, verso il decimo minuto, trova una melodia romantica e classicheggiante che risolve, intorno al quindicesimo minuto, su un basso ostinato e ripetuto, con varie divagazioni, fino alla conclusione del pezzo, dopo circa venti minuti in totale.

    Nonostante la lunga pausa (il brano è del tutto evidentemente finito) il pubblico non applaude (forse perché Jarrett rimane troppo concentrato sulle tastiera o non ne allontana decisamente le mani).

    Jarrett riprende a suonare una parte sui bassi molto decisa ma si interrompe quasi subito per alcuni rumori e colpi di tosse da parte del pubblico. Partono allora gli applausi ma Jarrett fa segno di no con le mani e richiede a gesti altri colpi di tosse. Poi dice al pubblico:”Tossite adesso!”, quindi si alza, beve un sorso d’acqua, ringrazia un po’ ironicamente, si risiede e regala un gioiello di circa cinque minuti, una sorta di ballad molto melodica e “americana”.

    Con il terzo brano si torna alle atmosfere free: dopo un paio di minuti di note veloci e in libertà c’è una brusca interruzione e il brano riprende, più lentamente, con note alte ribattute e un lavoro di bassi e pedale a prolungare e mischiare tutti i suoni in un magma sonoro straniante e ipnotico. Dopo circa otto minuti Jarrett ritorna decisamente al free per circa due minuti fino alla conclusione.

    Segue un nuovo brano lento e romantico, con grande melodia e accompagnamento ad arpeggi di stampo classico. Circa sei minuti di grande atmosfera ed emozione e si chiude il primo tempo.

    Il secondo tempo inizia con Jarrett che ancora ironizza con il pubblico per i continui colpi di tosse che quasi gli impediscono di cominciare. Parte finalmente il primo brano, con circa cinque minuti di free piuttosto deciso che sfocia, incredibilmente e sorprendentemente, in un fugato veloce di rigorosa matrice classica per circa altri cinque minuti (credo di sapere che la composizione classica ha canoni e regole che possono indirizzare verso passaggi quasi “obbligati” e che quindi possono, entro certi limiti, “agevolare” la creazione istantanea ma la complessità e la ricchezza delle linee melodiche e l’intrecciarsi continuo delle varie “voci” mi hanno lasciato, ancora una volta, stupefatto di fronte a tanta “perfezione”!).

    Il secondo brano è un nuovo gioiello di circa cinque minuti: una classica “americana”, con una bellissima, ritmata e coinvolgente melodia.

    Seguono altri cinque minuti di melodia, sviluppata su un tappeto di accordi secchi e ripetuti a segnare un tempo lento, che si interrompe all’improvviso.

    Il quarto brano dura circa quindici minuti. Inizia lentamente, con una melodia che si fa strada fra una serie di accordi quasi dissonanti, di stampo impressionista, per diventare sempre più carico di pathos e di tensione, fino al finale con i bassi a fare da cassa di risonanza.

    Il concerto si chiude con uno “scherzo”: un pezzo free con frasi e accentazioni bebop di circa un minuto.

    Due bis. Il primo è un grandioso “ostinato” di circa sei minuti, con basso fisso e ripetuto e destra “svolazzante” sulla tastiera. Il secondo è il capolavoro del concerto! Una ballad di circa cinque minuti assolutamente stupenda. Potrebbe essersi trattato di uno standard (da me mai sentito prima) o di un “traditional” (a questo mi ha fatto pensare la struttura del pezzo) ma se, come ritengo, si è trattato di un brano improvvisato, siamo di fronte a un nuovo incredibile colpo di genio del maestro!

    Dopo 2 giorni di turismo a Kyoto (del tutto inutile dopo una simile performance ma d’altronde bisognava pure far passare il tempo in attesa del nuovo evento!) ci siamo trasferiti a Tokyo ( con un simpatico trenino che si è bevuto 552 chilometri in poco più di due ore!). Pomeriggio a fare shopping per tenere a bada l’emozione e finalmente (questa volta con un’ora e mezza di anticipo) siamo davanti alla Metropolitan Festival Hall, altro bellissimo auditorium di circa 2300 posti.

    Alle 19.05 Jarrett entra in scena e inizia “l’avvenimento”, il 150° concerto giapponese!

    Parte un brano free lento, pacato, arioso, quasi “melodico”. Dopo circa sette minuti la melodia prende il sopravvento e diviene struggente. Ma riprende il free, quindi inizia un fugato sui bassi di sapore bachiano che si tramuta in un basso ribattuto e risonante sul quale si innesta una melodia dapprima dissonante,poi via via sempre più classica, grandiosa, sofferta, struggente. Jarrett è in totale trance creativa: canta, soffre, gioisce, si alza, si risiede, si contorce, mugola e raggiunge una delle sue vette più alte (non mi vergogno a dire che ho pianto! Mi rendo conto che probabilmente si è trattato di un momento di particolare commozione dovuto all’accumularsi di una serie di emozioni di carattere anche esterno, ma la musica creata da Jarrett è stata poesia pura e in quel momento, sul palco davanti a me, c’era la perfezione dell’arte, il bello assoluto, il gesto, il pensiero, il sentimento, la creazione, la purezza, la semplicità, l’amore…).

    Alla conclusione del brano, durato circa venticinque minuti, il pubblico rimane ammutolito. E qui ho amato i giapponesi perché l’applauso sarebbe suonato “stonato”, avrebbe turbato l’incanto del momento, avrebbe ricondotto alla banale normalità l’eccezionalità di ciò a cui avevamo assistito.

    Dopo una lunga pausa di silenzio Jarrett parte con un basso free ma viene interrotto da un applauso isolato (subito zittito). Riprende con un trillo/tremolio e quindi con un free veloce ricco di note, di dissonanze, di scale che si inseguono e si intrecciano per circa dieci minuti. Quindi trova una melodia con note ribattute che diventa sempre più imponente e decisa fino a spegnersi su una linea romantica e classicheggiante dopo circa cinque minuti. Ma è un falso finale perché il brano riprende forza, acquista di nuovo pathos e drammaticità e si chiude dopo altri quattro minuti circa di nuova struggente melodia.

    Un primo tempo indescrivibile!!! Posso solo augurarmi che venga realizzato, come è nelle previsioni, il DVD del concerto e che tutti possano godere di questo momento di assoluta creatività e genialità.

    Il secondo tempo ha inizio con un brano di circa dieci minuti con una melodia bellissima e classicheggiante che si sviluppa su un avvolgente e misterioso accompagnamento ad arpeggi.

    Il secondo brano ha una partenza veemente e incisiva, con un basso ostinato e note ripetute che si rincorrono fino a un’improvvisa interruzione, preludio a una ripresa decisamente classica, quasi un’invenzione a due voci, con le linee melodiche che si intrecciano e sovrappongono. Dopo circa dieci minuti il brano ha una nuova stasi, su note staccate, alte e basse, lasciate risonare a lungo. Purtroppo alcuni colpi di tosse rompono l’atmosfera trasognata e sognante che si stava creando e costringono Jarrett a interrompersi e a dar vita alla solita gag con il pubblico. Ma, come tante altre volte ci è già capitato di constatare, l’interruzione non rovina l’ispirazione.

    Jarrett riprende con accordi e melodia tipo standard e crea una nuova “americana”, un gioiello, un capolavoro assoluto di quasi dieci minuti.

    E c’è ancora il tempo per circa altri quindici minuti di grande musica: un brano che inizia con dei trilli a più note lasciate risonare tenendo premuto il pedale, si sviluppa con una melodia innestata su bassi ribattuti e tenuti che diventano via via sempre più puliti e incisivi e danno vita a un classico momento iterativo jarrettiano, con melodie arabeggianti, concessioni blues, aumento di ritmo e finale con interruzione improvvisa.

    Tre bis. Il primo è “Danny boy”, in un’ennesima, nuova, romantica e struggente riproposizione di circa cinque minuti.

    Il secondo bis è un’incredibile versione di “Old man river”, circa sei minuti di genio assoluto! Strofa e bridge in versione classico-melodica, quindi ripetizione con basso ostinato e ripetitivo (suonato quasi tutto in piedi battendo il ritmo), ancora il bridge improvvisamente e sorprendentemente in stile bachiano e chiusura blues!!

    Il terzo bis, dopo applausi trionfali e una standing ovation, è un altro bellissimo standard ballad già sentito ma di cui, purtroppo, non ho individuato il titolo (ci sarebbe voluto il mitico Riccardo Facchi al mio fianco!).

    E dopo un concerto di tale intensità e bellezza è quasi sconveniente riferire di un avvenimento del tutto frivolo e di secondaria importanza. Ma so che qualcuno mi capirà e saprà comprendere, con la giusta indulgenza, questo mio entusiasmo un po’ infantile.

    Grazie alla nostra amica giapponese che ci aveva procurato i biglietti (esauriti da due mesi!) siamo potuti entrare nel retro del teatro e abbiamo aspettato Jarrett davanti all’ascensore che l’avrebbe portato dai camerini all’uscita (fuori, intorno alle auto dell’organizzazione, si era formato un capannello di un centinaio di persone ma dentro non c’era nessuno). Quando si sono aperte le porte dell’ascensore e dietro a un paio di accompagnatori non identificati (non c’era il mitico Stephen Cloud) sono comparsi Jarrett e signora, vincendo, non so ancora come, l’emozione, la tachicardia, il tremore alle mani e grazie alla presenza di spirito di Roberto che, con grande prontezza e agilità, ha chiuso al maestro ogni via di fuga e l’ha incantato con un inglese fluente riuscendo, in 30 secondi, a fargli i complimenti per il magnifico concerto e a dirgli che eravamo venuti apposta dall’Italia per sentirlo, sono riuscito a mettergli in mano una biro (che è già stata riposta in una bacheca con vetro antiproiettile) e a farmi fare l’autografo sulla prima pagina del programma (un bellissimo libro di fotografie riportante tutti i concerti tenuti da Jarrett in Giappone, in edizione numerata non in vendita e riservata ai possessori del biglietto). Ovviamente il mito, pur non potendosi esimere dall’apporre la tanto desiderata firma, non ha mancato di sottolinearci come tale disdicevole attività fosse assolutamente sconsigliata per la buona salute e la conservazione del suo prezioso arto ( letteralmente: “That is bad for my arm”).

    Ovviamente non chiedetemi cosa abbiamo fatto dopo il concerto! I miei ricordi riprendono dopo circa 15 ore quando, sia pure a fatica, ho cominciato a riavermi!

    E siamo così giunti all’ultimo concerto, al Metropolitan Art Space, ancora un bellissimo auditorium di oltre 2000 posti (ma quanti ce ne sono a Tokyo?).

    Jarrett si siede al piano intorno alle 19.05. Il primo brano ha un inizio classicheggiante, ancora una volta di chiara ispirazione bachiana. Dopo circa cinque minuti si sviluppa una melodia romantica e struggente che cresce sempre più in intensità e pathos, si incupisce su bassi inquietanti e misteriosi e torna lentamente alla luce con un nuovo sviluppo di grande dolcezza fino a chiudere il pezzo dopo circa venti minuti in totale.

    Il secondo brano è una lunga, stupenda versione (oltre dodici minuti) di “Every time we say goodbye”, dolce, romantica, commovente, con una lunga coda finale con bassi ribattuti e ritmati e una conclusione improvvisa.

    Il terzo brano inizia con leggere dissonanze sulle note alte, a creare quasi un effetto di campane. Poi il pezzo diventa free, dapprima molto leggero e sfuggente, poi sempre più incisivo e violento fino al parossismo, con irrefrenabili cascate di note. Quindi ancora l’effetto campane con note ribattute e ancora cascate di note, questa volta sui bassi, fino all’improvvisa interruzione dopo circa dodici minuti.

    Il secondo tempo si apre con uno standard mediamente lento (purtroppo non ho individuato il titolo) di circa sette minuti, con molta improvvisazione e un finale rallentato con la melodia in grande evidenza.

    Jarrett sembra un po’ indeciso sul da farsi. Prende un foglio che stava sul tavolinetto posto al suo fianco e lo appoggia sul pianoforte. Quindi parte con un altro standard, molto romantico e melodico, per circa altri sette minuti (e anche questa volta niente titolo).

    Il terzo brano è “Bewitched” in una bella versione, lenta e cantabile, di circa sei minuti.

    Alla fine di ogni brano Jarrett sembra leggere sul foglio che si è messo davanti( forse si è appuntato una serie di titoli “possibili”).

    Il quarto brano è un altro standard di circa cinque minuti, con un bellissimo finale classicheggiante e fugato. Quindi ancora uno standard di oltre dieci minuti, con lunghe e bellissime divagazioni e improvvisazioni su un arpeggio di accompagnamento ripetuto. Purtroppo, in entrambi i casi, pur avendo riconosciuto la melodia dei pezzi, non sono stato in grado di individuare i titoli.

    Il sesto brano è una struggente versione di circa dieci minuti di “As time goes by”. Jarrett, durante la parte di improvvisazione, aumenta leggermente il tempo fino a trasformarlo in uno swing, quindi rallenta e ritorna per il finale sul ritmo ballad dell’inizio.

    Il concerto si chiude con un ultimo brano melodico abbastanza ritmato, di circa quattro minuti, che non ho riconosciuto e che potrebbe anche essere stato frutto di improvvisazione.

    Tre bis.Il primo è un brano improvvisato di circa cinque minuti tutto giocato su un vigoroso riff di bassi ripetuti: una danza selvaggia con Jarrett sempre in piedi a battere il tempo e a dimenarsi e con stupendi stacchi finali e successiva ripresa del ritmo. Un’esplosione di gioia, una festa!

    Il secondo bis è ancora uno standard, ancora una ballad di quasi dieci minuti suonata con grande sentimento e creatività (e perdonatemi l’ennesima carenza del titolo).

    Il terzo bis, a ripagare il pubblico per gli applausi calorosi e per la standing ovation, è una lenta e commovente versione di “If I should lose you”.

    Ho cercato di ricordare tutto e spero di essere riuscito a dare almeno un’idea della grandiosità di questi tre concerti, come sempre molto diversi tra loro ma tutti bellissimi per intensità e creatività. E chi ha assistito almeno una volta a un concerto di piano solo di Jarrett potrà immaginare lo sconvolgimento emotivo che tre avvenimenti di questo genere, concentrati nel breve spazio temporale di cinque giorni, sono in grado di provocare.

    Ho ancora la mente piena di immagini, suoni, colori. E’ stato davvero difficile ritornare alla quotidianità. Ma ho aggiornato la mia lista dei concerti jarrettiani (42 dal 1983 a oggi!), mi risfoglio quasi quotidianamente il libro di foto autografato, alterno l’ascolto di “Always let me go” con quello dei “Sun bear concerts” e aspetto notizie per dare inizio a una nuova avventura.

    Come dice il maestro: “Think of your ears as eyes”.

    in: Io c’ero l’avventura Giapponese – Osaka, Tokyo, Tokyo
    Nov 8th, 2002 Scritto da Gianluigi Bozzi

    Teatro alla Scala, Keith Jarrett Solo Piano Improvisations, 18 ottobre 2007

    Ieri Angelo Ghirotti mi ha spedito un suo testo sul concerto che Keith Jarrett, questa volta in “a solo”, ha tenuto al Teatro alla Scala il 18 ottobre 2007.

    Credo che sia una testimonianza preziosa.
    Nessuna esegesi critica, ma una grande competenze nel riconoscere i pezzi e nel commentarli.
    Solo il piacere di esserci e di condividere le due ore di quella sera.
    Sono certo che piacerà anche a te addentrarti in questo racconto.
    Sai come la penso: siamo contemporanei di un genio.
    Il suo carattere mi è del tutto  indifferente. Conta solo l’unicità del suono che riesce a fare scaturire in quel “qui e ora” che dona a chi lo ascolta.
    Sapere far risuonare l’eternità in un battito di note è possibile solo in questa eccezionale combinazione di genio e cultura.
    Buona lettura.

    Per alludere, solo alludere, a quello che succede in un concerto a solo di Keith Jarrett
    metto qui, per l’ascolto, Sapporo, tratto dai Sun Bear Concerts, 1980:
    http://www.divshare.com/flash/audio?myId=2528666-b8d



    Angelo Ghidotti 

    ANCORA LA SCALA

    Keith Jarrett Solo Piano Improvisations, 18 ottobre 2007, Teatro alla Scala , Milano

     

    Non mi è simpatica, La Scala. Anche se non è che ci ho visto granchè, giusto qualche opera, per biglietti omaggio o rinunce, tra nobildonne ingioiellate e notabili con il papillon. L’unica volta che mi sono sentito bene è quando ho fatto sei ore di fila per un posto in piedi in piccionaia alle Nozze di Figaro. Mi sentivo nel posto giusto, la curva sud del teatro. All’opposizione.

    E invece, domenica sera siamo in prima fila. Gli altri dietro, ex sindaci giudici presidenti opinionisti e dame, e va bene così. Gianluigi 92 concerti, Enzo 51, Mirco 36, Roberto 40, io 20, (Riccardo uno solo ma un milione di ore di jazz sul contachilometri), tra Osaka e Los Angeles. Ce lo siamo guadagnato, il posto a bordo palco.

    Quando entra Jarrett, alle 8 e un paio di minuti, occhialetti scuri, pantaloni e camicia neri e un gilet grigio a disegni tribali double face, e si siede alla tastiera, penso al concerto di dodici anni prima, che ho mancato nonostante ogni sforzo, ma il cui disco ho consumato. Penso all’inizio dolcissimo, lirico, irresistibile, i primi 18 minuti che hanno fatto dire a centinaia di jarrettiani in tutto il mondo, my favourite album is La Scala.


    E penso che adesso è tutto cambiato. 

    Il primo pezzo di allora durò 44 minuti. Negli ultimi solo che ho sentito, a Roma Venezia Parigi Chicago, il primo pezzo è sempre piuttosto breve e tormentato, mette le dita sulla tastiera e ne tira fuori qualcosa di irto e dissonante. Quello mi aspetto, alle 20.03 di domenica sera. E invece, l’omino in nero mi sorprende ancora una volta.


     Forse anche lui ha una specie di storia con La Scala. Quanti scritti su di lui parlano del suo gesto ‘classico’, della sua pulsione profonda a suonare come un europeo, nella tradizione romantica. Mette le dita sul piano, sfiora i tasti, e ne tira fuori un suono dolce e suadente, arpeggi sussurrati, una melodia  appena accennata e dolcissima. Trattengo il fiato. Non mi sembra vero. C’è sempre sofferenza nei suoi concerti in solo, per lui a trovare l’ispirazione, per noi a capire dov’è.
     Ma qui è subito godimento, caldo che ti sale dalla pancia, quella dolcezza mai melensa che solo lui sa tirare fuori dal piano e ti ci abbandoni, che è quello a cui tutti pensano, l’inizio di Koln, i primi accordi di Vienna, le prime battute della Scala. Ecco, la Scala dopo quattro minuti è già ai suoi piedi. Applausi e grida di giubilo dopo il primo pezzo. Eccolo, è tornato. Keith Jarrett, La Scala. 

    Il secondo, invece, è appunto come mi aspettavo il primo. Free jazz, bop di impronta atonale, echi di In Front. Con una precisione e una limpidezza di fraseggio, che poi, e quil’animo europeo se ne va sotto il palco, viene fuori l’americano. Emerge un ritmo che lo cambia in una specie di ostinato violento con echi di blues, per il godimento assoluto dei fans più evoluti. E la disperazione di un gentiluomo sui 90 nella fila dietro, perfetto abito da sera, panciotto e paipllon, che dice, nemmno tanto sottovoce, ‘Questo qui non ha mai sentito la musica!’. La moglie, di qualche anno più giovane, ma non molto, lo zittisce.


    Al terzo pezzo una progressione di accordi che ricorda Heartland, bellissima, di una raccolta solennità. La dialettica vuole che il quarto sia di nuovo veloce e difficile. Del quinto pezzo si riconosce l’ispirazione perché la canta, quattro note a intervalli discendenti di quarta, più o meno. Un po’ modale, oserei dire.

    L’ultimo della prima parte è un robusto, travolgente blues, che suona con una energia sorprendente. Ecco, a questo punto del concerto comincio a pensare che l’omino ha fatto un patto con il diavolo: a 63 anni ha il fisico asciutto, l’entusiasmo e la determinazione di un ventenne. Si alza, si china, si arcua, canta e danza tra lo sgabello e la tastiera, con raddoppi di velocità impressionanti. Quei video che circolano degli inzi degli anni 70, lui con una massa enorme di capelli che si avventa sul piano come un ossesso: è ancora lui. Il desiderio feroce di suonare.

    L’intervallo non esco nemmeno dalla fila, niente foyer, niente bar, niente toilette delle signore della Milano bene da ammirare. Ci alziamo talmente entusiasti che i commenti fra di noi esauriscono il quarto d’ora di pausa.

    Quando rientra, riprende il discorso del primo pezzo, o forse della Scala anni 90. Melodia accattivante, arpeggi, gemiti.  Nel momento della maggiore concentrazione, in un pianissimo, piegato sui tasti alla ricerca di quel niente che separa una improvvisazione nebulosa da una ispirazione, un colpo di tosse in fortissimo dal centro della platea. Ahia.

    Si ferma di colpo, si rialza. Il signore dietro di me dice . ‘Noooo!’. Jarrett chiude gli occhi un attimo, a sbollire il disappunto. Poi guarda la sala, una faro puntato negli occhi, e dice, senza acredine, anche con una certa rassegnazione: ‘No, it’s impossible. This cough.. I have lost this music, and you too, and it will never exist forever. Have you noticed that in hundreds of concerts I never coughed once? It’s a matter of concentration and respect. We are looking for silence, but the world is full of scream and noise. It’s a world… and I am American. I’m not proud of it.’

    Deboli applausi. Qualcuno sibila, qualcuno parlotta, qualcuno approffitta per tossire. Magia del pezzo svanita. Lui riprende, ma a fatica. Un pezzo veloce, free, difficile. Deve ritrovare la concentrazione. Il  successivo è più lungo, discontinuo, con squarci di bellezza. Ancora non si è ritrovato. Si vede che cerca ma non trova. Ha già fatto nove pezzi, potrebbe alzarsi e uscire e iniziare la liturgia dei bis.

    E invece no. Poggia le dita di nuovo sulla tastiera, e va. Mi ricordo che da piccolo studiavo l’Hanon, un metodo di esercizi per le dita, e quasi verso la fine c’era un esercizio che si chiamava Tremolo, e c’era una nota che di ceva: quando Seibelt iniziava a suonare il tremolo, in sala calava un brivido.

    Alla Scala cala un brivido. Un tremolo con la mano destra, incessante, martellante, e con la mano sinistra una melodia commovente. Ho i brividi, guardo Enzo sulla mia sinistra con gli occhi sgranati, tutta il teatro trattiene il fiato. Quando finisce, un uragano liberatorio di applausi. 

    Così può finire. Così l’incidente è chiuso. Col viso imperlato di sudore, stremato, sta in mezzo al palco, si inchina, entra ed esce diverse volte. Finche non si risiede, e ci regala quattro bisMy Wild Irish Rose, una versione delicata ma il cui tessuto armonico e ritmico si arrichisce via via e diventa un piccolo capolavoro. Poi un blues improvvisatoquindi uno standard che nessuno riconosce – almeno così pensiamo.


    All’ultima uscita si fa accendere le luci in platea, e si caspice chiaramente che vuole godersi lo spettacolo. Mi volto verso i palchi, ed è veramente da trattenere il respiro. Tutta la Scala lo sta osannando. Noi in piedi nelle prime file. Poi finisce con Old Man River, Jarrett l’europeo, Jarrett che si dispiace di essere americano finisce con un classico dell’epopea afroamericana. Appalusi che non finiscono. Sorride ed esce.

    Dopo la fine del concerto, Steve ci fa segno di entrare. Keith Jarrett ci riceve e non l’ho mai visto così amabile. Divertito e ironico nel resistere alle richieste di autografo, sull’interruzione per la tosse finge di battere la testa contro il muro, poi parla dell’America, della globalizzazione, della perdita della semplicità e della spontaneità, ci rivela che lo standard del bis non era un vero standard ma una improvvisazione in forma di standard, ci dà la mano, la sinistra come sempre, e alla fine fa firmare gli autografi alla moglie. Con il suo nome, e con un sorriso.

    Era annuciata la registrazione del concerto, spero di poter risentire la soffusa meraviglia del primo pezzo, lo strepitoso blues, il tremolo, Ol’man River. Siamo gli ultimi. I portoni del grande ingresso del teatro sono chiusi e girovaghiamo un po’ prima di trovare l’uscita. Esco, tento di rubare il manifesto da sotto una bacheca ma si straccia e a malincuore lo lascio lì, di fronte a quello della Madama Butterfly. Allontanandomi verso via Manzoni, mi giro un’ultima volta, e guardo l’ingresso imponente della Scala, illuminato di luce gialla, con la bandiera italiana che sventola all’aria fresca di ottobre.

    Mi è un po’ più simpatica.

    Keith Jarrett-Gary Peacock, Jack DeJohnette, Brescia 13 luglio 2007

    in occasione del concerto del Trio Keith Jarrett del 13 luglio 2007, a Brescia, ho conosciuto, attraverso Youtube, Angelo Ghirotti, che scrive anche sul sito www.keithjarrett.it
    Angelo è uno di quelli che inseguono Jarrett in giro per il mondo e ha scritto un testo biografico sulla memorabile serata.
    In attesa della mia pagina di Diario (che – prometto – arriverà: sono una persona lenta che tende alla immobilità !) mi ha autorizzato a pubblicarla qui. 

    Sarà un po’ come ritornarci o esserci.

    Grazie ad Angelo Ghirotti!


    Angelo Ghidotti
    Keith Jarrett Trio in piazza Loggia,  Brescia, 13 luglio 2007 

    God bless the trio

    Ero stato contento per mesi, dal giorno in cui avevano annunciato il concerto del trio in Piazza Loggia. Dopo aver arrancato per Europa e America a seguirlo, non ci potevo credere, veniva nella mia città, nella più bella piazza di Brescia. Potevo prendere la moto e in venti minuti arrivare lì, tranquillo, e godermi il concerto.  E invece, a Perugia, qualche giorno prima, il fattaccio. I flash, gli insulti al pubblico e alla città, i bis negati, i fischi, gli articoli sui giornali, i forum, tutti durissimi, pagine e pagine con il post ‘Keith Jarrett the asshole’ pieno di repliche, una discussione già fatta mille volte ma stavolta ancora più accesa. Come fan assoluto di Jarrrett mi sentivo stretto in un angolo.
    E Brescia non promette bene. Innanzitutto, i bresciani, lo dico per esperienza diretta, non è che siano tutti del gentlemen. Poi Piazza Loggia, da controllare non è facile. Vie che entrano da tutte le parti, case, palazzi, tetti, balconi affacciati, chi può impedire di usare il flash o registrare o fare un video da casa propria? Chi può evitare che intorno, dai bar, dalle viuzze, dagli stretti passaggi dietro la loggia, qualcuno non si metta a rumoreggiare, a fischiare, a gridare, a smanettare motorini? E quindi, Keith Jarrett a Brescia da un’attesa si trasforma in un’ansia.
    Quando arrivo alle cinque nella piazza, parcheggio la moto e tolgo il casco, sento suonare dietro l’angolo. Corro. Jarrett con i soliti jeans azzurri la t shirt bianca e il cappellino, la sua tenuta estiva da prove. Prova i due steinway sul palco, parla con Peacock e De Johnette, con il suo manager, con il tecnico del suono. Sembra rilassato, nessuna traccia di Perugia: c’è pieno di gente ai lati del palco, che chiacchiera, fotografa, lecca gelati e cerca di avvicinarsi, ma lui niente. Suona, Never let me go, As time goes by, accenna un blues. Tutto fila liscio.

    E’ un pomeriggio di sole feroce. Il palco è sistemato a ridosso della Loggia rinascimentale, al lato opposto dei portici, quelli della strage del 78. Ci saranno 1500-2000 posti. Il colpo d’occhio è notevole. Su un camper aprono la biglietteria, ci sono ancora posti disponibili. Mai visto.

    Il sole inizia a calare, passeggiamo per il centro di Brescia, mentre il gruppo dei fedelissimi si ingrossa. Alle otto e mezzo entriamo nel recinto, nel frattempo hanno davvero chiuso meticolosamente ogni accesso alla piazza, e ci sistemiamo nei nostri posti. 

    La serata è bellissima, calda, dalle finestre, dai balconi, dai tetti la gente si affaccia. Due signore di una finestra tra le più vicine hanno anche messo il vestito buono e sono andate a farsi i capelli. Cominciano gli annunci, e questa volta ci vanno giù pesante. Li ripetono due o tre volte, in diverse lingue. Niente foto, né flash né senza flash, niente video, niente registrazioni fino a concerto finito. Qualche fischio alla ennesima ripetizione.

    Intanto, si è riempito tutto. L’attesa cresce. Forse per Perugia, o perché qui non è mai stato, o è la sera così bella, o la piazza così stupenda, ma dopo tanti concerti mi sento emozionato come da tempo non ero. Speriamo in bene. Un piccolo incidente fa crescere la preoccupazione. Timothy prende il microfono: ‘Non possiamo iniziare finchè le persone sul tetto di fronte non smontano la telecamera’. Mi volto, si voltano tutti. 

     

    Ma i bresciani sono proprio così gnorancc? In piedi sul tetto, proprio a fianco dell’orologio dei Macc de le Ure (I matti delle ore, gli orologi meccanici con le statuette che picchiano sulla campana, molto in voga nel ‘500), un paio di persone hanno montato una telecamera sul treppiede. Ma come potevano pensare di non essere visti? Dopo un paio di richiami smontano, e secondo me nascondono tutto dietro un camino. Ma così possiamo cominciare. 

     

    Quando, alle nove e dieci, calano finalmente le luci, e Jarrett, Peacock e De Johnette entrano, e scatta l’applauso, trattengo il fiato e prego che non ci siano flash. E non ci sono. E poi qui comincia uno dei più bei concerti in assoluto del trio.

     

    Il primo pezzo è You go to my head, uno standard molto conosciuto, scritto alla fine degli anni 30 da Coots e Gillespie, esistente in decine di versioni (l’ha cantato anche Mina). Si sente che Jarrett è in forma, e anche gli altri due sono in serata. Si guardano, sorridono, Gary ogni tanto chiude gli occhi e ascolta il piano, poi si lancia in vibranti giri di basso.Proseguono con un pezzo molto bello, una  ballad, nessuno ricorda il titolo.
    Poi cambia ritmo e passa alla veloce e brillante  One for Majid, quindi una deliziosa versione di Little man you have had a busy day, di Wayne, Hoffman e Sigler. Applausi, grande fluidità e perfetto interplay con basso e batteria – Jack particolarmente preciso e elegante nei suoi interventi.
    Ma si sta preparando il vertice del primo tempo: Somewhere, dalla celeberrima West Side Story di Bernstein. L’esecuzione è splendida, e i tre sono così concentrati e intensi, che quando Jarrett trova uno spunto finale si inventano una coda memorabile di cinque minuti, che scatena una vera ovazione. E ancora nessun flash. 

     

    L’intervallo è il momento dei primi commenti. Tutti entusiasti, si profila il grande concerto. Lo stesso trio sembra molto carico, mentre escono sorridono visibilmente. Merito anche del pubblico, corretto ma caldo e pronto all’applauso. Una prima conferma viene subito: lo speaker, nel ripetere gli inviti al pubblico, dice che ‘gli artisti hanno molto apprezzato il concerto finora’, che tradotto vuol dire che qualcuno è andato da Jarrett il quale avrà detto ok, very good in un sussurro.
    Si riprende verso le 10 e mezza, ed è ancora West Side Story:Tonight, in una versione veloce e piena di ritmo, che non sentivo da parecchio. Poi un altro standard che potrebbe essere Lament, di Jay Jay Johnson, e quindi  Bye Bye Blackbird, un pezzo di Ray Henderson del 1926, che il trio suona spesso. Quindi, un pezzo che adoro, Last night when we where young,  scritto negli anni 60 da Harald Arlen. Dal momento del primo attacco del tema, che mi fa sciogliere, alla strepitosa coda, il trio suona con una contagiosa energia. Negli ultimi minuti il pubblico non riesce a trattenersi e batte i piedi, per poi finire in un’ovazione. I tre si alzano per salutare, ma devono uscire una, due, tre volte, per gli applausi scroscianti, le urla, un signore dietro di me si sgola per dieci minuti nel gridare an-co-ra, an-co-ra. E quindi, suonano ancora. 

     

    When I fall in love, che come in una liturgia appare in ogni concerto per segnare la fine. Ed è un altro trionfo. E così non può finire: si risiede – mentre incredibilmene ancora non sono scattati che un paio di lontani flash. E attacca God Bless the child, un altro pezzo bellissimo, ipnotico, di dieci minuti. 

    Quasi mezzanotte quando escono per un’ultima volta, e allora tutti in piedi, alle finestre, sui balconi, sui tetti, poi mi diranno nei vicoli intorno, ad acclamare quello che era stato tre giorni prima il mostro di Perugia. La gente non si tiene più, adesso davvero i flash sono molti, e il pubblico si accalca proprio sotto il palco. Anche per una serata di grazia, è troppo. Jarrett non dice niente, saluta, si volta e se ne va, si vedono i tre salire gli scalini della Loggia dandosi pacche sulle spalle.

    Esco dal concerto commosso, quasi stremato. Sapere che non è stato registrato e che non sarà mai un disco mi strugge. Ma andiamo a cena, Brescia è in tiro, sexy come non mai, e alla Porta Bruciata, tra i tavoli dei ristorantini all’una di notte c’è la folla. Troviamo posto a fatica, ceniamo con grande piacere, con i racconti di Beppe e Enzo sulla tournee giapponese, i microbagni degli hotel di Tokyo dove si sbatte la testa dapperutto, la mitica camicia con l’autografo regalata da Jarrett a Enzo, che per metterla ha dovuto calare di dieci chili, e via così.

    Poi ognuno riprende la strada di casa. Chi va a Milano, chi a Napoli, chi a Trento. Beppe deve andare a Padova, ma non ha la minima idea di dove abbia parcheggiato la sua auto. Per noi la serata finisce così: in una Brescia deserta, alle tre di notte, con in giro, come diceva mio nonno, apena i lader e le putane, mentre gli operai smontano il palco, a chiederci dove sarà finita l’auto di Beppe, finchè non lo carico in moto, che scricchiola e soffre, ma così dopo un po’ la troviamo. Nemmeno si ricordava il modello, solo il colore. Blu.
    Serata da ricordare anche per questo. Quindici giorni dopo, a Juan les Pins, dopo un concerto bello la metà, con Jarrett che ci fa entrare nel backstage per dirci che ha sofferto di mal di schiena e ha pensato di annullare la serata, Steve ci confida: Brescia? Beautiful night. One of the best five in the last twenty years of the Trio.
    Nei newsgroups su internet rimbalzano ancora le discussioni su Perugia. Il giorno dopo scrivo qualche riga: Jarett, beautiful concert in Brescia. Nessuno risponde, non fa notizia. In fondo meglio così. Cosa importa quello che si dice in giro. Cosa importa quello che pensa chi non c’era. 

    Noi c’eravamo.

    Keith Jarrett Trio in piazza Loggia, Brescia, 13 luglio 2007

    in occasione del concerto del Trio Keith Jarrett del 13 luglio 2007, a Brescia, ho conosciuto, attraverso Youtube, Angelo Ghirotti, che scrive anche sul sito www.keithjarrett.it
    Angelo è uno di quelli che inseguono Jarrett in giro per il mondo e ha scritto un testo biografico sulla memorabile serata.
    In attesa della mia pagina di Diario (che – prometto – arriverà: sono una persona lenta che tende alla immobilità !) mi ha autorizzato a pubblicarla qui.

    Sarà un po’ come ritornarci o esserci.

    Grazie ad Angelo Ghirotti!


    Angelo Ghidotti
    Keith Jarrett Trio in piazza Loggia,  Brescia, 13 luglio 2007

    God bless the trio

    Ero stato contento per mesi, dal giorno in cui avevano annunciato il concerto del trio in Piazza Loggia. Dopo aver arrancato per Europa e America a seguirlo, non ci potevo credere, veniva nella mia città, nella più bella piazza di Brescia. Potevo prendere la moto e in venti minuti arrivare lì, tranquillo, e godermi il concerto.  E invece, a Perugia, qualche giorno prima, il fattaccio. I flash, gli insulti al pubblico e alla città, i bis negati, i fischi, gli articoli sui giornali, i forum, tutti durissimi, pagine e pagine con il post ‘Keith Jarrett the asshole’ pieno di repliche, una discussione già fatta mille volte ma stavolta ancora più accesa. Come fan assoluto di Jarrrett mi sentivo stretto in un angolo.
    E Brescia non promette bene. Innanzitutto, i bresciani, lo dico per esperienza diretta, non è che siano tutti del gentlemen. Poi Piazza Loggia, da controllare non è facile. Vie che entrano da tutte le parti, case, palazzi, tetti, balconi affacciati, chi può impedire di usare il flash o registrare o fare un video da casa propria? Chi può evitare che intorno, dai bar, dalle viuzze, dagli stretti passaggi dietro la loggia, qualcuno non si metta a rumoreggiare, a fischiare, a gridare, a smanettare motorini? E quindi, Keith Jarrett a Brescia da un’attesa si trasforma in un’ansia.
    Quando arrivo alle cinque nella piazza, parcheggio la moto e tolgo il casco, sento suonare dietro l’angolo. Corro. Jarrett con i soliti jeans azzurri la t shirt bianca e il cappellino, la sua tenuta estiva da prove. Prova i due steinway sul palco, parla con Peacock e De Johnette, con il suo manager, con il tecnico del suono. Sembra rilassato, nessuna traccia di Perugia: c’è pieno di gente ai lati del palco, che chiacchiera, fotografa, lecca gelati e cerca di avvicinarsi, ma lui niente. Suona, Never let me go, As time goes by, accenna un blues. Tutto fila liscio.

    E’ un pomeriggio di sole feroce. Il palco è sistemato a ridosso della Loggia rinascimentale, al lato opposto dei portici, quelli della strage del 78. Ci saranno 1500-2000 posti. Il colpo d’occhio è notevole. Su un camper aprono la biglietteria, ci sono ancora posti disponibili. Mai visto.

    Il sole inizia a calare, passeggiamo per il centro di Brescia, mentre il gruppo dei fedelissimi si ingrossa. Alle otto e mezzo entriamo nel recinto, nel frattempo hanno davvero chiuso meticolosamente ogni accesso alla piazza, e ci sistemiamo nei nostri posti.

    La serata è bellissima, calda, dalle finestre, dai balconi, dai tetti la gente si affaccia. Due signore di una finestra tra le più vicine hanno anche messo il vestito buono e sono andate a farsi i capelli. Cominciano gli annunci, e questa volta ci vanno giù pesante. Li ripetono due o tre volte, in diverse lingue. Niente foto, né flash né senza flash, niente video, niente registrazioni fino a concerto finito. Qualche fischio alla ennesima ripetizione.

    Intanto, si è riempito tutto. L’attesa cresce. Forse per Perugia, o perché qui non è mai stato, o è la sera così bella, o la piazza così stupenda, ma dopo tanti concerti mi sento emozionato come da tempo non ero. Speriamo in bene. Un piccolo incidente fa crescere la preoccupazione. Timothy prende il microfono: ‘Non possiamo iniziare finchè le persone sul tetto di fronte non smontano la telecamera’. Mi volto, si voltano tutti.

    Ma i bresciani sono proprio così gnorancc? In piedi sul tetto, proprio a fianco dell’orologio dei Macc de le Ure (I matti delle ore, gli orologi meccanici con le statuette che picchiano sulla campana, molto in voga nel ‘500), un paio di persone hanno montato una telecamera sul treppiede. Ma come potevano pensare di non essere visti? Dopo un paio di richiami smontano, e secondo me nascondono tutto dietro un camino. Ma così possiamo cominciare.

    Quando, alle nove e dieci, calano finalmente le luci, e Jarrett, Peacock e De Johnette entrano, e scatta l’applauso, trattengo il fiato e prego che non ci siano flash. E non ci sono. E poi qui comincia uno dei più bei concerti in assoluto del trio.


    Il primo pezzo è You go to my head, uno standard molto conosciuto, scritto alla fine degli anni 30 da Coots e Gillespie, esistente in decine di versioni (l’ha cantato anche Mina). Si sente che Jarrett è in forma, e anche gli altri due sono in serata. Si guardano, sorridono, Gary ogni tanto chiude gli occhi e ascolta il piano, poi si lancia in vibranti giri di basso.Proseguono con un pezzo molto bello, una  ballad, nessuno ricorda il titolo.
    Poi cambia ritmo e passa alla veloce e brillante  One for Majid, quindi una deliziosa versione di Little man you have had a busy day, di Wayne, Hoffman e Sigler. Applausi, grande fluidità e perfetto interplay con basso e batteria – Jack particolarmente preciso e elegante nei suoi interventi.
    Ma si sta preparando il vertice del primo tempo: Somewhere, dalla celeberrima West Side Story di Bernstein. L’esecuzione è splendida, e i tre sono così concentrati e intensi, che quando Jarrett trova uno spunto finale si inventano una coda memorabile di cinque minuti, che scatena una vera ovazione. E ancora nessun flash.

    L’intervallo è il momento dei primi commenti. Tutti entusiasti, si profila il grande concerto. Lo stesso trio sembra molto carico, mentre escono sorridono visibilmente. Merito anche del pubblico, corretto ma caldo e pronto all’applauso. Una prima conferma viene subito: lo speaker, nel ripetere gli inviti al pubblico, dice che ‘gli artisti hanno molto apprezzato il concerto finora’, che tradotto vuol dire che qualcuno è andato da Jarrett il quale avrà detto ok, very good in un sussurro.
    Si riprende verso le 10 e mezza, ed è ancora West Side Story:Tonight, in una versione veloce e piena di ritmo, che non sentivo da parecchio. Poi un altro standard che potrebbe essere Lament, di Jay Jay Johnson, e quindi  Bye Bye Blackbird, un pezzo di Ray Henderson del 1926, che il trio suona spesso. Quindi, un pezzo che adoro, Last night when we where young,  scritto negli anni 60 da Harald Arlen. Dal momento del primo attacco del tema, che mi fa sciogliere, alla strepitosa coda, il trio suona con una contagiosa energia. Negli ultimi minuti il pubblico non riesce a trattenersi e batte i piedi, per poi finire in un’ovazione. I tre si alzano per salutare, ma devono uscire una, due, tre volte, per gli applausi scroscianti, le urla, un signore dietro di me si sgola per dieci minuti nel gridare an-co-ra, an-co-ra. E quindi, suonano ancora.

    When I fall in love, che come in una liturgia appare in ogni concerto per segnare la fine. Ed è un altro trionfo. E così non può finire: si risiede – mentre incredibilmene ancora non sono scattati che un paio di lontani flash. E attacca God Bless the child, un altro pezzo bellissimo, ipnotico, di dieci minuti.

    Quasi mezzanotte quando escono per un’ultima volta, e allora tutti in piedi, alle finestre, sui balconi, sui tetti, poi mi diranno nei vicoli intorno, ad acclamare quello che era stato tre giorni prima il mostro di Perugia. La gente non si tiene più, adesso davvero i flash sono molti, e il pubblico si accalca proprio sotto il palco. Anche per una serata di grazia, è troppo. Jarrett non dice niente, saluta, si volta e se ne va, si vedono i tre salire gli scalini della Loggia dandosi pacche sulle spalle.

    Esco dal concerto commosso, quasi stremato. Sapere che non è stato registrato e che non sarà mai un disco mi strugge. Ma andiamo a cena, Brescia è in tiro, sexy come non mai, e alla Porta Bruciata, tra i tavoli dei ristorantini all’una di notte c’è la folla. Troviamo posto a fatica, ceniamo con grande piacere, con i racconti di Beppe e Enzo sulla tournee giapponese, i microbagni degli hotel di Tokyo dove si sbatte la testa dapperutto, la mitica camicia con l’autografo regalata da Jarrett a Enzo, che per metterla ha dovuto calare di dieci chili, e via così.

    Poi ognuno riprende la strada di casa. Chi va a Milano, chi a Napoli, chi a Trento. Beppe deve andare a Padova, ma non ha la minima idea di dove abbia parcheggiato la sua auto. Per noi la serata finisce così: in una Brescia deserta, alle tre di notte, con in giro, come diceva mio nonno, apena i lader e le putane, mentre gli operai smontano il palco, a chiederci dove sarà finita l’auto di Beppe, finchè non lo carico in moto, che scricchiola e soffre, ma così dopo un po’ la troviamo. Nemmeno si ricordava il modello, solo il colore. Blu.
    Serata da ricordare anche per questo. Quindici giorni dopo, a Juan les Pins, dopo un concerto bello la metà, con Jarrett che ci fa entrare nel backstage per dirci che ha sofferto di mal di schiena e ha pensato di annullare la serata, Steve ci confida: Brescia? Beautiful night. One of the best five in the last twenty years of the Trio.
    Nei newsgroups su internet rimbalzano ancora le discussioni su Perugia. Il giorno dopo scrivo qualche riga: Jarett, beautiful concert in Brescia. Nessuno risponde, non fa notizia. In fondo meglio così. Cosa importa quello che si dice in giro. Cosa importa quello che pensa chi non c’era.

    Noi c’eravamo.

    Keith Jarrett

    Venerdì, lemmi lemmi, senza prendere autostrade e quindi raddoppiando i tempi dello spostamento (per uno come me che vorrebbe solo stare fermo, anche un viaggetto è uno stress) ce ne andiamo a Brescia. Dove Keith Jarrett terrà l’ultimo suo concerto in Italia (di quest’anno?).
    Qualcuno dei  miei amici conosce la mia venerazione per questo pianista. Il massimo del Novecento. Un talento genetico poi alimentato e sostenuto da un lavoro (sì:lavoro) quotidiano di ore ed ore, per giorni e giorni, per anni e anni. Uno sforzo di improvvisazione sulla scena del tutto unico: una concentrazione impossibile per trovare, come dice lui stesso, una nota, quella nota di quel momento. Una nota che non ritornerà più. L’unica, solo quella e solo quella volta e poi mai più.

    Ci sono persone (una l’ho incontrata sulla rete proprio oggi) che lo inseguono nei teatri d’Europa per cogliere quell’attimo.

    Ebbene ieri a Perugia è andata così:

    “Quando dal buio sono sbucate tre ombre, Jarrett caracollando verso il microfono e con aria sprezzante e ingiustificatamente provocatoria ha sibilato: “Non parlo Italiano ma qualcuno deve aver detto a tutti gli ‘assholes’ (intraducibile senza deviare nello scurrile) presenti di mettere via tutte queste fottute macchine fotografiche. Se non lo fate immediatamente mi riservo il diritto di lasciare immediatamente il palco e questa ‘God Damn City’ (maledetta città ndr), così voi avrete pagato per vedere nulla, ricordatevi che il privilegio è vostro, non certo il mio”.

    Dopo i magnifici tre (Peacock, Dejohnette e Jarrett) hanno suonato a dirla con le parole del cronista di prima “una musica di una bellezza stordente”.

    Poi, a fine concerto, uno stronzo del pubblico inveisce contro di loro con un”motherfucker”.

    E così i tre se ne vanno senza i ricercatissimi bis. Quelli per cui i tre tirano fuori e sublimano gli eterni standard jazzistici.

    E ora questi giornalistucoli del cazzo lo criticano, inveiscono sul suo carattere. E sono giornalisti “specializzati”. Immagino i cronachieri della serata.

    Signori miei: di Keith Jarrett le generazioni degli umani ed anche degli extraterrestri ne tirano fuori uno ogni due secoli.

    Lasciatelo stare.

    State zitti. Mettete via i flash. E le cineprese da giapponesi che visitano Venezia. E i telefonini con i quali la mamma vi chiama per dire che ha versato la pasta.

    Abbiamo il privilegio di essere contemporanei di un genio.

    Proviamo ad avere un po’ raccoglimento.

    Non sprechiamoci. Forse venerdì i tre individueranno quel corridoio che porta a “Prism”. Solo quella sera avevano imboccato quel sentiero. E per un flash lo si sarebbe perso.

    Accontententiamoci.

    Vogliamoci bene.

    Siamo piccoli ascoltatori.

    Siamo persone che facciamo (bene, magari) il nostro lavoro.

    Ma non siamo dei geni.

    Non abbiamo dedicato centinaia di giorni a scoprire le armonie nascoste nelle pieghe delle note.

    Si va a Brescia con la possibilità di andarci per niente. Come Jannacci: “Son venuto da Como per niente …”.

    Dea pagana della musica, fai che qualche cretino non mandi a puttane questo appuntamento desideratissimo.

    Qui sotto il video, giustamente, si sofferma sulla faccia felice e beata di Gary Peacock. Ma chiudete un attimo gli occhi. Fatto? Li avete chiusi? Cosa sentite? …. Keith Jarrett che si è infilato nel corridoio dl capolavoro. E gli altri due lo guardano con gratitudine ed amore. Perchè è lui che ha aperto le porte di quel paradiso terreno.