In tema di scrittura, sono passati cinquant’anni dalla pubblicazione di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana(1957) di Carlo Emilio Gadda (1893-1973).Ieri sera la Fondazione Antonio Ratti di Como, con la guida di Mario Fortunato e con la presenza di Alberto Arbasino, ha promosso una di quelle serate che restano nella memoria e, soprattutto, nei miei appunti.
L’occasione era la recentissima pubblicazione di:
Alberto Arbasino, L’Ingegnere in blu, Adelphi, 2008, p. 185.
Perchè in blu?
“Immancabilmente in abito completo blu ben stirato, camicia bianca e cravatte deplorevoli acquistate (forse da lui solo) in un sonnolento magazzino giù per via della Mercede, e un fazzoletto candido ad angolo retto nel taschino. Scarpe ovviamente nere e lucidissime” (pag. 76/77)
Sul piano della storia letteraria italiana è interessante annotare l’operazione culturale fatta negli anni Cinquanta (ormai Gadda si incamminava verso i sessant’anni), quando un gruppo di letterati e giovani critici ventenni (Arbasino stesso, Citati, Gramigna, Guglielmi, Piccioni) :
“sull’entusiasmo per la stupenda Adalgisa, per le mirabiliNovelle dal Ducato in fiamme, lo dichiarono massimo autore del mezzo secolo, con immenso dispetto di tutti gli altri” (pag. 11)
Il suo sense of humour era molto milanese, affondava le sue radici in Carlo Porta e Carlo Dossi e nasceva dalla unione fra la sua cerimoniosità e il dolore perenne che, messi assieme, generavano quell’attrito produttore di pastiche linguistici straordinari ed inimitabili:
“L’opus dell’Ingegnere nascerà allora dagli interdetti agonici e dai tabù tetanici delle famiglie appiccicate e recluse che borbottano meccanicamente rosari, al buio per economia, e considerano ogni spesa una calamità, ogni scampanellata un annunzio di sventura, ogni viaggio uno sperpero inammissibile, ogni divertimento una vergogna insensata; e tengono come solo metro di giudizio che cosa ne penserebbero gli altri, i vicini, le vicine, le zie, le cugine, le vecchine, e una certa famiglia di conoscenza che funziona (da decenni, reciprocamente) come esempio, come controllo, come giudice; e giudicano sommamente sconsiderato e colpevole chi segue una propria vocazione artistica o umana, invece di sacrificarsi com’è doveroso, di soffrire giacché è prescritto, di ubbidire a chi ne sa più di te, di mostrare finalmente con privazioni dolorose e inutili un po’ di riconoscenza a chi ti ha messo al mondo e ha fatto tanti sacrifici per te, di dare un po’ di soddisfazione ai tuoi cari che avranno i capelli bianchi anche per colpa tua, di pensare al futuro, di non star con la testa fra le nuvole, di ragionare coi piedi per terra, di non essere maleducato e inopportuno chiamando sempre le cose col loro nome, e poi di riflettere seriamente, lo scribacchiare ha sempre dato tanti dispiaceri e soddisfazioni nessuna, e poi perché voler fare a ogni costo gli originali, i diversi dagli altri, quelli che si vogliono far notare ad ogni costo? Dunque, abbracciare soprattutto controvoglia una professione solida, anche per domare la volontà e il carattere. Le soddisfazioni, arriveranno poi. In quanto ai dispiaceri, si sa, ce n’è per tutti. E i sacrifici? Quelli verranno ricompensati nell’Altro Mondo, si sa… Si sa!” (pag. 21/22)
Così Arbasino parla del gran tema gaddiano del:
“dolore di vivere senza alcuna «douceur» (ove eppure si ‘crogiolavano’, nell’immobilità dei tempi, i suoi contemporanei Palazzeschi, Comisso, De Pisis…). E ‘trapunge’ questi epistolari tutti interi collegandosi con tanti fili alle opere maggiori. Ecco la sindrome del reduce perenne ferito dalle sofferenze nel Lager e incapace di ‘adattarsi’, preso da scoramento e malessere come scorgendo negli altri un ‘malvolere’ che genera ipocondria e insofferenza. E una sintomatologia dello scapolo: per anni e anni, «… sarebbe almeno il pane, un po’ di tranquillità, la lontananza dalla cosiddetta “famiglia” , cioè dall’inferno” (pagg. 152/53)
La formazione di Gadda è stata accidentata e diversa da quella di molti letterati suoi contemporanei. La facoltà di ingegneria imposta dalla madre (personificazione della Madre mediterranea, pur essendo di nascita ungherese), la mescolanza fra le materie tecniche e gli studi da autodidatta della cultura classica, della filosofia (in particolare Spinoza, Leibniz, Kant) della storia del Rinascimento ma anche della psichiatria e della psicanalisi:
«… A proposito di psicanalisi devo dire che mi sono avvicinato ad essa negli anni fiorentini dal ’26 al ’40 quando l’insieme delle dottrine e delle ricerche di questa grande componente della cultura moderna era visto popolarmente come operazione diabolica e quasi infame, per la crassa opaca ignoranza di molti grossi tromboni della moraloneria e della cultura ufficiale dell’epoca».
Su questi frammenti culturali Gadda elaborò il suo sontuoso linguaggio, che trova efficace esemplificazione nei prediletti elenchi di caratteri e comportamenti, applicati non solo alla sua esperienza familiare, ma anche alla storia romana, a quella rinascimentale e alle memorie di Francia.
Arbasino raccontava che Gadda e il critico Gianfranco Contini giravano per le pinacoteche di provincia a guardare i ritratti d’epoca, per da essi dedurre vita privata, vizi e tic di quei personaggi. Alla caccia, potremmo dire, di episodi rivelatori del carattere.
Da queste scorribande culturali emergevano, usando “con gusto esplosivo e disperato … la madornale figura retorica della Enumerazione” (pag. 23) liste irresistibili di lemmari, ossia elenchi infiniti di parole tese a definire nei più reconditi angoli le situazioni culturali e rivelare le persone:
« seggiole, cuscini, tavolini, lettini: la chincaglieria del salotto e il bazàr del salone, e la pelle d’orso bianco con il muso disteso e gli unghioni rotondi (che solevano gracchiare sul lucido appena pestarli), e i comò e i canapè e il cavallo a dóndolo del Luciano, e il busto in gesso del bisnonno Cavenaghi eternamente pericolante sul suo colonnino a torciglione: e bomboniere, Lari, leonesse, orologi a pendolo, vasi di ciliege sotto spirito, orinali pieni di castagne secche, il tombolo di Cantù della nonna Bertagnoni, rotoli di tappeti e batterie di pantofole snidate da sotto i letti, e tutti insomma gli ingredienti e gli aggeggi della prudenza e della demenza domestica…» (pag.24)
” Non si parlava certo ancora di « meticciati linguistici», o di « mescidazioni » di confine o frontiera, con aggiornamenti annuali o mensili effimeri e ridicoli, ma le parole francesi abitudinarie erano parecchie, fra i nostri vecchi. Così come i libri francesi nelle loro biblioteche. Quanti participii: touché, flatté, blasé, fané, flambé, fouetté, suranné, saccadé, ravagé, démodé, faisandé, délabré, corseté, renversé, désabusé, ratatiné, capitonné, bouleversé, navré… Nonché bien rangé, collet monte, quel toupet, tourniquet, piquet, bouquet, chucho-ter, randonnée, grasse matinée, valse chaloupée… E poi, tranchant, servant, revenant, en passant, soi-disant, ci-devant, vol-au-vent, porte-enfant, clopin-clopant, grisonnant, pliant, trau-d’unìon, glissons, asseyons-nous, coup de foudre, pied-à-terre, savoir faire, fou rire, faute de mieux, et patati, et patata…
E ancora sotto il controllo degli assensi ingegnereschi, durante le digestioni ancora a tavola: remarque, malaise, migrarne, rancune, amer-tume, pruderie, disette, charrette, gigolette, bellàtre, caniche, barbiche, corbeille, défaillance, mesaillance, entourage, escamotage, retour d’àge, cauchemar, fard, tuyau, petit-gris, demi-vierges, épaves, dormeuse, armoire-à-glace, à brùle-pourpoint, gaffe, gauche (nel senso di ‘maldestro’), gli onnipresenti potins e trumeaux e « quelle horreur! »… Ma nella stessa frase, ‘fluendy’: sbarbatlà, sgagnuflà, scapùssà, pastrùgnà, paciùgà, caragnà, ciciarà, nasùstà, vusà, bragia, pacià, barbuta, gnanfà, sciuscià, usmà, sguaità, lùmà, bufa, bastarnà, tananà, tanavèi, gasaghé, belee… Smorbi, sbenfi, spatùss, sgambèrsula, vegiàbul, mugnaga, cucalla, brùgna, e-peu-pù, mavalà, al dì d’incoeu… Scattlada, scalvada, barnasc, pergnocch… Bragalón, garùvlón, luitón, rùsnón, stragión, scavión, scursón, da scundón, carimalón, mutrignón, calsunón, arbión… Biott, crott, baslott, pepiatt, masott, malnatt, magateli, basell, lampett, ciappett (‘chiappette’, da non confondere con voci del verbo cìapà), pìssagùgg (persona pedantissima), cattafigh (dita nel naso), vignu-vegnu (cigolio, onomatopico), trassudeciucch (stoffa della stessa tinta ‘aubergine’ di un vomito d’ubriaco per via)” (pagg. 116-118)
E, infine queste varianti linguistiche dei “diversi tipi di coglioni”:
“babacio, macaco, tarlùcch, farlocch, bamba, pirla (con pirlott e pirlutón), ciula (da cui « grand-e-ciu-la», «ciulandari», ecc), sempi, erti, loffi, imbesuii, tripee, intreggh, martùff, asnón, minción, lendenón, pùvión, lasagnón, lùmagón, babión, baùsción, biciolan, gadan, bagian, giavan, trigoss, semo, gianduia, gandula, sgolgia, cucudrila, balabiott, ciaparatt, «fa’ minga el cucù» (pag. 121
In conclusione: gran serata di cui lasciar traccia sui sentieri
