TartaRugosa legge TartaRugosa
Il ragazzo in gabbia
Riproduzione: 4-2-1967
(per la serie “Pagine dal passato”)
Erano per me gli anni catturati dal fascino dei racconti dei nativi americani, del problema della schiavitù negli Stati Uniti, della lettura di “Ragazzo negro” di Wright. Ero ancora ignara del fatto che poco successivamente avrei amato lo sceneggiato Radici e il film Via col vento.
La passione della scrittura continuava attraverso le ricerche proposte dalla scuola elementare, lo svolgimento dei temi, i riassunti delle letture a casa. Sono grata alla mia maestra Adriana (che ormai non sarà più abitatrice di questa terra) per la sua severità, la sua rigorosità, la sua instancabile solerzia nell’insistere sulla ricchezza di vocabolario e sull’uso corretto della grammatica attraverso valanghe di compiti per le vacanze che riempivano quotidianamente i pomeriggi estivi.
In ordine cronologico, dopo “Storia di un bicchiere di cristallo” estraggo dal mio raccoglitore rosso “Il ragazzo in gabbia”. Il nome di Serino in realtà mi riporta alla memoria un bambino pakistano giunto con i genitori e il fratello più piccolo nel palazzo allora abitato. Era mio coetaneo e non sapeva l’italiano, per cui il padre mi aveva chiesto se alla sera, dopo cena, potevo seguirlo nella lettura del libro scolastico. Surena (il vero nome) era più piccolo di me di statura, aveva uno sguardo penetrante e l’atteggiamento di un piccolo mulo testardo: stava col capo chino sul testo da leggere e ripeteva con scrupolosa veemenza le correzioni da me fatte. Da bambina qual ero, una volta mi sono permessa di accarezzare i suoi capelli neri per complimentarmi del lavoro svolto, ma lui mi aveva cacciato la mano dicendomi che non era un bambino piccolo come Sina (il fratellino).
Oltre a questo spaccato autobiografico, non escludo che alla stesura di questo racconto abbiano contribuito le suggestioni di un libro per bambini centrato su Ulisse (l’anno successivo avrei goduto e spesso imitato le meravigliose espressioni facciali e vocali di Giuseppe Ungaretti nella presentazione delle puntate dello sceneggiato televisivo Odissea) e l’influenza di De Amicis e del suo Dagli Appennini alle Ande (a quei tempi il libro Cuore era un must sin dalla prima elementare).
A posteriori, rileggendomi, riconosco anche l’interessante elaborazione della delusione e del dolore provati quando, nei miei esperimenti di osservatrice, cercavo (incantata dai racconti paterni e dei suoi ricordi giovanili) il metodo migliore per addestrare il mio lucherino ad uscire a comando dalla gabbia per invitarlo a stare in mia compagnia in forma diversa. Il lucherino seguì le istruzioni, ma decise di andarsene fuori dalla finestra aperta e per tutto il pomeriggio svolazzò nei dintorni, come incerto sul da farsi. Non lo rividi più e naturalmente mi beccai anche la sgridata di mio padre.
Dovettero passare due buoni anni prima di possedere nuovamente una coppia di bengalini. A freno controllavo il desiderio di aprire lo sportellino per imitare lo zio Crippa, il quale lasciava volare in soggiorno i suoi cardellini.
I miei otto anni erano autenticamente felici, come spesso accade ai bambini amati e liberi di poter scoprire giorno dopo giorno le novità del mondo.
Ma ecco la storia di Pietro, il ragazzo in gabbia.
Nel paese di Pietro vi era da qualche giorno una grande agitazione. Era infatti arrivata una famiglia da un posto molto lontano: dall’Africa. Avevano preso una casa proprio vicina a quella di Pietro, così lui era stato il primo a conoscere il figlio di loro: Serino.
Serino aveva dodici anni, proprio come Pietro.
I due bambini fecero in fretta a stringere amicizia, così Pietro, nel giro di pochi giorni, lo presentò a tutti gli altri suoi amici.
Era bello stare con Serino, perché sapeva raccontare tante belle storie del suo paese natio.
Ogni giorno il gruppo dei bambini andava a giocare ai giardinetti, poi essi si sedevano in circolo su di un prato e incitavano Serino a raccontare un’altra delle sue meravigliose storie.
E stavano tutti in silenzio quando Serino narrava la caccia ai leoni, alle tigri, i suoni del tam-tam, le danze notturne intorno al fuoco.
Nessuno si accorgeva del tempo che passava e solo quando le prime ombre della sera calavano, i bambini si alzavano e correvano veloci verso casa, temendo i rimproveri delle rispettive madri.
Pietro e Serino tornavano sempre insieme poiché abitavano nello stesso palazzo e, dopo cena, si incontravano nuovamente.
Fu proprio durante una di queste serate che Pietro apprese da Serino una cosa addirittura fantastica.
Vicino al suo paese d’origine e precisamente su di un’isola, viveva una tribù di strani abitanti: i Trigamboni.
Serino non li aveva mai visti, così come nessun altro uomo del suo tempo, ma, secondo antiche dicerie, essi esistevano veramente.
Erano delle creature mostruose, alte quanto tre uomini messi uno sopra all’altro ed avevano ben tre gambe.
Nessuno aveva mai osato sbarcare su quell’isola sulla quale sorgeva un altissimo monte che impediva di vedere ciò che avveniva al di là di esso.
Pietro rimase profondamente scosso da quell’incredibile racconto e la stessa notte fece orribili sogni sulla tribù dei Trigamboni.
Ma Pietro era un ragazzino terribilmente curioso e nei successivi giorni fu tormentato dallo stesso spasmodico desiderio: quello di vedere e conoscere i Trigamboni.
E pensa e ripensa, un bel giorno prese la sua decisione.
Ne parlò con Serino che, dopo averlo ascoltato attentamente, lo guardò stupefatto.
-Tu … tu voi andare sull’isola dei … dei Trigamboni? – balbettò infine.
– Sì. La cosa ti stupisce tanto? E perché non vuoi venire con me?-
– Ma stai scherzando, vero? –
– Niente affatto. Me ne andrò solo, se tu hai paura di accompagnarmi. A me, il coraggio non manca! –
Serino iniziava a pensare che il suo amico fosse improvvisamente impazzito.
Ma Pietro diceva proprio sul serio. All’insaputa di tutti raccolse un po’ della sua biancheria riponendola nella cartella di scuola, qualcosa da mangiare e il suo salvadanaio.
Poi, dopo aver minacciato Serino di indescrivibili torture se avesse osato rivelare a qualcuno il motivo della sua fuga, partì.
Certo che il viaggio non era semplice.
L’Africa era lontano e Pietro non sapeva di andare incontro a mille pericoli.
A casa, quando i genitori seppero della sua fuga, lo fecero cercare invano: Pietro sembrava essersi dissolto nel nulla.
Quest’ultimo aveva intrapreso il suo lungo cammino con una certa baldanza, ben sapendo però che avrebbe incontrato non poche difficoltà.
E valicò monti e colline, sorpassò immense pianure, attraversò fiumi e laghi. Compì i più svariati mestieri per guadagnarsi il pane quotidiano, ma nonostante tutte le fatiche che ogni giorno doveva affrontare, nulla sembrava farlo desistere dal suo scopo.
Gli occorsero ben tre anni prima di arrivare alla tanto sospirata meta, e durante questi anni Pietro vide molte città, molti paesi, conobbe tanta gente, buona e cattiva, imparò ad esprimersi in diverse lingue e apprese costumi e tradizioni di ogni popolo che incontrava.
Ma nessuno sapeva fornirgli spiegazioni sui Trigamboni.
Chi diceva di non averli mai sentiti nominare, chi gli rideva in faccia dicendo che erano tutte fantasie, chi si spaventava e non voleva dirgli nulla.
Pietro incominciava a credere che i Trigamboni non esistessero veramente e, quando stava per perdere tutte le speranze, ecco che incontrò un uomo vecchio, vecchissimo, che gli chiese dove stava andando.
– Sto cercando la tribù dei Trigamboni, ma nessuno vuole dirmi dove essi siano – piagnucolò Pietro.
– Sei certo di volerli veramente raggiungere? – chiese il vecchio.
– Sì. Sono già trascorsi tre anni da quando me ne sono andata da casa per partire alla ricerca di questo popolo. –
– Ma non sai che il tuo potrebbe essere un viaggio senza ritorno? –
– Non m’importa. Non avrò pace finchè non li troverò. –
– Sei proprio un ragazzo testardo. Quanti anni hai? –
– Ormai quindici. Ne avevo solo dodici quando sono partito. –
– E sei venuto fin qui da solo? –
– Sì, nessuno mi ha voluto accompagnare. –
– Bene, sei più coraggioso di quanto pensassi. Se vuoi, ti posso suggerire io la strada per raggiungere l’isola dei Trigamboni –
– Davvero? La prego, mi aiuti! –
Il vecchio condusse Pietro in cima ad una collina.
– Vedi quella massa nera laggiù in fondo? –
– Sì, ma è molto lontana! –
– Già, non ti sarà facile arrivarvi, ma se a te la buona volontà non manca … –
– Ah no! Ormai sono giunto all’ultima tappa. Sarei uno sciocco se mi fermassi proprio all’ultimo ostacolo! –
– Bene, ragazzo mio. Ti faccio tanti auguri. Addio e buona fortuna. — Addio e grazie di tutto. –
E così Pietro armato di tutta la sua buona volontà si accinge a raggiungere la tanto sospirata isola. Gli occorsero ben tre settimane per approdare su quella terra circondata dal mare e un intero mese per passare dall’altra parte dell’altissimo monte.
Ma finalmente il suo lunghissimo viaggio ebbe termine. Poteva ora conoscere la tribù dei Trigamboni.
Erano veramente mostruosi. Così alti! I loro capi erano rapati, senza un’ombra di capelli. Le fattezze del volto erano totalmente inespressive e i loro corpi erano massicci, sgraziati.
Ma il particolare più raccapricciante erano le loro tre gambe, simili agli alberi maestri di una nave.
Pietro, quando li vide, si sentì percorrere da un brivido. Il suo primo impulso fu quello di fuggire da quell’orribile luogo e ritornare nella sua piccolissima, ma sicura casa. Ma ormai era troppo tardi.
Un Trigambone bambino l’aveva avvistato. Per fortuna era un bambino! Pietro accanto a lui sembrava poco più di una formica!
Il bambino si inginocchiò e lo prese, non molto delicatamente, fra le sue mani. Poi corse dal padre.
– Papà, papà, guarda che strano animale ho trovato! –
– Fa un po’ vedere .. ah, ah! Ma quello è un uomo! –
– Un uomo? Dunque è questo un uomo? Com’è brutto! –
Pietro ebbe un moto di stizza e pensò: – Senti chi parla! –
Il piccolo Trigambone sembrava molto soddisfatto della sua nuova scoperta e non terminava di contemplare la sua vittima.
Portò in giro il povero Pietro come un trofeo, lo mostrò ai suoi amici e a tutti i Trigamboni che incontrava.
La giornata, in quel modo, trascorse molto velocemente e quando venne la sera, il bambino, per tema che il suo nuovo giocattolo fuggisse, lo rinchiuse in una gabbia.
E così il povero Pietro si trovò carcerato fra quattro pareti di sbarre. E per giunta, con lo stomaco vuoto!
Infatti a nessuno era passato per la mente di nutrirlo.
Pietro si sentiva molto scoraggiato e quella notte non riuscì a chiudere occhio. Cercò in tutti i modi di evadere da quella gabbia, ma i suoi tentativi risultarono inutili. In che guaio si era cacciato! Che cosa gli sarebbe successo in seguito? Se avesse dato retta a Serino e non fosse mai partito!
Intanto un nuovo giorno era nato.
Il suo padrone arrivò presto, canterellando. Non lo tirò fuori dalla gabbia, ma in compenso gli porse due scodellini, di cui uno conteneva un liquido lattiginoso e l’altro una poltiglia più densa di un colore verdastro.
Pietro guardò sconcertato quello che avrebbe dovuto rappresentare il suo pasto, poi, facendosi coraggio, assaggiò il contenuto dei due recipienti. Pareva di mangiare fanghiglia.
Ma Pietro aveva fame e spazzò in un battibaleno qual cibo che, di commestibile, aveva ben poco.
Come si annoiava Pietro in quella gabbia! Più che andare in su e in giù non poteva. Il suo pensiero corse all’uccellino chiuso in una gabbia simile alla sua, anche se di proporzioni più ridotte, che rallegrava col suo canto la casa dove aveva sempre vissuto.
Decise che, se sarebbe uscito vivo da lì, appena tornata a casa, lo avrebbe liberato.
Che noia! Che noia! Almeno lo avessero fatto uscire! Avrebbe potuto guardare come si svolgeva la vita in quella maledetta isola. E invece, relegato com’era, in quell’angolo buio, non poteva proprio vedere niente.
Ben presto però ritornò il piccolo Trigambone che, di ottimo umore, lo tirò fuori dalla gabbia e, sedendolo sul palmo della mano, lo portò a spasso. Pietro guardava intorno a sé, sgranando gli occhi.
Com’era tutto differente dai paesi che aveva attraversato!
Non esistevano case, ma immense grotte in cui vivevano intere famiglie di Trigamboni.
Questi abitanti conducevano una vita molto tranquilla, chi sedeva sui massi di pietra, chi mangiava quella stessa poltiglia di cui si era nutrito Pietro, chi parlava, chi faceva assolutamente nulla.
– Una vita piuttosto monotona – pensò Pietro.
Altri bambini raggiunsero il Trigambone che reggeva Pietro.
Egli divenne presto il trastullo generale. Gli venivano fatti fare i più disparati esercizi nel corso dei quali Pietro si fece piuttosto male. Ma anche l’uomo-giocattolo, pur essendo una divertentissima novità, venne rapidamente a noia a quei bambini.
Pietro quindi fu rimesso in gabbia, portato a casa e posto nel solito angolo buio. E lì purtroppo vi rimase per parecchi giorni.
Tutti sembravano essersi dimenticati del povero Pietro che viveva ore di vero terrore. La fame lo torturava e più le ore trascorrevano, più la paura della morte si avvicinava. Inutili i tentativi di far qualcosa, perché non c’era proprio niente da fare.
Gli ritornarono alla mente ricordi che ormai parevano lontanissimi: i volti dei familiari, degli amici, il lungo viaggio, il vecchio che gli aveva dato l’ultima informazione.
Di nuovo si rimproverò, si accusò, si maledisse, si ritenne pazzo, poi, quando lo sfogo si placò, si sedette in un angolino della gabbia e, disperato, attese la fine.
Fine che però non giunse perché la mamma di Pietro entrò nella sua cameretta interrompendo il sogno.
Che sospiro di sollievo che ebbe il ragazzo quando si rese conto che era stato solo un brutto sogno!
Probabilmente i racconti di Serino, la sera prima, erano stati più fantasiosi del solito e Pietro ne era stato colpito.
Si alzò felice e si accinse a recarsi dall’amico per raccontargli quell’incredibile sogno che l’aveva fatto tanto penare.
Avvertì la madre che usciva e quindi passò dalla cucina per avviarsi verso la porta d’ingresso.
Mentre attraversava il locale udì un trillo festoso. Alzò lo sguardo e vide la gabbia dell’uccellino. Rammentò il sogno e, senza indugio, si sollevò sulle punte dei piedi e aprì lo sportellino della gabbia.
L’uccello smise di cinguettare, sporse il capino quasi incredulo e poi spiccò il volo, uscendo dalla finestra aperta.
La mamma di Pietro guardò il figlio stupefatta.
– Vedi mamma, credo proprio che non ci sia niente di più terribile per qualsiasi creatura vivente, di quella di sentirsi serrato fra quattro pareti di sbarre. –
Poi fischiettando uscì di casa, completamente soddisfatto.
Fine





