A un certo momento del monologo vengono rievocate le foibe, la tragedia delle giovani donne violentate, degli italiani legati due e due e precipitati nelle foibe perché contrari o sospettati di essere contrari all’annessione alla Jugoslavia di Trieste e di parte del suo territorio. Mentre la tragedia era raccontata io mi sono sentito in imbarazzo. Se fosse stato raccontato un brano di vita a Mauthausen mi sarei immedesimato nella storia, mi sarei sentito a mio agio, orgoglioso di appartenere alla storia di quei vinti che poi hanno vinto. Mi sono reso conto per la prima volta, che la mia storia politica era stata dalla parte degli aggressori, di chi legava il fil di ferro ai polsi delle vittime, prima di precipitarle, non dalla parte di chi aveva i polsi legati. Dalla parte di chi aveva violentato e non dalla parte di chi era stato violentato.
Si è parlato spesso di memoria condivisa. Ma la memoria per ciascuno di noi è il proprio personale rapporto con la storia generale e con le vicende della propria vita. È perciò difficile che sia condivisa. L’identità deve essere condivisa, non la memoria. Essere italiani vuol dire avere avuto tanto Fossoli quanto Baisovizza. E deve significare sentirsi tanto dalla parte di chi stava sui vagoni piombati quanto dalla parte di chi era precipitato nelle foibe. Il problema italiano non è la memoria; è l’identità. Ci sentiamo ancora oggi appartenenti a storie diverse perché queste classi dirigenti guardano poco al futuro e rinvangano continuamente il passato dell’altro per trovarvi argomenti di divisione, come se la storia dell’altro non riguardasse anche noi. E se io contrappongo a chi mi sbatte le foibe sul tavolo, i crimini di guerra di settori dell’esercito italiano nella ex Jugoslavia, resteremo cittadini di due Italie diverse
Luciano Violante sulla identità degli italiani
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