Il concerto, per meglio dire l’unica scultura musicale che loro eseguono quando sono sulla scena, era al Reitschule di Berna, un vecchio edificio alla quasi periferia, offerto dalla comunità locale ai gruppi giovanili della città.
Temevo un ambiente poco adatto alla concentrazione che The Necks richiedono nell’ascolto. La mia diffidenza era infondata per due motivi: primo, l’ambiente era adattissimo al loro tipo di musica; secondo, questa collocazione così anomala per il jazz talvolta patinato, era invece perfetta e probabilmente anche in sintonia con la loro cultura.
Berna è una città bellissima, ma qui si parlerà solo di loro, dei The Necks. Della città di Berna si parlerà successivamente.
I The Necks mi piacciono. Mi piacciono tanto. Non so bene perché. Credo che sia qualcosa che abbia a che fare con l’immaginazione. Sì:la loro musica lascia spazio all’immaginazione, non la imbriglia, le dà un sottofondo e lascia che i pensieri, i ricordi, le immagini lavorino dentro lo spazio psichico che si crea sullo spazio scenico.
Ho già descritto altrove il loro modo di suonare, di creare il pezzo, di interagire fra loro.
Questa volta scelgo un’altra via per raccontare questo concerto. Percorriamo assieme cosa è avvenuto nel pomeriggio e nella sera del 20 giugno 2010.
Siamo a Berna. Le strade sono ancora bagnate, le nuvole sono nere, ma non piove. Ci sono 9 gradi e c’è un vento gelido. L’eccesso di zelo di Luciana si è rivelato utile: indosso tutti gli strati di indumenti possibili e persino un cappellino impermeabile che protegge e copre l’inesorabile calvizie. Il timore di non rintracciare la Reitschule (devo dire più di Luciana, che non si fida nemmeno delle mappe) è immediatamente scongiurato. Basta camminare un po’ a ridosso del ponte della ferrovia e passando sotto un cavalcavia un’inconfondibile struttura graffita dai writers rivela la sua presenza.




Prendiamo un primo contatto con la città. Ma l’obiettivo è un altro: occorre incontrare i The Necks che suonano assieme dal 1989, che vengono dal paesaggio australiano, che sono venuti forse solo una volta in Italia parecchi anni fa e che calcano i podi di città russe, austriache, francesi, inglesi. E questa volta finalmente sono in Svizzera, cioè a 4 ore di viaggio in treno dalla nostra città.
Alle 20.40 siamo già sulla Neubrückstrasse 8. Un paio di giovani adulti passano, mi guardano e vanno oltre, tutte le porte sono chiuse, ma rassicuranti poster annunciano l’evento.

Finalmente altre 5 persone si affiancano a noi. Una donna pare saperla lunga – ne conosco tante di svizzere così che paiono saperla lunga, si assomigliano un po’ anche se appartengono a generazioni diverse. Sono energiche, decise, e soprattutto conoscono un sacco di lingue – e con piglio sale le scale e bussa alla prima porta. Eeeh, … ma siamo in Svizzera e quando si dice ingresso alle 21,00 si apre solo e soltanto alle 21,00 spaccate. Avevamo già prenotato i biglietti e dunque li consegniamo. Che la serata prometta bene è già segnata dal successo di Luciana che chiede e ottiene 2 locandine della manifestazione.
Finalmente ci siamo. Siamo sul luogo. L’ambiente è una soffitta oscura con le travi di legno. E’ proprio il locale giusto, quello in cui tutte le generazioni dal Novecento in avanti hanno fatto jazz. Poche sedie di legno, una consolle per le luci e i suoni, un bancone che vende esclusivamente birra e alcolici e poi … il palco, con batteria, contrabbasso, pianoforte.
Qualche tavolaccio illuminato da un moccolo di candela per posare le consumazioni e due solerti ragazzi che aprono gentilmente delle sedie pieghevoli:
Lentamente si aggiungono altri avventori: sono quasi tutti giovani tranne Marcus Plattner con il quale intrattengo qualche parola, anche se è solo lui a parlare italiano. E’ un musicista di Berna e conosce Lloyd Swanton, che anche per me è l’unico contatto con il gruppo.
Alla fine raggiungeremo a mala pena la cinquantina di spettatori.
Tuttavia mi sono istintivamente tutti simpatici. Sono lì seduti, e, come me, attendono questo momento. E’ evidente che qualcosa ci ha attirati tutti lì quella sera, in Svizzera, a Berna a sentire un gruppo che arriva da Sidney.
Ci sediamo in prima fila, proprio a ridosso del palco. Lo considero un privilegio straordinario che ci è capitato una sola volta a Vicenza, con John Lewis, un mito del pianismo jazz.
Alle 22,03, con soli tre minuti di ritardo, entra il trio. Sono vestiti come persone qualsiasi, jeans, pedule, camicie slacciate. Nessuna affettazione. Swanton ha un cappello con visiera che gli copre il viso. Sono lì solo a fare musica, a Jouer Le Jazz. Il pezzo durerà 48 minuti. Come dicevo non farò un’analisi stilistica. Sento che non è necessario. O questa musica piace, o non piace. Basta. A me piace e anche a Luciana è piaciuta.
La scansione di questa, insisto, scultura musicale è come di consueto basata su 4 tempi.
Introduzione. I tre sembrano concentrati ciascuno su se stesso ed il suo strumento. I suoni “sembrano” scoordinati eppure si capisce subito che tra loro c’è un feeling fortissimo. Tony Buck inevitabilmente attira subito la mia attenzione: armeggia con la batteria, fa tintinnare un campanaccio, fa ruotare la bacchetta, se la mette in bocca, per prendere un altro attrezzo. E’ evidente che ha 2 mani e due gambe, eppure è come se fossero doppie. Ognuna lavora per conto suo e, ha osservato Luciana, sembra fare dei rituali allo scopo di tenere il suono in corrispondenza a quello dei suoi amici. Swanton questa volta incomincia subito a lavorare di contrabbasso. Si sa che il contrabbasso in un trio tiene assieme tutto. E lui, che è paziente, gentile e cordiale, fa questo lavoro. Ma la cosa più interessante che mi conferma il fatto che la loro musica vuole agire sull’immaginazione è che terrà gli occhi chiusi per tutti i 48 minuti. Chris Abrahams è concentratissimo sul suo pianoforte. Volta le spalle agli altri due e dunque la comunicazione è solo basata sulle note.
Prima trasformazione. I tempi si fanno più rapidi. E’ come se avessero individuato quella porticina che immette nell’ambiente psichico che hanno creato per se stessi e per gli ascoltatori e in quel pertugio entrano facendo agire il principio dell’intersoggettività.
Seconda trasformazione. Quello che mi stupisce dei The Necks è la loro tenuta sui tempi lunghi. Voglio dire che ogni volta che elaborano un passaggio noi siamo normalmente abituati ad aspettarci il culmine, il plot di questo passaggio, intuendo che il pezzo sta terminando. Ecco: loro non fanno questa operazione. Elaborano il passaggio e poi su questo passaggio ci resteranno per altri 10-15 minuti. A loro piace stare su una sequenza di note. E a me piace stare lì con loro.
Finale. A questo punto il ritmo si fa frenetico. Si dice che The Necks sono inclassificabili: taluni dicono “minimal jazz”. Ma questo è il punto. Quello che ora si sente nel finale è swing, solo swing, cioè una delle componenti essenziali del jazz tradizionale. Swanton fa praticamente corpo unico col contrabbasso e alterna tocco delle corde e arpeggio; le dita di Buck assomigliano al battito d’ali d’un colibrì, la velocità è incredibile, la tenuta delle battute superba, la forza fisica che mette in ciascun movimento che fa è possente: campanaccio, piatti, bacchette, tamburello, tutto in un alternarsi di, questa volta sì, minimalistica precisione. Abrahams esce dal metodo della singola nota e comincia a carezzare la tastiera ottenendo continue cascate di note. A questo punto i tre sono del tutto uniti a “chiudere la scultura”. Mi chiedo chi di loro dice quando il pezzo è finito. Mi rispondo che non lo si capisce eppure finiscono quando il pezzo doveva finire.
Alle 22,50 c’è l’attimo di silenzio. L’applauso stenta ad arrivare, forse perché dentro quell’ambiente ipnotico ci vuole un po’ di tempo a riprendersi. Ma poi si capisce che il pubblico ha apprezzato e saluta il trio.
E qui mi ridiventano ancora più simpatici gli organizzatori del Reitschule che hanno messo insieme questa serata.
Ma per me non è ancora finita. Avevo una promessa internettiana con Swanton … l’autografo. Anche se ho 61 anni, ho bisogno degli autografi, come farebbe un qualsiasi adolescente a cospetto del suo idolo. Mi avvicino al più socievole dei tre, con la mia raccolta dell’intera loro collezione di CD, me la sono portata apposta nonostante l’ingombro. Swanton sorride, evidentemente compiaciuto e dopo la sua dedica e firma, mi accompagna in uno stanzino retrostante il palco, dove Buck e Abrahams stanno cenando con frutta e affettati. Mi fanno cenno di sedermi con loro ma qui si manifesta il mio handicap, non spiattello una parola di inglese e quando uso questa lingua utilizzo il traduttore automatico. Li saluto con ammirazione, percepisco che sentono la mia partecipazione e ancora un po’ in trance, esco con il mio trofeo.
Dicevo che Swanton è gentile. La conferma è questa mail che mi ha inviato nei giorni successivi al concerto.
“Thanks Paolo, a pleasure to meet you at long last and thank you for the very flattering tribute. We’re so glad that our music means so much to you. All the best”
Lloyd Swanton
(” siamo felici che la nostra musica significhi così tanto per te” tradotta da Dodo)
Caro lettore, ripeto quanto detto poco fa. O la musica dei The Necks piace, e se piace è l’immaginazione a suggerirlo, o non piace. Se credi, prova a “vedere” sentire qui sotto alcuni frammenti del concerto. Se poi vorrai qui sopra, all’inizio di questo ricordo, c’è tutta le preziosa tracce di quelal sera a Berna, al Reithschule, il 20 giugno 2010
LA TUA DESCRIZIONE DEL LORO MODO dI fare e suonare la musica SUONARE INSIEME E’ TALMENTE CHIARA E SUONI ASCOLTATI NELLA TUA registrazione mi hanno fatto sentire almeno in parte in trance alla Retschule!
Davvero speciale, oso dire inedita!
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grazie, anna. mi fai davvero molto piacere. sono un ammiratore di questo gruppo australiano. musicisti di nicchia, per orecchie e sentimenti aperti e profondi. come sai ESSERE tu
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