Amicizie maschili

Nei miei decenni avrei desiderato coltivare amicizie maschili. Quelle amicizie talvolta ruvide ed anche un po’ complici che, tuttavia, rafforzano l’identità di genere.
Quelle di cui ho più nostalgia affondano alla fine degli anni sessanta, in quell’arco di tempo che va dai sedici ai ventiquattro. Allora la forza delle spinte all’entrata nell’età adulta mi portava ad intrecciare rapporti profondi, tutti ispirati alla scoperta delle finestre che si aprivano sul futuro. Si parlava, si parlava, si parlava per ore, per notti. Sono certo che nella mia attuale personalità ci sono e vivono ancora quelle radici lontane ed affondate nella memoria.
Poi LA si è dissolto in una bradipica posizione dirigenziale nella quale convive con un infarto severo, BCG si è suicidato, CB ha – quasi subito – abbandonato il suo anarchismo ideologico per una (devo dire modesta ed irrilevante) carriera accademica, LB mi liquidò già allora con uno sferzante “non hai spirito critico”, EB ha rafforzato il suo atteggiamento distanziante, alimentato da una grande percezione del suo Sè, AC è il più durevole, anche se i nostri idem sentire erano e restano troppo lontani per alimentare la longitudine della conversazione, GL è il fortunato reincontro alla soglia dei sessant’anni, dopo quello intenso dei vent’anni, anche se l’identificazione con il lavoro e il non-uso delle tecnologie internettiane disabilita la possibilità di camminare di più assieme.
Ora le tecnologie della rete mi consentono, sia pure nella forma degradata del virtuale (nel senso che il rapporto faccia a faccia ha un circuito sanguigno più intenso, anche se più complesso da gestire) provare a recuperare quall’amicizia maschile di cui parlavo nelle prime righe.
Ho avuto la fortuna di incontrare in più crocicchi Dodo (l’amico con cui vorrei passeggiare per strada o in campagna, perchè con lui l’arte della conversazione la si apprende coltivando l’empatia della osservazione del mondo) e JazzFromItaly, con il quale mi auguro che il Jazz faccia da substrato nutriente.
Questo stralcio biografico è stato attivato questa mattina da un Post-Citazione di Gabriele De Ritis . Quello con Gabriele è un incontro su cui punto molto: stessa generazione, stessi compiti funzionali (attraversare la soglia dall’età adulta alla vecchiaia), stessa identità politica (militanza attiva nel Pci), letture ed anche esperienze welfaristiche in parte vicine, “idem sentire” su tantissimi temi (fra cui una frequentazione di alcuni scritti di Claudio Risè)
Insomma: sono piuttosto contento di questo incontro ed amicizia e vorrei tenerlo attivo.
Oggi Gabriele evoca un tema decisional-politico e vi allude il suo giudizio con questa citazione:

Allora, riassumendo: il trattato di Schengen non si tocca perche’ il governo romeno ha minacciato le prevedibili rappresaglie commerciali contro le fabbriche degli imprenditori del nord-est; il reato di clandestinita’ non sara’ introdotto perche’ anche Maroni ha capito che avrebbe provocato l’arresto e l’immediata espulsione di centinaia di migliaia di badanti e colf. Delle misure annunciate da Ghedini, il pacchetto sicurezza si riduce alla trasformazione delle caserme dismesse in nuovi lager (eufemisticamente denominati Cpt), ai rastrellamenti di massa, per cui oggi il governo spagnolo ci ha accusati di razzismo, alle ronde di Stato richieste da La Russa e alla caccia e ai pogrom autorizzati ai Rom. Ma se una giovane nomade viene accusata di aver cercato di rapire una bambina e per punizione il clan camorrista locale va ad incendiarle il campo, perche’ in Sicilia la famiglia mafiosa di Niscemi non va a bruciare le case dei 4 ragazzi che hanno ucciso la quattordicenne che era rimasta incinta di uno di loro? O a Verona le ronde padane non mettono a ferro e fuoco le abitazioni di quei ragazzi che hanno massacrato un loro compagno? Siamo nella patria del Diritto, delle certezza della pena, di Beccaria. La legge non dovrebbe essere uguale per tutti?
Un caro saluto.
Marino Bocchi.

La conversazione amicale dovrebbe avere, nelle mie intenzioni, lo spirito della sincerità.
Anche quella di “confessarsi”, aspettandosi attenzione e comprensione, e non la spocchia giudicante.
Ecco con Gabriele mi sono sentito abbastanza sicuro nell’interagire quasi immediatamente senza filtri di autocontrollo.
E gli ho risposto così:

parole prudenti e equilibrate.
ne ho bisogno, perchè io tendo al controllo ed alla chiarezza nelle relazioni.
è molto semplice: porta aperta se entri a casa mia (di proprietà o in affitto che sia). però i piedi sul tavolo non li metti e ti comporti con educazione. altrimenti: fuori. con l’aiuto delle forze di sicurezza.
sì: perchè nei film western sono sempre stato un simpatizzante degli sceriffi, come Burt Lancaster in “Io sono la legge”.
Tuttavia in me c’è un conflitto mobile fra Es ed Io, mediato dal Super Io.
Sono abbastanza provveduto per comprendere che non sempre è possibile trasferire sul piano collettivo quello che funziona sul piano delle relazioni primarie.
In tutta questa vicenda, nella quale sono molto a disagio – perchè in tema di multicilturalismo le mie pulsioni profonde sono vicinissime agli istinti torbidi del localismo territoriale della Lega, mentre la mia testa è sulle grandi idee di Platone, oggi evocato da akatalepsia, dell’illuminismo voltairiano, delle democrazie inclusive – osservo che la neodestra subisce condizionamenti esterni alla sua aggressività: le regole europee, la pervasività dei mercati, la logica delle convenienze, l’oggettività della sua collocazione geografica, l’assenza di materie prime che costringe a relazionarsi, nonostante la voglia di esercitare il potere dei forti.
La situazione è per me “educativa”: mi rendo conto che ho un continuo problema di civilizzarmi. e che la conquista della civilizzazione interiore è un processo continuo. E’ un apprendimento continuo.
A differenza dei soloni e soloncini della cultura “de sinistra” che sono puri, ben piazzati nelle loro scolpite convinzioni e che dubbi non hanno e che sono convinti delle loro spigolose opzioni culturali anche se la storia le ha levigate o addirittura spazzate via come fanno le onde del mare

Mi confermo che la filosofia del “ma anche” è quella che meglio mi rappresenta.

La conversazione si è, successivamente, sviluppata.

Gabriele:
Caro amalteo,
il tuo post di oggi mi trascina piacevolmente nella discussione sui nostri destini nazionali, sulle identità, sui limiti dell’accoglienza dello straniero
Ne avremo per molto, credo.
Una prima cosa che mi viene in mente è un’inchiesta di Repubblica di circa venti anni fa (non sono, però, sicuro che sia passato tanto tempo!). In essa Bocca, alla fine del ciclo di interventi, dava la parola a un demografo genovese, il quale disse più o meno: quest’ondata migratoria
durerà
duecento anni. Io non so se sia così. Mi piace pensare, però, che sia così, perché gli sconvolgimenti economici fatalmente spingono i poveri verso i Paesi ricchi.
La seconda cosa che mi viene in mente è racchiusa in un pezzo di Cacciari uscito su MicroMega, uno di quei testi che io amo chiamare definitivi (te lo spedirò): in esso Cacciari,parlando dello straniero, indicava come questione cruciale la dialettica hospes/hostis. Con la coppia, egli voleva indicare un’incertezza sulla realtà che sta fuori di noi: tu non saprai mai se quello che entra in casa tua si rivelerà Ospite o Nemico. Lo scoprirai dopo. Si può chiedere a chi bussa alla porta se è l’una o l’altra cosa? Cacciari afferma lì che ci sarebbe stata violenza e che essa avrebbe reso le cose difficili e che non c’era modo di pensare diversamente la nostra condizione di Ospiti. Ne L’arcipelago, il volume che costituisce il dittico sull’Europa con Geofilosofia dell’Europa, egli afferma che il destino dell’Occidente è tramontare e il nostro tramonto come civiltà – l’eurocentrismo da cui proveniamo – usciva esaltato dal fatto che la vecchia Europa si realizza nel nuovo tempo con arcipelago di culture: questo è il nostro destino, accogliere le diversità e farle convivere. Altro, secondo lui, non è dato:

«Prossimo, infatti, è ciò che differisce «inesorabilmente» da noi. Prossimo è soltanto ciò che possiamo concepire come avente un proprio carattere e un proprio luogo distinti dal nostro carattere e dal luogo che noi occupiamo. L’ansia di eliminare la distanza non produce comunità, ma, all’opposto, ne dissolve la stessa idea. Può produrre comunità, invece, soltanto uno «sguardo» che custodisce l’altro nella sua distinzione, un’attenzione che lo comprenda proprio sulla base del riconoscimento della sua distanza. L’intelligenza del prossimo non consiste nell’afferrarlo, nel catturarlo, nel cercare di «identificarlo» a noi, ma nell’ospitarlo come il perfettamente distinto». L’altro è il prossimo da amare. Ma l’amore come arma, strumento e modalità conoscitiva è più che un sentimento: «amore non vuol dire amare». L’amore del prossimo consiste nel riconoscimento di una situazione critica e nella disponibilità a farsene carico. Il linguaggio non religioso chiama ciò «responsabilità». Tra etica della convinzione ed etica della responsabilità a costituire compito è ormai quest’ultima.

La terza cosa che mi viene in mente è quello che ci insegna la biopolitica – che ritrovi nella linea Foucault-Esposito e Foucault-Agamben: il paradigma immunitario non funziona: tutti i tentativi che saranno posti in essere per mettere al riparo il corpo sociale dal contatto, dal contagio, dall’assalto dello straniero non daranno frutti: l’ondata non si fermerà; entreranno nemici; saremo ‘meticci’, come dice Eco.
I disordini di Marsiglia di qualche anno fa indussero taluni a dire una cosa che potrebbe aiutarci: in una città ospite il numero degli stranieri non può mai superare la soglia del 25% delle presenze: oltre quella soglia, i residenti sentono la loro identità minacciata.
Mi viene in mente una quarta idea. Eco scriveva molti anni fa che il razzismo è un evento prossemico: lo misuri bene quando hai gli stranieri vicino casa, in numero grande, rumorosi e irrispettosi delle regole… Devi sapere che qui da me, a parte gli Albanesi arrivati con la caduta del regime di Hoxa, i Cinesi che crescono, non abbiamo avuto grandi numeri. Possiamo dire di non essere razzisti? di non avere paura? di essere buoni Italiani, mentre gli altri sono cattivi?
Tu scrivi oggi cose belle. Pronunci il mio nome. Questo mi procura una grande emozione. Avrei cose importante da dirti al riguardo, ma non c’è fretta. Fino a quando tu non mi perderai di vista, io non ti perderò di vista. La distanza è quella che è. Ho visto la tua foto sul tuo sito professionale, quindi riesco ad immaginarti nel tuo orto e quando il tuo sguardo si perde nella contemplazione della distesa del lago. Mi auguro che ci siano riservati buoni giorni e tanti ancora, per poter condividere pensieri misurati e per poter godere della musica di Nina. Altro non chiedo oggi. Non è poco.

rispondo:

caro gabriele
tu poni due tipi di questione in tema di multiculturalismo.
il primo è quello della “ineluttibilità” di questi processi sociodemografici.
il secondo è di tipo etico: il rapporto con l’altro
comprendo meglio su quali punti non riesco a stare sulla tua lunghezza d’onda di pensiero.
o meglio: la mia parte razionale comprende ed anche condivide.
la mia parte “senso comune” (emozioni, quotidianità) invece partecipa (con contraddizioni e disagio) alle altre ragioni – oggi incarnate dalla politica della neodestra- tese a regolare, a intervenire soggettivamente su questi processi di mutazione culturale.
insomma: ti confermo che non sono ostile al giro di vite messo in atto da questo governo.
motivo il mio argomentare.
l’ineluttabilità dei processi di spostamento di popolazione da una parte all’altra degli stati richiede regolazione. la francia era un paese colonialista che ha organizzato in una diversa prospettiva i processi di integrazione (ed ora ha il problema della violenza dei francesi di famiglia nosrafricana che nel periodo del ribellismo adolescenziale mettono a ferro e fuoco le banlieu delle aree metropolitane ) da noi TUTTO E’ AVVENUTO CON ESTREMA RAPIDITA’ (circa 20 anni) e con una sostanziale assenza di regole chiare , incentivate anche dala scarsa efficienza della burocrazia italiana.
questo ragionamento lo lego alla questione hospes/hostis che hai proposto citando massimo cacciari.
rispondo con una immagine: apro la porta e c’è uno straniero (un solo straniero, magari con una compagna: uno o due , insomma) oppure apro la porta e fuori ci sono 20 stranieri, che non parlano la mia lingua, di cui non capisco le intenzioni ed alcuni dei quali mi appaiono pericolosi.
insomma: la QUANTITA’ fa la QUALITA’ delle relazioni.
se poi aggiungo la oggettiva pericolosità della religione islamica (nella sua variante “normale”, o “moderata” come si dice ed in quella estremista/fondamentalista) e del SEGNO CHIARO rappresentato dal 11 settembre 2001 riesco a mettere in fila qualche tratto culturale che spiega la mia insofferenza ed anche la mia paura.
quella che ha fatto votare nel modo che sappiamo gli elettori del 13 aprile
lo stesso massimo cacciari (che comunque è un filosofo tragico e che ha una visione fosca ed apocalittica sul futuro) ha reagito con la sua consueta durezza a coloro che citano i dati istat (che parlano di una no allarmistica situazione di reati). più o meno ha detto: “me ne frego dei dati istat. il sentimento di insicurezza è un DATO tanto quanto i numeri.”
conclusione: non vedo in modo negativo i segni di dura chiarezza con cui si risponde alla criminalità oggettivamante indotta da migrazioni che hanno favorito lo spostamento di criminali dell’est e dei paesi di religione islamica.
grazie per i tuoi testi su cui rifletterò ancora

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