Jonah Lehrer (2008) Proust era un neuroscienziato Traduzione di Susanna Bourlot Codice Edizioni, Torino | TartaRugosa

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Jonah Lehrer (2008)

Proust era un neuroscienziato

Traduzione di Susanna Bourlot

Codice Edizioni, Torino

Un ricercatore scientifico trascorre lunghi periodi della sua professione aspettando. Le sperimentazioni condotte per scomporre, verificare, pesare, misurare, quantificare richiedono operazioni durevoli e ripetitive e, soprattutto, tempo.

Così il giovane neuroscienziato Jonah Lehrer impiega lo scorrere dell’attesa nella lettura. Traendone interessanti scoperte.

La posta in gioco è alta. L’obiettivo di comprendere il funzionamento del cervello ha sempre accompagnato l’essere umano nel corso della storia, ma è in epoca piuttosto recente che la tecnologia ha messo a disposizione strumenti efficaci per indagare là dove il mistero era insondabile, introducendo meccanismi sofisticati per ridurre l’insieme nelle sue singole parti. Ecco quindi che la scienza e la cultura ad essa correlata hanno sempre classificato come inattendibili i risultati non sottoponibili a scomposizione e misurazione.

Per contro, l’arte ha percorso il cammino opposto, dando risalto, nelle sue opere, al senso dell’esperienza e all’immaterialità della coscienza.

Lehrer si sofferma proprio su questa contrapposizione tra arte e scienza. Il riduzionismo di quest’ultima non potrà mai spiegare come noi possiamo fare esperienza del mondo, originando il paradosso che “l’unica realtà che la scienza non può ridurre è l’unica realtà che mai conosceremo”.

Ma, tornando all’arte, non si può certo affermare che essa sia insensibile al condizionamento della disciplina scientifica propria dell’epoca relativa. Gli otto artisti selezionati dall’autore si collocano tra la metà del XIX secolo e l’inizio del XX e il criterio della scelta è coinciso con un fatto clamoroso: le loro opere e la loro immaginazione anticiparono con indubbia precisione scoperte compiute dalle neuroscienze in un periodo successivo.

“La nostra materia è aggrovigliata con il nostro spirito” e i metodi per esplorarla possono essere diversi. “Marcel Proust passava le giornate a letto, rimuginando sul passato; Paul Cézanne poteva contemplare una mela per ore; Auguste Escoffier stava cercando solo di compiacere i suoi clienti; Igor Stravinskij stava cercando di non compiacere i suoi clienti; a Gertrude Stein piaceva giocare con le parole. .. Walt Whitman studiava manuali di anatomia cerebrale; George Eliot leggeva Darwin e Maxwell; Virginia Wolf si documentava sulla biologia della malattia mentale”.

Gustoso e divertente il capitolo dedicato a Escoffier, il celebre chef inventore del brodo di vitello. “Usava i fondi di cottura per nobilitare il comune sauté. Per conferire al piatto un gusto profondo e intenso. Dopo aver cotto la carne in un tegame rovente.. la toglieva dal fuoco e la lasciava riposare, mentre la padella sporca, piena di grasso delizioso e di braciole di carne, veniva deglassata. La deglassatura era il segreto del suo successo. …Un pezzo di carne viene cotta a fuoco vivo – così da ottenere una crosticina (reazione di Maillard) ben abbrustolita, cioè aminoacidi che caramellano e si amalgamano – e poi si aggiunge un liquido, per esempio un ricco brodo di vitello. Mentre evapora, il liquido ammorbidisce la fronde, i pezzetti di proteine attaccati al fondo della padella (la deglassatura facilitava anche la vita al lavapiatti). La frondedisciolta è ciò che dà alle salse di Escoffier la loro divina profondità; è ciò che rende il beouf bourguignonbourguignon”.

Ai tempi di Escoffier la scienza attribuiva alla lingua solo quattro sapori: dolce, salato, amaro e aspro. Ma la ricetta del fondo bruno del gastronomo non aveva nulla a che fare con questi gusti. La definizione di quel sapore così allettante ci arriva niente meno che dal Giappone :umami (squisito) e dall’ostinato Ikeda che dedicò gran parte della sua ricerca alla caccia di questo gusto sconosciuto.

“Dopo anni di chimica solitaria, Ikeda trovò la sua molecola. Era l’acido glutammico, il precursore dell’L-glutammato. … L’acido glutammico è di per sé insapore. Solo quando la proteina si degrada in seguito a cottura, fermentazione o maturazione al sole le molecole degenerano nell’L-glutammato, un aminoacido che la lingua può assaporare”. Per acquisire l’umami, il glutammato doveva essere legato a una molecola stabile che la lingua potesse apprezzare: il sale.

Ma questa scoperta passò sotto silenzio.” L’umami, dissero gli scienziati occidentali, è una teoria oziosa .. una sciocca idea riguardante quel nonsoche definito squisitezza. … Così, mentre i cuochi di tutto il mondo continuavano a basare la loro intera cucina sul dashi, sul Parmigiano reggiano, sulla salsa di pomodoro, sul brodo di carne e sulla salsa di soia (tutte potenti fonti di L-glutammato), la scienza insisteva nel difendere, con un’ingenuità che non aveva nulla di scientifico, i quattro gusti, non uno di più”.

Dobbiamo attendere il 2000 e la biologia molecolare per avvalorare il nuovo gusto: sulla lingua esistono due distinti recettori che possono percepire solo il glutammato e gli L-aminoacidi. “Diversamente dai gusti dolce, aspro, amaro e salato, che sono percepiti l’uno in relazione all’altro .. l’umami viene percepito di per sé”.

Anche un’altra scoperta fu inavvertitamente fatta da Escoffier: servendo il cibo caldo diede evidenza all’importanza dell’olfatto. “Quando mangiamo, l’aria circola attraverso la bocca e sale per le vie nasali, dove le particelle gassose del cibo caldo si legano a più di dieci milioni di recettori olfattivi schierati in un’area non più grande di un francobollo. …il bulbo olfattivo è inondato dal feedback proveniente dalle aree cerebrali superiori. Questo feedback modula e perfeziona di continuo le informazioni raccolte dai recettori dell’odore. Un team di scienziati di Oxford ha mostrato quanto una semplice etichetta verbale possa alterare ciò che pensiamo ci stia dicendo il nostro naso. Se al soggetto di un esperimento viene data dell’aria inodore da annusare, ma gli viene detto che profuma di fontina, le sue aree olfattive si accendono di famelico desiderio. Ma quando la stessa aria viene presentata con l’etichetta “odore corporale”, il soggetto spegne involontariamente le aree olfattive del cervello. Sebbene la sensazione non sia cambiata – si tratta sempre di aria purificata – la mente ha corretto totalmente la propria risposta olfattiva. Senza saperlo inganniamo noi stessi.”

Ad Escoffier poco importava della nostra realtà neurologica.

A dimostrazione che quello che sperimentiamo non è quello che percepiamo e che l’esperienza è ciò che capita quando le sensazioni vengono interpretate dal cervello soggettivo, basti pensare all’intuito dello chef su questo aspetto psicologico: “I suoi ristoranti si fondavano sul potere della suggestione. Lo chef insisteva che i suoi piatti avessero dei nomi eleganti e che fossero serviti su vassoi d’argento placcati d’oro. Le porcellane venivano da Limoges, i bicchieri da vino dall’Austria e la sua formidabile collezione di posate lucenti dalle aste di proprietà nobiliari. Escoffier non serviva bistecca al sugo, serviva filet de boeuf Richelieu. Faceva indossare lo smoking ai suoi camerieri e sovrintendeva alla decorazione rococò della sua sala da pranzo. Un piatto perfetto, del resto, esigeva una disposizione d’animo perfetta. Pur passando diciotto ore al giorno dietro un fornello incandescentre, a creare le sue collezioni di salse, Escoffier capì che quello che gustiamo è in definitiva un’idea, e che le nostre sensazioni sono influenzate dal contesto”.

Escoffier ha onorato il potere della buona cucina: inventare un nuovo tipo di desiderio.
Principio pedissequamente seguito anche oggi non solo in arte culinaria.

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