Categoria: LETTURE
TartaRugosa ha letto e scritto di: Ian McEwan (2014) La ballata di Adam Henry, Traduzione di Susanna Basso, Einaudi, Torino
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Ian McEwan (2014)
La ballata di Adam Henry
Traduzione di Susanna Basso
Einaudi, Torino
Un grazie a Nottola per la segnalazione di questo libro.
Ho letto alcune opere di Ian McEwan, ma non conoscevo questa. Condivido il suo dire: “Mi hanno detto che è un libro adatto per chi fa l’assistente sociale”.
La storia del giudice Fiona May, infatti, è intrisa di decisioni difficili da prendere nell’ambito di situazioni di disagio minorile (controversie spesso rese ancora più complicate da questioni etiche e religiose) e che vengono risolte attraverso la seria e rigorosa applicazione della legge “Children Act” del 1989 in difesa del minore.
Nel romanzo la vita privata e la vita professionale della protagonista si intrecciano e mescolano con inaspettati colpi di scena, il che rende ancora più appassionante la partecipazione del lettore alle vicende che si svolgono presso la Sezione Famiglia dell’Alta Corte britannica , là dove confluiscono misere “promesse d’amore abiurate o riscritte … figli moneta di scambio pronta all’uso da parte di madri, vittime di abbandoni economici o affettive … mariti violenti nei confronti di mogli e figli, mogli insincere e maligne … figli vittime di autentici abusi, sessuali o mentali … seviziati, affamati o percossi a morte, sottoposti a rituali animisti per essere liberati da spiriti malvagi” tutte situazioni senza speranza cui Fiona, professionista integerrima e coscienziosa, fiduciosa nelle disposizioni del diritto di famiglia, cerca di “restituire ragionevolezza”.
Accade però un fatto: improvvisamente, ecco che dopo “un’intera carriera trascorsa al di sopra della mischia, a consigliare, giudicare, e a commentare con sufficienza, in privato, la perversa assurdità delle coppie in fase di divorzio”, ora è proprio lei ad essere “trascinata sul fondo insieme a tutti gli altri, ad annaspare in quelle acque torbide”.
Dopo 35 anni di matrimonio lei e Jack, una coppia appagata, felicemente affermata sul piano professionale, si trova infatti ad affrontare un grave momento di crisi.
Jack, marito e professore, chiede a Fiona di poter vivere una passionale avventura. Un fatto di sesso, sia chiaro, null’altro visto che “l’amava e l’avrebbe amata sempre, che non c’era una vita diversa da quella che avevano, ma che i suoi bisogni sessuali non soddisfatti gli procuravano grande infelicità, che gli era capitata quell’occasione e che voleva coglierla, non senza informare lei e nella speranza anche di ottenere il suo consenso”.
Un vero fallimento per Fiona, da sempre immersa nelle umane debolezze, disposta a valutare in modo distaccato e neutrale ogni testimonianza, chiamata a redigere sentenze di fronte a decisioni eticamente complesse e, soprattutto, illusoriamente convinta di poter esonerare se stessa e il marito da condizioni simili a quelle passabili di giudizio ogni giorno dell’anno.
Ma chi si nasconde dietro Fiona giudice? Che siano vere le parole di Jack “Non sei stata tu a dirmi una volta che nei matrimoni che durano tanti anni si finisce per sentirsi come fratello e sorella? … Ora sono diventato tuo fratello …”.
Colpisce la fragilità dei pensieri e del comportamento: una donna che per la carriera ha rinunciato alla maternità e, probabilmente, a coltivare con più profondità il proprio rapporto coniugale. “Dopo la laurea, ulteriori esami, l’abilitazione all’esercizio della professione, il praticantato, la fortunata convocazione presso studi legali prestigiosi, qualche successo iniziale nella difesa di alcune cause disperate; quanto era sembrato logico, in tutto ciò, rimandare l’avvio di un bambino a dopo i trent’anni. E quando i trenta arrivarono, ecco presentarsi altri casi complicati e interessanti, altri successi … E si passò ai 35, quando Fiona sfacchinava 14 ore al giorno appassionandosi sempre di più al diritto di famiglia mentre la possibilità di crearsene una propria si allontanava … fino a che quando chiamata dal presidente dell’Alta Corte a prestare giuramento di fedeltà alla Corona, Fiona seppe che i giochi erano fatti, e che lei apparteneva alla legge come certe donne del passato si erano votate spose di Cristo”.
Nel dilaniante tormento causato dall’uscita di casa di Jack, Fiona si immerge nel lavoro senza lasciar apparire nulla della sua vicenda privata.
Ora ha un nuovo caso da seguire: Adam Henry, diciassette anni e nove mesi, affetto da una grave forma di leucemia, è condannato a morire se non riceverà quelle trasfusioni di sangue che il suo credo religioso (Testimoni di Geova) gli vietano. Il caso di vita o di morte deve essere risolto in tempi rapidissimi.
Adam, ragazzo intelligentissimo, musicista e poeta, mostra la sua assoluta convinzione a sospendere le cure, considerato che ricevere sangue da altri equivarrebbe a una insostenibile contaminazione. Le sue parole, dotte e saccenti, arrivano direttamente alle orecchie di Fiona, che ha deciso di incontrarlo all’ospedale e con cui si intrattiene anche oltre al dovuto.
Nonostante la chiara volontà di Adam di non sottostare alle cure, Fiona arriva a una determinazione opposta a quella del ragazzo e dei suoi familiari, così suffragata: “…La sua infanzia è stata un’interrotta e monotona esposizione a una potente visione del mondo dalla quale il ragazzo non può non essere stato condizionato. Non favorirà il suo benessere patire i tormenti di una morte non necessaria e trasformarsi così in un martire della fede. … Il suo benessere trarrà maggiore vantaggio dal suo amore per la poesia, dalla sua passione recente per il violino, dall’esercizio della sua intelligenza vivace e dall’espressione di una natura tenera e scherzosa e infine da tutta la vita e tutto l’amore che ha davanti a sé. … Deve essere protetto dalla sua religione e da se stesso”.
Il giorno stesso della sentenza, Jack torna a casa. Fiona se lo trova lì, seduto in paziente attesa sul pianerottolo, dopo aver scoperto che la chiave della porta d’ingresso è stata cambiata.
Ritroviamo una Fiona tradita e con un rancore non ancora estinto, una Fiona che dopo aver deposto la toga alla fine della sua giornata così trascorre il resto delle ore all’interno del suo “nido” domestico: “Procedevano nelle rispettive routine, svolgendo il proprio lavoro in parti diverse della città e, quando si ritrovavano confinati sotto lo stesso tetto, tendevano a scansarsi con garbo studiato, come ballerini a una festa di campagna. Se le questioni domestiche li costringevano a conversare, facevano a gara a chi era più educato e laconico, evitavano di mangiare insieme, lavoravano in stanze separate, ciascuno deconcentrato dalla cruda consapevolezza radioattiva dell’altro al di là di una parete. L’unico gesto conciliante di Fiona fu quello di consegnargli la chiave nuova”.
E c’è qualcos’altro che è cambiato nella vita di Fiona: la corrispondenza che puntualmente le arriva da un Adam Henry dapprima felice di aver sconfitto la morte grazie alla sua decisione di giudice e in seguito con un umore un po’ altalenante e il desiderio di incontrarla “Avrei tantissime domande da farle …Avrei voluto parlarle per strada, avvicinarmi e bussarle su una spalla …”
Cosa impedisce a Fiona di dare il richiesto riscontro a quelle missive? Forse il ricordo della musica suonata e le parole della poesia cantate con Adam durante quell’unico incontro ospedaliero vanno contro la sua deontologia professionale?
Quale ferita si riapre in un coinvolgimento così profondo nato al capezzale del letto di un ragazzo che spera solo di incontrarla di nuovo?
Perchè è proprio questo che farà Adam. Riuscirà a raggiungerla durante una sua trasferta di lavoro e inondarla con tutte le riflessioni nate dalla vicenda della malattia, nonché ringraziarla per averlo incontrato in quel letto d’ospedale: “La sua visita è stata una delle cose più belle che mi siano mai capitate. .. La religione dei miei genitori era il veleno e lei è stata l’antidoto”.
Ora che è stato strappato alla morte e privato dal fallace sostegno fornitogli dalla fede, Adam è alla ricerca di riferimenti adulti che sappiano accogliere e comprendere le sue agitazioni adolescenziali, la sua passione per la vita e per l’arte, le sue domande sul senso della vita. E lo chiede proprio a Fiona: “Ho una richiesta. Le sembrerà molto stupida, ma non dica subito di no, per favore. Mi prometta che ci penserà, la prego. …. Voglio venire a stare da lei”.
Una richiesta che razionalmente non può essere accettata, ma il cui rifiuto sarà destinato a lasciare un segno profondo.
Non ultimo perchè Fiona, nel congedarsi dal ragazzo, si trova a baciarlo sulle labbra: “Era sua intenzione dargli un bacio sulla guancia, ma mentre lei sollevava un po’ il viso per avvicinarsi al suo, Adam si chinò voltando la testa e le loro labbra si incontrarono. Fiona avrebbe potuto ritirarsi, fare immediatamente un passo indietro. E invece indugiò, disarmata, per un istante. … Se esisteva la possibilità di un bacio casto sulla bocca, di questo si trattò per Fiona. Un tocco fugace, ma qualcosa di più dell’idea di un bacio, qualcosa di più del bacio che una madre potrebbe dare a un figlio cresciuto”.
Ancora irrompe lo scomodo intreccio fra vita privata e vita professionale, dove quel “divino distacco” riconosciutole dai colleghi si sgretola inesorabilmente, scaraventandole addosso il caos confuso dei suoi sentimenti,: “Non era mai stata incline a gesti impulsivi, perciò non si capacitava del suo comportamento. … Per il momento a occuparle i pensieri era soltanto l’orrore di quanto sarebbe potuto accadere, la violazione al tempo stesso indegna e ridicola del’etica professionale. .. Difficile credere che nessuno l’avesse vista e lei potesse abbandonare indenne la scena del crimine … Digitò i due tasti del numero in memoria per chiamare suo marito. In fuga da un bacio, cercava tremebonda riparo nella propria solida reputazione di donna sposata”.
L’allontanamento da Adam lascia il posto a un riavvicinamento lento e ambivalente con Jack.
Quel ricordo del bacio – che nessuno aveva visto – scolora nel tempo, fino all’arrivo di una nuova lettera di Adam contenente i versi di una sua ballata.
E’ facile, forse, a quasi sessant’anni pensare alla giovinezza come a qualcosa di tumultuoso e irruente. Eticamente corretto, forse, il non rispondere perché altrimenti “Adam le avrebbe riscritto, se lo sarebbe di nuovo ritrovato sulla porta e avrebbe dovuto mandarlo via di nuovo”.
I sentimenti hanno un peso diverso nel susseguirsi dei cicli della vita e probabilmente è più conveniente, almeno per Fiona, fingere di pensare che quella ballata fosse un modo per rimproverarla di quello sconsiderato bacio dopo il quale l’aveva caricato su un taxi come fosse una valigia. “Adam Henry avrebbe passato con successo gli esami e si sarebbe iscritto a una buona università. E lei intanto sarebbe sbiadita nei suoi pensieri, per diventare una figura di secondo piano nel procedere della sua educazione sentimentale”.
Jack voleva una storia passionale con una giovane donna, Fiona aveva illuso un giovane uomo. E il conto da pagare è alto.
“Ti eri innamorata di lui, Fiona?” le domande di Jack erano sempre estremamente dirette, ma di certo non si aspettava di assistere alla reazione di pianto della moglie che “sempre così composta, si lascia andare a uno sfogo di estremo, assoluto dolore”.
Fiona, nel turbamento dei suoi pensieri, cerca ancora una volta la scappatoia nella fredda razionalità, piuttosto che nel rimpianto di un figlio mai avuto o di una passione cui non si era mai abbandonata: “sull’onda di un impulso tanto forte quanto imperdonabile, lo aveva baciato e poi cacciato via. Prima di scappare a sua volta. Non aveva risposto alle sue lettere. Non aveva decifrato il segnale d’allarme contenuto nella poesia. Quanto si vergognava ora della meschinità con cui aveva temuto per la propria reputazione. La sua violazione dell’etica professionale andava al di là di qualunque comitato disciplinare.. Adam era venuto a cercarla e lei non aveva saputo offrirgli niente al posto della religione … Aveva pensato che le sue responsabilità non andassero oltre le mura dell’aula …”.
Jack ha ripreso il suo posto nel letto a fianco di Fiona.
Le ha detto che sì, certo che l’ama, qualsiasi cosa possa essere successo.
E’ successo che Adam – ormai maggiorenne – di fronte a un secondo attacco di leucemia ha potuto scegliere da solo la via da seguire.
– Credo sia stato un suicidio – … mentre il matrimonio faticosamente ripartiva, Fiona gli spiegò a voce bassa ma ferma la propria vergogna, la passione per la vita di quel ragazzo dolcissimo, e il ruolo che lei aveva avuto nella sua morte.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Francesco Piccolo (2015), MOMENTI DI TRASCURABILE INFELICITA’, Einaudi
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Francesco Piccolo (2015)
MOMENTI DI TRASCURABILE INFELICITA’
Einaudi
A pagina 75 Piccolo scrive questo momento di trascurabile infelicità:
Tutte le volte che mi diranno: era meglio “Momenti di trascurabile felicità”
Già. Piccolo ha prodotto la versione complementare del suo precedente libro. Non saprei da che parte schierarmi. Quella volta mi ero divertita a riconoscere quanti momenti simili fanno parte della vita di tutti, compresa la mia, e questa volta pure.
Ciò che per me resta insostituibile è la voglia di prendersi in giro, di saper ridere di sé e delle proprie minuscole nefandezze. Quelle cose che in genere si raccontano degli altri presentandole come difetti, nascondendo accuratamente che quei difetti sono anche nostri.
Piccolo provoca su di me un effetto contagioso: anche questa volta infatti non ho saputo rinunciare al rispecchiamento di alcune piccole e condivise infelicità, che qui mi diverto a ricordare.
Francesco Piccolo
Quando una bambina … si avvicinò a mia figlia a un campo scuola e indicandomi le disse: ma quello è tuo nonno? Ma non tanto questo, quanto l’entusiasmo incontenibile di mia figla
TartaRugosa
Quando faccio il gruppo con le mie anziane e loro mi dicono: “E’ ancora tanto giovane!” e poi arriva un’ausiliaria che guardandomi chiede: “E’ un’ospite nuova?”
Francesco Piccolo
Per tutta la vita … ho subito questa frustrazione. Da bambino, la domenica o nei giorni festivi; da adulto, alle cene con gli amici. Quando abbiamo finito di mangiare, è il momento dei dolci, delle panne, delle ricotte, della cioccolata. Dei mignon, delle torte, dei cannoli. … Quando ero piccolo, e adesso che sono grande, chiedevo e chiedo: posso andare a prendere i dolci? … Sempre, da quando ho avuto il dono della parola, della comprensione, fino a ora, mi hanno risposto: aspetta. … Non ho mai capito perché bisogna aspettare per mangiare i dolce; eppure bisogna sempre aspettare.
TartaRugosa
Sono golosa e previdente. Se porto io il dolce, lo scelgo secondo i miei gusti e lo attendo con felicità; se invece non lo porto, immagino che l’ospite, o qualcun altro, abbia provveduto. Per cui mi riservo, durante il pasto, anche lo spazio per quella zuccherosa aggiunta finale. Mi tranquillizzo quando a tavola un lui o una lei lo ricorda: “C’è il dolce dopo”. E’ quel dopo che diventa difficile da pronosticare. L’esperienza mi ha insegnato che se è pranzo, il dolce slitta alla merenda; se invece è cena quasi tutti – non previdenti come la sottoscritta – dicono “Ho mangiato troppo. Piuttosto che il dolce, meglio un buon caffè”. E io che non bevo mai caffè e che mi sono tenuta leggera, li maledico silenziosamente.
Francesco Piccolo
Il fatto di non sapere se la luce del frigorifero, quando l’hai chiuso, si spegne veramente.
TartaRugosa
E’ successo recentemente: spalanco la porta del frigo e lo trovo al buio. Dico a TartaRugoso: “Temo che il frigo sia rotto. Non fa né luce, né rumore”. Ancora in pigiama restiamo tutti e due con le orecchie attaccate all’elettrodomestico, finché, dopo qualche minuto, un leggero ronzio segnala residui di vita. Imparo così: a) la luce del frigorifero si può spegnere anche se aperto; b) la lampadina si può cambiare; c) l’infelicità si può trasformare rapidamente in felicità.
Francesco Piccolo
Tento di arrivare con lo scooter al semaforo lentamente, così scatta il verde e io non devo fermarmi ma soprattutto non devo mettere il piede a terra.
Rallento, rallento, arrivo davanti a tutti, sono quasi fermo, cerco di tenere ancora un po’ l’equilibrio. Sono fermo. Non ce l’ho fatta. Metto il piede a terra. E, appena metto il piede a terra, scatta il verde.
TartaRugosa
Sull’autobus in un incrocio problematico della mia città.
La durata del semaforo verde consente il passaggio di 4 o 5 auto al massimo da sud verso nord, mentre nella traiettoria est-ovest il tempo è molto più prolungato. Puntualmente quando l’autobus dopo già una certa attesa riparte, guardo speranzosa la luce verde e incito, mentalmente, l’autista: “Dai, forza, dai, accelera che ce la fai!”. Naturalmente scatta subito il giallo. Qualche volta l’autista passa lo stesso, ma di solito no. E io malinconicamente attendo il nuovo verde.
Francesco Piccolo
Quando a casa mi dicono che non posso usare quello shampoo – che significa che è troppo buono per me.
TartaRugosa
A casa nostra invece è il miele. TartaRugoso reclama: “Non capisco perché il miele è solo un tuo diritto” e se ne prende un cucchiaione che a me basterebbe cinque volte.
Francesco Piccolo
Piove. Quando hai finalmente l’ombrello che funziona .. c’è qualcuno accanto a te che ha l’ombrello rotto…. Quindi devi accompagnarlo tu. Per l’intero tragitto continuerete a cambiarvi di posto … continuerete a dire: forse è meglio che lo tengo io; e quando lo tieni tu fai sempre in modo da coprire lui che te stesso, per non essere maleducato. … Alla fine dirà: forse è meglio se lo tengo io. E tu glielo dai e poi cominci a dire: alzalo, abbassalo, spostalo …
TartaRugosa
La stessa identica cosa con TartaRugoso che però a un certo punto si arrabbia, mi molla, accelera il passo e si bagna tutto.
Francesco Piccolo
Negli alberghi, sei nel bagno, ti fai una doccia … all’improvviso ti ritrovi nel bel mezzo della questione della salvezza del pianeta. … C’è un cartello che ti supplica di resistere, di tenere ancora un giorno gli asciugamani che hai usato, e se lo farai, ci sono buone probabilità di salvare il pianeta. Conservi senz’altro gli asciugamani ancora per un giorno. Ma rimani sconcertato da quanto sia facile – sarebbe stato facile salvarlo, il pianeta.
TartaRugosa
Non vado mai in alberghi di lusso. A ben pensarci non vado quasi mai in albergo. Può però capitare che in occasione di qualche convegno usufruisca di un 4 stelle come forma di compenso per l’attività di relatrice. Il guaio più devastante è che non so mai come aprire la porta della camera (non c’è la chiave) e accendere la luce (non c’è l’interruttore). Per precauzione porto sempre una piccola pila in viaggio. Quanto agli asciugamani, ne trovo sempre un numero così spropositato che faccio fatica a capire il riuso.
Francesco Piccolo
Quando dicono che il rimedio omeopatico ti fa prima peggiorare, però dopo piano piano migliori.
TartaRugosa
Infatti quando il sintomo non peggiora mi viene la paura che non guarirò mai.
Francesco Piccolo
Sono un antireazionario. Credo nel progresso e credo che tutto migliori, sempre. …segretamente, so che una cosa non c’è,ma sono anche sicuro che nessuno me lo proporrà mai come argomento di discussione. Il cavatappi. Ne hanno inventati tantissimi … Ogni volta che qualcuno te ne mostra uno nuovo, ti spiega come funziona e sembra una meraviglia del progresso scientifico, Poi lo posiziona sulla bottiglia di vino e funziona e non funziona. … E alla fine, l’unica soluzione è di andare in cucina a cercare il vecchio cavatappi.
TartaRugosa
Immancabilmente alla fiera di Pasqua TartaRugoso scopre sempre un nuovo esemplare di cavatappi da sfoggiare nelle cene estive in giardino. Altrettanto immancabilmente qualcuno degli ospiti incaricato di aprire la bottiglia chiede: “Ma non c’è un cavatappi normale?” E mentre vado a prendere il buon cavatappi con le braccine, getto quello nuovo insieme all’altra ventina di esemplari accumulati negli anni e che non saprò mai come utilizzare.
Due momenti personali di trascurabile infelicità di TartaRugosa
Abito in un condominio dal riscaldamento centralizzato. Non sono quindi io a poter determinare come, quando e se accendere la caldaia. E così ogni anno si ripete lo stesso copione: arriva un’ondata di caldo nel mese di marzo, fuori si boccheggia e tutti dicono: “Non è normale, sembra giugno”. Il termometro dell’appartamento, totalmente esposto al sole, segna 26 gradi. Di notte le finestre restano spalancate.
Poi, a metà aprile, quando il regolamento impone la chiusura del riscaldamento, inevitabilmente arriva l’ondata di aria fredda. Sugli attaccapanni ricompaiono giacconi e maglioncini e il termometro di casa scende a 17 gradi.
L’infelicità forse più grande è della portinaia che ascolta le lamentele di tutti i condomini cui risponde “Non dipende da me. E’ la legge. Riferitelo all’amministratore”.
Da quando sul mio piccolo balcone è comparso (ad opera di TartaRugoso) un vascone per fare l’orto in città, verso la fine di marzo, speranzosa dei poteri della temperatura mite, metto a dimora 18 piantine di insalata. E’ bello vederle crescere senza interferenze di formiche, lumache e merli. Di solito dopo una quarantina di giorni il vascone è di un verde rigoglioso e florido. E’ veramente una sofferenza procedere all’espianto. Il primo anno dell’esperienza, quasi metà delle insalate è andata “in fiore” perché mi dispiaceva raccoglierle …
TartaRugosa ha letto e scritto di: Hanns-Josef Orthell (2012), Scrivere idee, Zanichelli
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Hanns-Josef Orthell (2012)
Scrivere idee, Zanichelli
Da quando TartaRugoso insegue l’arte della scrittura autobiografica la nostra casa si è ulteriormente riempita di libri che sviluppano tale argomento.
Ovviamente non potevo restare insensibile a questo evento.
Mi sono quindi immersa in questo delizioso libretto il cui obiettivo principale riguarda i possibili stili di annotare idee. Al lettore scegliere quale destinazione dare loro: diario di appunti, brogliaccio per catturare spunti creativi, scaletta su cui costruire un racconto, stimoli per liberarsi dall’ansia di iniziare una pagina bianca.
L’abitudine dell’annotazione, antica quanto l’uomo, si consolida soprattutto a partire dalla metà dell’Ottocento, quando la scrittura non doveva restare un passo indietro alle nuove tecniche di riproduzione della realtà (fotografia, cinema, arti) e, pertanto, scrivani e scrittori si impegnavano a ricercare nuove forme di descrizione della natura, delle città, delle cose e delle persone:
Raffinavano la lingua scarnificandola, in modo che reagisse anche ai particolari più insignificanti delle cose. Nel loro laboratorio creavano parole nuove e frasi smozzicate, le testavano, scartavano, modificavano di continuo Proprio l’incompiutezza, la provvisorietà e il disordine di questa forma di scrittura erano riconosciuti come qualcosa di positivo. Il fine del laboratorio di scrittura non era l’opera, ma il laboratorio stesso, che si era sostituito all’opera.
Sulla base di questa premessa Orthell aiuta a perfezionare le capacità di osservazione e percezione grazie all’ausilio di brani offerti da grandi scrittori che, per l’appunto, adottano stili differenziati nelle annotazioni figurative, di emozioni, di passioni.
Inizia con la descrizione di come progettare un testo attraverso le annotazioni di base simulando l’uso di registrazione, webcam, fotografia, indagine, dialogo; prosegue con l’approfondimento delle annotazioni figurative (ritratti, disegni, precisione, esperimenti) e delle annotazioni di emozioni e passioni (ricordi, finzioni, valvola di sfogo, enigmi poetici); conclude con le spiegazioni relative alle annotazioni classiche quali citazioni, brogliaccio, note scritte di buon’ora.
Divertente scoprire le attitudini di scrittori magari già conosciuti, ma che inseriti in questo dispiegamento risaltano ancora di più per le loro caratteristiche.
E’ l’esempio dell’amato George Perec, giustamente citato nel capitolo delle annotazioni “come una registrazione”. Infatti l’intento di Perec in “Tentativi di esaurimento di un luogo” sarebbe quello di creare una sorta di archivio di tutto ciò che si è verificato in un tempo e in un luogo determinati, per ritrarre un unico, inconfondibile scenario parigino.
Ciò che si può apprendere dalla sua lettura è che i dettagli apparentemente scritti come una registrazione, in realtà possono diventare fase embrionale di uno studio che analizza l’ambiente, con lo sguardo rivolto a forme ripetitive di comportamento e con la possibilità di trasformarsi in un primo materiale grezzo da cui sviluppare una narrazione più o meno romanzesca.
Nel capitolo “come una webcam” è il turno di Waltraud Schwab che si cimenta nella “cattura” di un particolare momento della vita berlinese, segnando con pochi tratti e poche righe un determinato episodio della quotidianità: sono soprattutto webcam ambientate in spazi chiusi e focalizzate sul comportamento di persone che diventano brevi racconti o efficaci microdrammi.
Peter Wehrli, invece, sceglie uno stile di annotazione simile a una fotografia, ovvero esprimere con una frase tutto ciò che avrebbe potuto cogliere con uno scatto fotografico. In tal senso la lingua deve suscitare la stessa sensazione di velocità e precisione, un effetto raggiungibile con l’uso di un’unica frase (istantanee letterarie).
Di Emile Zola e del suo “Il ventre di Parigi” colpiscono gli appunti relativi all’anticipata ricerca di dettagli potenzialmente rilevanti, ma ancora non ben identificati per un futuro ruolo nel nascente romanzo. Zola adotta quindi lo stile dell’”indagatore”, scrivendo accuratamente ogni dettaglio colto nel mercato di Les Halles: letti con attenzione, i precisissimi appunti di Zola testimoniano la ricerca di un’ispirazione, che all’inizio manca di un obiettivo, ma che poi diventa sempre più intensa. Improvvisamente un dettaglio esce dal contesto, si staglia vivido e lascia dietro di sé tracce che si intersecheranno, tessendo una fitta trama e mettendo in relazione i diversi spazi.
Nella parte centrata sulle annotazioni figurative, sono venuta a conoscenza di Teofrasto di Ereso (371-287 a.C.), uno fra i più dotati discepoli di Aristotele.
Decisamente antesignano, nel suo libretto “I caratteri”, Teofrasto delinea una trentina di caratteri come se fossero “ritratti di una galleria”, facendo emergere dalle sue pazienti osservazioni materiale composto da persone (come il barbiere, il calzolaio e il salumiere), cose (le scarpe e i salumi) e azioni (come tagliarsi i capelli o cantare nel bagno) che rappresentano il corrispettivo carattere…. Si viene a creare lentamente un caleidoscopio composto da tante singole osservazioni che offrono un’immagine concreta e sfaccettata del personaggio.
Nella capacità di annotare con precisione, Orthell cita Francis Ponge e “Il quaderno della pineta”. I brani scelti evidenziano il caratteristico movimento di chi passeggia in una pineta: tronchi grandi, non c’è sottobosco, il suolo è un fitto e uniforme tappeto di aghi, qualche roccia. Ne deriva con grande precisione l’effetto di un ambiente con una sua atmosfera, un suo profumo, una sua musicalità. L’abilità senza pari di tali descrizioni consiste nell’incredibile precisione dello sguardo, cui corrisponde la precisione della parola.
La scrittura dei ricordi (autobiografia) trova in Roland Barthes un efficace esponente. Il libro scelto è “Dove lei non è. Diario di lutto” costituito da una serie di appunti che verranno editati solo dopo la morte di Barthes.
Gli appunti del diario sono composti solo da poche frasi o da annotazioni scarse, prove di verbi o aggettivi che le abbelliscano. Questa stringatezza mostra in modo molto chiaro cosa devono fermare esattamente: un riflesso momentaneo del lutto, un istante costituito da nient’altro che una profonda disperazione. .. L’intero mondo di questi appunti tratta, con un’attenzione rigorosa e instancabile, di un’esacerbazione del lutto che non accenna ad affievolirsi, ma la cui forza sembra doversi trasformare lentamente in qualcosa di meno paralizzante.
Classica e allettante la proposta di utilizzare le citazioni per potenziare una scrittura personale. In questo caso viene in aiuto Walter Benjamin che, per sviluppare una grande opera filosofica su Parigi, raccolse migliaia di annotazioni estrapolate da citazioni raccolte nei testi disponibili presso le biblioteche di diversi Paesi. Le singole annotazioni non venivano scritte su quaderni, ma su foglietti o schede che potevano essere ordinati di continuo in base al tema trattato. Così il sapere era facile da reperire e sempre in movimento.
Benjamin, ricordato per la flanerie, dimostra come sia possibile svincolarsi dalle citazioni raccolte da testi di riferimento per originare un proprio pensiero sempre più chiaro e autonomo.
Chi scrive, copia, all’inizio in modo passivo, i brani che lo colpiscono. E’ lui a decidere cosa e quanto deve essere citato, indirizzando attraverso queste prime decisioni il futuro percorso della riflessione. L’autore potrà effettuare dei tagli e spostare o modificare leggermente alcune parole. Possiamo persino immaginare che alla fine giochi con le citazioni in assoluta libertà e che dopo un po’ possa anche dimenticare con quali stava giocando, così che i passi estratti e le annotazioni formeranno un testo originale, le cui tracce iniziali si riconosceranno solo con difficoltà, o non si distingueranno affatto.
Giacomo Leopardi e il suo Zibaldone sono invece portati come esempio delle annotazioni in forma di brogliaccio.
In questa raccolta caotica di scritti gli appunti di Leopardi coprono un campo di interessi vastissimo (filosofia, estetica, linguistica, letteratura, storia antica, religione cristiana, ecc.) e accompagnano sia le sue creazioni poetiche , sia le sue riflessioni filosofiche o erudite.
Orthell, in questo caso, esorta il potenziale scrittore a fare il seguente esercizio:
Annotate, senza pensarci troppo, una lista di parole che vi piacciono o trovate poetiche. In un secondo momento, provate a riflettere sul perché vi piacciono e, una volta capita la ragione, provate pensare ad altre parole che appartengono alla stessa famiglia.
Tanti sono comunque gli esercizi che l’autore propone per far sì che quella della annotazione diventi vera arte. Infatti sostiene che annotare è lo stimolante ideale delle capacità intellettuali, la caffeina letteraria per eccellenza.
Forse anche per questo motivo sarà a tutti utile prendere come esempio l’attitudine di Paul Valéry di scrivere tra le quattro e le otto del mattino (“annotare di buon’ora”)!
Ludovica Montoni LA LUNA E’ FATTA DI GIALLO Il perchè dei perchè dei bambini New Press,Edizioni, 2014
Francesco Piccolo (2013), Il desiderio di essere come tutti, Einaudi
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Francesco Piccolo (2013)
Il desiderio di essere come tutti
Einaudi
La lettura di questo libro è stata per certi versi liberatoria.
Di qualche anno più giovane di me, Francesco Piccolo ha attraversato gli ultimi decenni del Novecento e l’avvento del Duemila vivendo con spirito critico ed emotivo gli eventi storico-politici che quelli della mia generazione ben conoscono e, a loro volta, partecipato con diversi gradi di intensità.
Mi piace la scrittura di Piccolo. Contiene leggerezza e profondità, umorismo e serietà, sagacia e intuito, nonché, dettaglio per me non superficiale, un uso mirabile della punteggiatura. Insomma, le sue pagine scivolano mentre, preso per mano, entri, vivi e sorridi, perché in molte di quelle righe ci sono risvolti non troppo lontani dal comune idem-sentire.
Sensazione già commentata in questo spazio dopo la lettura di “Momenti di trascurabile felicità” e che ora ritorna, impellente, in questo suo raccontarsi.
A dire il vero lo scorrere l’indice mi aveva un po’ insospettito: le due uniche parti distinte “La vita pura: io e Berlinguer” e “La vita impura: io e Berlusconi” mi apparivano un ennesimo tentativo di cercare a tutti i costi una collocazione, l’una a detrimento dell’altra.
Ho dovuto invece immediatamente ricredermi quando, trascinata a ritroso nel tempo e scaraventata in ricordi e riflessioni, ho trovato molte affinità di pensiero e di posizioni con l’autore.
Perché in quel “tutti” c’ero anch’io e in quel pezzo di storia narrato si erano annidate speranze, illusioni e delusioni in cui individuale e collettivo, sia pure in forme diverse, non potevano restare in silenzio.
Di quel pezzo di storia narrato, mi limiterò a considerare i fatti che più mi hanno consentito di rivivere i miei turbamenti giovanili, portando alla memoria non solo gli eventi, ma anche, banalmente, frasi e luoghi comuni raccolti alla spicciolata, se non fra le pareti domestiche, senz’altro fra opinioni e pareri di gente vicina.
Classica, per esempio, la diffidenza verso il partito comunista e i rischi cui poteva essere sottoposto il nostro Paese, se il suo potere si fosse effettivamente affermato.
Scrive Piccolo a proposito del suo essere comunista e del confronto col padre: “Qualsiasi cosa farò, che non sarà in sintonia con quello che pensa lui, sarà da comunista. … Faccio il comunista ma poi vado a chiedergli le chiavi della macchina … fa il comunista con i soldi di papà. Voglio vedere se poi viene veramente (il comunismo)”. La frase che tormenterà l’autore per tutta la vita è proprio questa: “il fatto che lui vuole vedere cosa farò io, e quelli come me, se poi il comunismo viene veramente … Mio padre penserà sempre due cose ossessivamente: una, che se viene veramente il comunismo si scoprirà che in fondo nessuno è comunista; e l’altra, più pericolosa e più martellante nei miei confronti, che il comunismo è un sistema di divisione continua, meticolosa e ossessiva, di qualsiasi cosa si venga in possesso, volontariamente o involontariamente. Ed è per questo sistema morboso della divisione che pensa che se viene il comunismo poi nessuno vuole essere comunista. Per mio padre .. se uno è comunista e dovesse avere una macchina, poi, il bollo lo dovrà pagare Berlinguer. Se ne avrà due, dovrà darne una a un operaio”.
Forse queste convinzioni subirono una scossa non indifferente quando il segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer, dopo i fatti del Cile, presenta un nuovo progetto politico per la difesa della democrazia e per evitare la deriva del golpe fascista successa al popolo cileno: “se è vero che una politica di rinnovamento democratico può realizzarsi solo se è sostenuta dalla grande maggioranza della popolazione, ne consegue la necessità non soltanto di una politica di larghe alleanze sociali ma anche di un determinato sistema di rapporti politici, tale cha favorisca una convergenza e una collaborazione tra tutte le forze democratiche e popolari, fino alla realizzazione fra di esse di una alleanza politica”. Quindi due parole chiave: il dialogo (il compromesso) e il progresso (contro i conservatori, contro i reazionari). Un progetto difficile e tortuoso, tuttavia accolto da un importante interlocutore, Aldo Moro, che vede nell’alleanza la possibilità di continuare ad esercitare il proprio potere ancora a lungo nel futuro.
Succede però che al momento del voto Moro viene rapito, evento che scuote a tutti i livelli “Il rapimento di Moro, quella operazione di guerra che aveva ucciso uomini, che adesso erano riversi nel sangue, penzolanti fuori da una macchina, quelle voci lente e addolorate che commentavano in diretta quello che non comprendevano, comunicando quindi uno stupore atterrito che faceva anche più paura, una paura che non se ne è andata più per un sacco di tempo – tutto questo era la prova definitiva che anche io, come ognuno, facevo parte della comunità”.
E quando Moro viene ucciso, muore anche il compromesso storico. Anche questo è inciso nella mia memoria quando, adolescente, mi trovo ad incrociare il Movimento studentesco. Quello della sinistra estrema, quello che aveva in odio il partito comunista perché considerato troppo “di destra” e troppo poco innovativo. In quell’élite di esaltati o masticavi il loro incomprensibile linguaggio o eri un diverso, un borghese, uno che la vera rivoluzione avrebbe spazzato via per lasciare spazio alla rivincita del calpestato proletariato: “se poi facevamo (anzi, facevano) la rivoluzione, tutti i borghesi di merda venivano cacciati via a calci in culo. Io ero un borghese di merda, quindi anch’io sarei stato preso a calci in culo, il giorno che avremmo fatto la rivoluzione. E certo, fa il comunista con i soldi di papà, mi dicevano. … A sedici anni la mia situazione era la seguente: a casa, se nominavo il PCI, ero considerato una specie di terrorista; fuori casa, se nominavo il PCI, ero considerato una specie di democristiano. Quindi, per un po’, ho smesso di parlarne”. Non è certo per quelli del Movimento che Berlinguer smette di cercare contatto con coloro che erano diversi e restare con coloro che si assomigliavano.
Se la DC trova come nuovo alleato Bettino Craxi, Berlinguer ritorna all’opposizione proponendo un programma etico, più che politico e alternativo. E così i comunisti “appresero con sollievo la decisione del nuovo corso di stare fuori dai giochi”.
Piccolo viveva al sud e ricorda di quei tempi il terremoto; io, del nord, di quegli anni ricordo la “Milano da bere”.
Sono già una studentessa lavoratrice quando accade l’ultimo atto di Berlinguer: la richiesta del referendum abrogativo della legge sulla scala mobile. Due giorni dopo, durante un comizio a Padova, nella piazza del mercato delle Erbe da me attraversata ogni volta che dovevo sostenere un esame, Berlinguer si sente male e l’11 giugno 1984 muore.
Ricordo quel giorno. Piazza San Giovanni a Roma contava forse più di 2 milioni di persone. Anche TartaRugoso era fra loro per rendere l’ultimo saluto a un uomo e alla sua idea di difendere con tenacia la purezza dell’etica e dei valori.
E leggendo le pagine di Piccolo emerge con più chiarezza nei miei pensieri che quel che resta bloccato e fissato nel tempo è l’idea di associare all’innovazione (Craxi) cinismo, disinvoltura, corruzione da cui, con estrema forza, “la sinistra si ritirava per sempre … sicura di stare dalla parte della ragione …Dall’entrata mancata nel governo e dal rapimento di Moro, nasce un’idea di purezza che non morirà più … E’ qui che sta il grande cambiamento: della vittoria non importava più nulla; bisognava soltanto segnare una volta e per sempre una linea di demarcazione, un’idea definitiva di diversità; bisognava sfilarsi dalla vita pubblica reale e rappresentare un’alternativa astratta, pulita, arroccata. Un’alternativa pura. Da quel momento in poi, ogni sconfitta politica diventava un rafforzativo delle proprie idee. Una conferma che il mondo è corrotto e che il progresso è malato. Una conferma, quindi, che le persone giuste e i pensieri giusti sono minoranza, fanno parte di un mondo altro, che non comunica più con il Paese – perché il resto del Paese, impuro e corrotto, si è perduto”.
Non che nel corso degli anni successivi non si sia riaffacciato il pensiero di una coalizione democratica allargata per raggiungere la funzione di governo, ma la fissazione della purezza a tutti i costi permane grazie alla “rifondazione” comunista, il cui stratega Bertinotti riesce a dare una svolta tassativa alla possibilità di garantire all’Italia un governo non di destra stabile.
Nel suo patto di desistenza con la sinistra, nel momento più cruciale e per via della purezza dei principi etici, Bertinotti, con grande sgomento degli alleati, riconsegna l’Italia al vituperato Berlusconi: “in quel momento si consuma, si esaurisce in un tempo brevissimo la rinascita dell’ultima spinta riformista del nuovo corso del centrosinistra”.
Su tutte le osservazioni possibili, è l’enunciato di Weber che richiama a un insegnamento per me fondamentale. “Max Weber distingue due modi di agire nella pratica politica: l’etica dei principi e l’etica della responsabilità.
Nella sostanza, chi si comporta secondo l’etica dei principi, non tiene conto delle conseguenze delle proprie idee. Cioè: fa delle scelte secondo i suoi ideali, agisce in un modo che ritiene giusto, e questo può bastare: le conseguenze che derivano da ciò che è stato fatto non interessano. .. Chi agisce secondo l’etica dei principi non si occupa del fatto che a seguito di una decisione giusta le circostanze possano peggiorare lo stato dei fatti; l’importante è aver preso la decisione giusta, in sintonia con i propri ideali.
L’etica della responsabilità, invece, per ogni decisione da prendere tiene conto delle conseguenze prevedibili. Ingloba, nell’idea di giustizia, anche le conseguenze. … Chi fa politica secondo l’etica dei principi, segue le sue idee e tiene conto soltanto di quelle – in pratica si sottrae a un vero e proprio atto politico; chi fa politica secondo il principio della responsabilità, si pone ogni volta il problema di ciò che accadrà in seguito a una sua decisione – in pratica mette in atto un’azione politica”.
Ecco come ricordo quei giorni, esattamente come Piccolo:”Il gesto di Bertinotti è compiuto in nome della purezza, segue la sorda etica dei principi. Il Governo Prodi era stato il riscatto da questa purezza senza fertilità; se avesse portato a termine il suo mandato, probabilmente adesso vivremmo in un Paese diverso”. Se non altro, ma non mi consola, sono esente dal senso di colpa di Piccolo, che Bertinotti l’aveva votato.
Quello che invece trova completamente il mio accordo è la riflessione sull’era Berlusconi. L’essere “contro” è solo servito a rinforzare il principio secondo il quale se si è “contro” si è nel “Giusto”. “Da questa parte, dalla parte degli antiberlusconiani, si sono posizionati “tutti gli altri”. E siamo tanti. Con pensieri molto diversi, ma costretti a stare tutti insieme. Stiamo tra di noi, comunichiamo tra di noi. Ci confermiamo le nostre ragioni, ci rassicuriamo su un assunto fondamentale su cui abbiamo molto bisogno di essere rassicurati: che il mondo migliore è il nostro, assomiglia a noi e alla vita che viviamo, alle scelte che facciamo riguardo non soltanto a regole e leggi, ma anche a salute, cibo, educazione, linguaggio, libri, film, viaggi. Abbiamo pensatori di grande fama e carisma che stanno insieme a noi, ci rassicurano, dicono che siamo giusti e facciamo cose giuste; anche se il mondo sta andando da un’altra parte non ci dobbiamo preoccupare; stanno sbagliando e un giorno si ravvederanno, comprenderanno e torneranno. … Mai nessuno che metta in dubbio le nostre idee, si chieda se c’è qualcosa che non funziona, si chieda perché gli altri riescono a penetrare i desideri di una quantità di gente superiore alla nostra … Siamo assolutamente sicuri che il mondo è diviso in due, quelli che stanno sbagliando tutto e quelli che stanno facendo tutto bene, e per una coincidenza infelice la maggioranza continua a essere cieca e a guardare quelli che sbagliano”.
Il desiderio di essere come tutti è con acutezza messo in risalto dal racconto di un fatto personale. Piccolo ha una casa un po’ piccola che ha ampliato con la costruzione di due soppalchi però non risultati a catasto. Nel programma di Berlusconi, nella propaganda che precede le elezioni, era elencato un condono tombale in cui quei due soppalchi ci stavano benissimo. Piccolo e moglie naturalmente votano il Partito Democratico, ma “intanto che speravamo vincesse la sinistra, non ci sarebbe dispiaciuto del tutto se avesse perso la sinistra, a causa di quei soppalchi. Non ce lo siamo mai detti, ma sapevamo l’uno dell’altra non che ci avrebbe addirittura fatto piacere, anzi, per carità, ci saremmo indignati e incazzati anche stavolta. Solo che stavolta ci saremmo indignati e incazzati ma fino a un certo punto, perché un piccolo vantaggio ce ne sarebbe venuto”.
Conclude Piccolo che “questo è solo un Paese e la Storia ha insegnato che la corresponsabilità degli accadimenti è di coloro che vincono e di coloro che perdono, anche se non in parti uguali; poiché probabilmente in ognuno di noi al di qua del confine c’è una percentuale di superficialità, di spensieratezza e anche di mostruosità – che siamo sicuri di non avere, ma che abbiamo”.
Intanto oggi è stato eletto il nuovo Presidente: Sergio Mattarella.
Buona fortuna Italia e buon lavoro italiani
TartaRugosa ha letto e scritto di: Marie Kondo (2014), Il magico potere del riordino, Traduzione di Francesca Di Berardino, Editore Vallardi
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Marie Kondo (2014)
Il magico potere del riordino
Traduzione di Francesca Di Berardino
Editore Vallardi
Il riordino è un’arte: questo è il messaggio trasmesso dal libro di Marie Kondo, la cui sbalorditiva professione è proprio l’insegnamento di come fare e mantenere l’ordine nella propria casa. Insegnamento che non avviene solo a livello formativo, ma anche con valutazioni domestiche e supervisioni sull’operato.
La regola base è quella di procurarsi un discreto numero di sacchi per la raccolta dei rifiuti e poi seguire con un protocollo delle categorie da passare al setaccio, ovvero: “prima i vestiti, poi i libri, le carte, gli oggetti misti e per ultimi i ricordi. Eliminando ciò che non vi serve seguendo quest’ordine vi avvantaggerete in modo sorprendente”.
La passione per il riordino nasce in Marie già nella primissima età attraverso letture di riviste per la casa, tentativi caratterizzati da successi e fallimenti ed elaborazione di tecniche del tutto personali che porteranno l’autrice a trovare un corrispettivo tra ordine dello spazio e ordine mentale, ma, soprattutto, a non ricadere più nel caos. Perché una volta appresa la tecnica, l’effetto boomerang è scongiurato.
Accade spesso che le nostre abitazioni diventino sempre più anguste a furia di accumulare cose e che le nostre lamentele più frequenti riguardino proprio la mancanza di spazio. Marie Kondo sostiene invece che non esiste casa che non disponga di spazio sufficiente e che i “problemi che si riscontrano sono legati al fatto che si possiedono troppe cose inutili”.
Per ovviare a questo problema dobbiamo dimenticare la diffusa convinzione del fare ordine un po’ per volta, magari partendo un giorno da un locale, un giorno da un altro e così via.
“La ragione principale per cui le cose continuano ad accumularsi è perché non ne teniamo sotto controllo la quantità, non riusciamo a farlo perché i posti in cui le riponiamo sono sparsi ovunque. Con questi presupposti è normale che se riordinassimo seguendo l’ubicazione delle cose potremmo continuare all’infinito. Riordinare deve essere inteso per categorie, non per ubicazione”. Quindi bando al “un po’ per volta”, e largo al “categoria per categoria”, esercizio che richiede una massima concentrazione nel radunare in terra tutto ciò che concerne la categoria prescelta e procedere all’eliminazione.
Infatti “le operazioni di riordino devono sempre cominciare dal buttare via …Riordinare non necessita di complesse classificazioni. Le azioni fondamentali da eseguire sono due: buttare via ciò che non serve e trovare una collocazione a quello che rimane. E’ importante ricordarsi che buttare viene prima”.
La costante raccomandazione del buttare via serve proprio a prevenire la tendenza ad accantonare l’oggetto, convinti comunque che uno spazio glielo si possa trovare. Questo inevitabilmente condurrebbe non al riordino, ma al cambiamento di spazio, che è un’altra cosa e motivo di effetto boomerang, cioè della creazione immediata di un nuovo disordine.
Ma separarsi dalle cose non è semplice e, a pensarci, ognuno di noi ha mille motivazioni per giustificare la propria propensione all’accumulo.
Ecco perciò il consiglio fondamentale per poter agire senza troppi rimpianti: Pensare alle cose da eliminare rende infelici, quindi “ciò che dovremmo scegliere non è che cosa buttare, ma che cosa conservare”.
E da qui il passo è breve: “Conservate solo ciò che vi emoziona, il resto buttatelo via senza ripensamenti”.
Secondo l’autrice fare ordine è un dialogo con se stessi tramite gli oggetti e ciò significa che non sono ammesse altrui interferenze: riordinare vuol dire escludere gli altri, che non devono avere voce in capitolo sulle personali scelte, né tanto meno diventare i nuovi destinatari di ciò che decidiamo di eliminare.
Ecco alcuni suggerimenti relativi alle singole categorie.
Abbigliamento. “La prossima stagione voglio rivedere questo abito nel mio armadio?” è già una buona domanda per capire la sua futura destinazione. Un vestito che non piace più finisce sicuramente in un angolo recesso dell’armadio, tanto vale buttarlo, non senza averlo prima ringraziato per il suo servizio (la cerimonia del ringraziamento è sacra per l’autrice giapponese).
Per avere un armadio sempre in ordine, occorre anche organizzare la piegatura degli abiti, avendo cura di non ammassarli fra loro o accumularli l’uno sopra l’altro. Consiglia la piegatura fatta in modo tale che dell’indumento ne risulti un semplice rettangolo, sia per gli abiti, sia per calze o collant che non devono assolutamente essere appallottolate o annodate fra loro (anche la biancheria deve poter respirare!).
Libri. Pur rappresentando una categoria di cui è difficile separarsi, anche per i libri vale il principio dell’emozione che provocano. I libri che di solito si leggono più di una volta sono rari: “i libri si leggono per l’esperienza stessa di leggerli. Con il libro letto già una volta l’esperienza è stata fatta. Anche se non vi ricordate perfettamente il contenuto, è già tutto dentro di voi … Per un libro il tempismo è un fattore vitale: il momento giusto per leggerlo è quello in cui lo incrociate sul vostro cammino”. Bisogna immaginarsi la libreria solo composta da libri che piacciono: sarà più facile sbarazzarsi dei restanti.
Carte. Si suddividono in tre gruppi: quelle di cui occuparsi subito, quelle da conservare (come i contratti) e quelle da conservare di altro tipo. Ogni categoria dovrebbe essere ordinata in un contenitore e quello contenente i documenti di cui occuparsi subito dovrebbe essere sempre vuoto.
Oggetti misti. L’elenco proposto da Kondo è vario: cd e dvd; prodotti per la cura del corpo; cosmetici; accessori; oggetti di valore; dispositivi elettronici; utensili di uso quotidiano; utensili da cucina, stoviglie; altro. Un commento fondamentale, prima ancora dei suggerimenti, è il seguente: “Stranamente ci sono molte cose che vi accorgerete subito di voler buttare via senza la necessità di chiedervi se vi colpiscono oppure no. …Sembra strano, ma la maggior parte delle persone è inconsapevole delle cianfrusaglie che occupano spazio nella propria casa”.
Ricordi. Non si entra nel merito del valore o del senso di un oggetto legato a un ricordo. Ma qui entra in gioco il dialogo con se stessi: “Quando tenete in mano i vostri ricordi e decidete che cosa buttare via e che cosa conservare, per la prima volta nelle vostra vita vi confrontate con il passato. Finché queste cose rimarranno sepolte nel fondo di un cassetto, il vostro passato resterà un peso che vi zavorra e vi impedisce di vivere il vostro presente. Mettere in ordine le proprie cose una per una significa mettere in ordine anche il passato. Sistemare i ricordi vi fa resettare la vostra vita e vi fa saldare i conti in modo che possiate muovere i passi successivi verso il vostro futuro”.
E se qualcuno avesse ancora dei dubbi sul processo di separazione, mediti su queste parole: “Ogni cosa che possedete vuole esservi utile. Anche se la butterete via o la brucerete, si lascerà alle spalle un’aura di chi ha voluto rendersi utile. Non più prigioniera della sua forma reale, si muoverà nell’universo sotto forma di energia, facendo sapere alle altre che voi siete una persona speciale … Liberatevi di quelle cose che non vi emozionano più. Celebrate la vostra separazione da loro e il loro nuovo viaggio. Festeggiate questo momento. Credo davvero che le nostre cose siano più felici e più vive quando le lasciamo andare di quando le prendiamo per la prima volta”.
Sta per chiudersi il 2014.
Per il 2015 il motto è: fare riordino nella propria casa.
Detto da TartaRugosa fa quasi sorridere.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Cinzia Bellotti (2014), Ti guardo e mi chiedo. Io, mamma e il terzo incomodo di nome Alzheimer, New Press, Cermenate (CO)
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Cinzia Bellotti (2014)
Ti guardo e mi chiedo.
Io, mamma e il terzo incomodo di nome Alzheimer
New Press, Cermenate (CO)
vai alla scheda dell’editore Newpress
Non è la prima volta che parlo di Alzheimer su queste pagine. E’ già successo con Alice Munro, Pupi Avati, Luciana Quaia.
Ben venga quindi anche questo libro scritto direttamente da una familiare, una figlia che si è cimentata per un periodo piuttosto lungo sia con la malattia che ha colpito sua madre, sia con se stessa, alla ricerca di un nuovo equilibrio in tale tormentata vicenda.
Già il titolo predispone a intuire il processo trasformativo necessario: “ti guardo” come sforzo di capire che cosa all’altro da sé sta succedendo e “mi chiedo” come impegno a capirsi e adeguarsi alla nuova esistenza.
Perché Cinzia per stare accanto a sua madre ha fatto una scelta precisa: All’inizio del 2000 nutrivo il forte sospetto che mia madre fosse stata colpita dal morbi di Alzheimer, ma vivendo all’estero non potevo avere un riscontro a livello quotidiano. Nelle mie brevi soste in Italia notavo un continuo peggioramento della sua memoria, ma nulla di più. Decisi di tornare in Italia nel 2001 in seguito a un lungo periodo di maturazione …
Io amo la “scrittura di sé” e questo racconto dimostra ancora una volta come lo scrivere la propria storia serva a stabilire connessioni tra gli eventi che accadono e a cercare di riempire le zone di vuoto e di mistero che man mano si presentano, come se il poterle tracciare su un foglio aiutasse finalmente a riconoscerle, dare loro un nome e infine renderle dicibili.
L’Alzheimer è una patologia che scuote, spariglia e scompiglia, scardina ogni punto di riferimento sia della medicina, sia delle relazioni interpersonali: si ha modo di osservare come una persona smetta di essere quella che abbiamo conosciuto nel corso degli anni e diventi altro.
La comunicazione della diagnosi arriva a Cinzia in modo chiaro e crudo:
E’ in una fase lieve che sarà seguita da un livello moderato e da uno severo. Avrà già notato un deficit di memoria legato a un impoverimento delle funzioni cognitive, come il linguaggio e il senso di orientamento. Progressivamente arriveranno anche alterazioni comportamentali. Nella fase avanzata della malattia la perdita della capacità di scrivere, leggere e utilizzare correttamente i vocaboli impedirà di mantenere il ritmo abituale di vita. Ci potranno essere fasi di aggressività fisica, verbale, allucinazioni, depressioni, vagabondaggi e deliri durante tutta la durata della patologia. Nella fase avanzata anche l’attività motoria potrà essere compromessa, fino ad arrivare a una difficoltà di masticazione e deglutizione.
Così è il terzo incomodo di nome Alzheimer: inguaribile, di lunga durata, in perenne trasformazione involutiva, irreversibile. A questo deve adattarsi chi sta accanto alla persona che ne è colpita, cercando di accogliere nel nuovo vocabolario parole come imprevedibilità, imponderabilità, ingestibilità.
E, naturalmente, saper riconoscere e affrontare bisogni fino a qual momento sconosciuti, perché tale è la situazione avvertita quando ci si trova ingabbiati nella penosa oscillazione che dal “pieno” del nostro stare ci conduce al “vuoto” di ciò che ci viene sottratto.
Il problema è che la malattia, oltre ai malati veri e propri, colpisce in maniera collaterale anche i nuclei familiari che si prendono cura dei pazienti. Il trauma emotivo e il peso che devono portare possono procurare conseguenze anche gravi sul loro stato di salute generale. …
Prendersi cura di un malato di Alzheimer è un lavoro al quale ci si dedica generalmente a tempo pieno … Conciliare il ruolo di “assistente sanitaria” non qualificata con i tempi del proprio lavoro risulta particolarmente oneroso …
Il totale dei vari addendi è lungo: problemi economici, facendo un calcolo veloce mi sentii afferrare dal terrore: 500-600 euro per un centro diurno, un’eventuale badante sui 1000-1100 euro al mese più contributi e ferie, l’affitto,le spese, il cibo … le cose non si mettevano decisamente bene …; sociali, ci si sente soli … ci si sente impotenti; etici, non vorrei trovarmi nella situazione di decidere per te o per nessuno …; psicologici, per oltre tre anni io e mio fratello, la badante e le rispettive famiglie siamo stati schiacciati dal peso di un impegno psicologico massacrante, che ci ha visti coinvolti in tutti gli aspetti dell’assistenza … abbiamo appreso strada facendo pregiudicando, in alcuni casi, la nostra salute mentale e fisica.
Che fare, come reagire, che peso dare alle proprie paure, come arrivare all’altro che si sta perdendo?
Cinzia scrive, osserva i comportamenti, si pone domande, riflette.
Considera che esistono due mondi: il proprio e quello della madre, due mondi possibili da accettare solo nel momento in cui cercare a tutti i costi una ragione perché ciò succede diventa superfluo. Occorre, pur con difficoltà, vivere la vita come si presenta. Quanto e cosa succeda dentro di te, nessuno lo sa. Possiamo solo tentare di immaginarlo, tu certo non sei più in grado di spiegarcelo.
Essere dentro “in situazione” vuol dire anche assumere una visione di ciò che è possibile fare e di ciò che invece è impossibile controllare, in quanto taluni accadimenti semplicemente arrivano, indipendentemente dalla tua volontà.
L’Alzheimer è uno di questi. La vita ci propone eventi che o decidiamo di far entrare nella sfera del possibile o ne restiamo talmente tramortiti da non avere più energia per continuare.
In questo Cinzia propone, senza dichiararlo esplicitamente, l’atteggiamento resiliente, ovvero quella predisposizione di entrare nella propria storia sapendo cogliere, oltre alla fatica, anche il trampolino di crescita e di nuove opportunità.
Purtroppo non siamo noi a decidere quello che succederà in futuro, possiamo solo limitarci a prendere quello che arriva. Nella tua diversità devo imparare ad accettarti
Mi hai dato una lezione di vita importantissima, confermandomi con la tua presenza che ci si deve impegnare a vivere come se fosse l’ultima volta che lo possiamo fare.
Rabbia, rancore, risentimento, colpa e rimpianti soggiogano e lasciano senza via di scampo.
Introspezione, interazione con chi ti sta intorno, iniziativa e umorismo facilitano invece la costruzione di una nuova relazione: Quando non capivo i tuoi comportamenti, ho imparato ad accettarti e ad apprezzarti per come sei.
La mamma di Cinzia ha l’Alzheimer e Cinzia è con la sua mamma con l’Alzheimer: insieme continuano a vivere nel meglio delle loro possibilità, utilizzando anche le risorse che la comunità mette a disposizione, casa di riposo compresa.
Concedersi delle tregue non è egoismo ma voler bene a se stessi, è la necessità di dare spazio alle proprie esigenze, di ricaricare le batterie consumate per far sì che i momenti spesi con chi ci circonda tornino ad essere di qualità. Bisogna assolutamente evitare la trappola del senso del dovere, che obbliga a uno stoicismo forzato, dannoso per tutti perché rende insopportabile la vicinanza del malato creando un senso di inadeguatezza nel malato stesso e in chi condivide la situazione.
Non vi è colpa nella malattia, è meglio usare le risorse per cercare soluzioni … e se non si riesce a rispettare l’impegno preso, pazienza, si deve alzare la mano per chiedere aiuto, evitando così di sentirsi sminuiti perché è inutile e nocivo.
Questo e altro fa parte della storia di Cinzia e il suo racconto scivola lieve fra le pagine, lasciando spazio alla positività dell’esperienza (pur riconoscendone le difficoltà) e insegnando che anche quando sembra di essere ruzzolati in un baratro, un appiglio per risalire si trova sempre se si tengono gli occhi bene aperti, un po’ più in là del precipizio.
Il libro è stato presentato a Como in questa occasione:
Sabato 29 novembre alle 15, presso la Rsa “Le Camelie” (fondazione Ca’ d’Industria), di COMO (via Bignanico 20) presentazione del libro di CINZIA BELLOTTI, Ti guardo e mi chiedo. Io, mamma e il terzo incomodo di nome Alzheimer (New Press Edizioni) con Natascia Gamba, voce narrante e Luciana Quaia, psicologa; Fulvio Rosa al pianoforte
TartaRugosa ha letto e scritto di: Philip Roth (2010) L’UMILIAZIONE, Einaudi Traduzione di Vincenzo Mantovani
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Philip Roth (2010)
L’UMILIAZIONE, Einaudi
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Sulla quarta di copertina l’indicazione “Roth aggiunge un altro inquietante tassello all’opera dei suoi ultimi anni”.
Ci sono degli argomenti “scomodi” da affrontare nella scrittura e la parola suicidio colpisce sempre per la brutalità che esprime e per il tormento così difficile da comprendere e da condividere nella sua scelta finale.
Simon Axler, il protagonista, inizia un soliloquio fra sé e sé rispetto al crollo esistenziale che avverte quando, del tutto inaspettata, compare la sua incapacità di recitare. A più di sessant’anni può capitare di avere qualche inciampo, ma questa volta è diverso: il grande attore “vedeva il proprio crollo con la stessa lucidità con cui si vedeva recitare. … Non sapeva come passare da un minuto all’altro, era come se la mente gi si stesse liquefacendo, aveva il terrore di stare da solo, non riusciva a dormire più di due o tre ore per notte, mangiava appena, ogni giorno pensava di ammazzarsi con l’arma che aveva in solaio – un fucile a pompa Remington che teneva nella casa isolata per autodifesa – e nondimeno gli sembrava tutta una commedia, una commedia recitata male. Quando reciti la parte di uno che sta crollando, la tua interpretazione ha un ordine e una coerenza; quando la persona che vedi crollare sei tu, e quella che stai recitando è la tua fine, è tutta un’altra cosa, una cosa spaventosa e terrorizzante”.
Questo l’antefatto: scoprire che l’attore recitante altrui ruoli non sta più rappresentando una finzione, ma la sua stessa indesiderata prigione. “La mattina se ne stava a letto per ore ma, invece di nascondersi da quel ruolo, recitava quel ruolo. E quando finalmente si alzava, l’unica cosa a cui riusciva a pensare era il suicidio, e non la sua simulazione. Un uomo che voleva vivere nella parte di un uomo che voleva morire”.
Capita che improvvisamente nella vita giungano simultanei smottamenti nelle variabili più significative: lavoro, affetti, salute … ma, nella maggior parte dei casi, la precarietà che ne deriva può costituire un nuovo punto di partenza per scoprire uno sconosciuto Sé. Se ciò non accade, le crepe aperte difficilmente riescono a sostenere l’intera impalcatura del corpo e della mente.
La forza inaudita che serve per programmare la propria fine richiede tempo e pensiero. Simon Axler, alla sola idea di “salire le scale che portavano in solaio, caricare il fucile, mettersi la canna in bocca” preferisce telefonare al medico “per chiedergli di provvedere al suo ricovero in una clinica psichiatrica quel giorno stesso”.
Qui “ogni ora di veglia era riempita di attività e appuntamenti per evitare che i pazienti si ritirassero nelle proprie stanze a stendersi sul letto depressi e infelici o si intrattenessero fra loro per parlare dei modi in cui avevano cercato di uccidersi”.
Ed è proprio nella clinica psichiatrica che fra le storie “degli antichi temi della letteratura drammatica: incesto, tradimento, crudeltà, vendetta, gelosia, rivalità, desiderio, perdita, disonore, lutto”, le sedute individuali e di gruppo, le terapie antidepressive, Simon si ritrova ad apprendere la storia di Sybil Van Buren, una bruna trentacinquenne divorata dal rimorso e dalla colpa di non essere stata capace di reagire di fronte a un’orrenda visione e di averne addirittura messo in dubbio la veridicità.
“Il quarto giorno mi ero convinta di aver immaginato tutto, e due settimane dopo, mentre Alison era a scuola e lui al lavoro, ho tirato fuori il vino, il Valium e il sacchetto di plastica .. ricordo che non c’era più aria e mi sono affrettata a strapparmi il sacchetto. E non so cosa rimpiango di più: se avere tentato di farlo e non esserci riuscita. … L’unica cosa che voglio fare adesso è sparargli””. Queste le considerazioni della giovane mamma che aveva trovato il suo secondo marito con la testa affondata fra le gambe della figlia di otto anni e accettato la sua debole difesa di “cercare la causa di un prurito lamentato dalla piccina”.
L’uscita dalla clinica non necessariamente riconsegna alla società una persona completamente risorta, ma per lo meno accarezza l’auspicio di riposizionarla sul cammino interrotto dalla crisi.
Simon Axler ora è di nuovo a casa, seduto di fronte al suo agente che tenta di rassicurarlo: “la memoria diventa un grande motivo di ansia per gli attori di teatro che arrivano ai sessanta o settant’anni. Un tempo potevi imparare a memoria un copione in una giornata: ora sei fortunato se in una giornata impari una pagina”.
L’idea del suicidio è un’idea sottile, pervasiva, che ti entra dentro e lavora implacabile. Per un attore della fama di Simon, è facile far scorrere nella memoria i drammi in cui c’è un personaggio che si uccide. “Hedda in Hedda Gabler, Giulia nella Signorina Giulia, Fedra in Ippolito, Giocasta in Edipo Re, quasi tutti in Antigone, Willy Loman in Morte di un commesso viaggiatore … Cassio e Bruto in Giulio Cesare, Gonerilla in Re Lear, Ivanov in Ivanov … E quell’elenco sbalorditivo comprendeva solo opere in cui lui aveva recitato almeno una volta. Ce n’erano altre, molte altre. … Si prefisse di rileggere quelle opere. Sì, doveva affrontare a viso aperto quanto c’era di più spaventoso. Nessuno doveva poter dire che non ci aveva riflettuto a fondo”.
Poi accade un evento nuovo: un incontro col femminile, un femminile insolito, una lesbica quarantenne figlia di attori conosciuti da Simon molti anni prima sulla scena.
Eros e Thanatos si ammiccano. Simon si accende di desiderio, Peegen decide che dopo l’esperienza lesbica ha voglia di un uomo, “quell’uomo, quell’attore che aveva venticinque anni più di lei ed era amico della sua famiglia da decenni”.
Potere del sesso e dell’amore … “presto lui non ebbe più la sensazione di essere rimasto solo al mondo, solo e senza il suo talento. Era felice: una sensazione inattesa. … C’era lui. C’era lei. Le possibilità di entrambi erano drasticamente cambiate”.
I giochi sessuali, l’intimità ritrovata, il desiderio di un nuovo inizio rimbalzano nella testa di Simon, a dispetto delle critiche dei genitori di Peegen per quell’eccessiva differenza di età, della visita dell’amante delusa di Peegen che lo allerta sul suo indomabile carattere, delle scappatelle confessate dalla stessa Peegen, forse orfana della sua inclinazione primaria a favore delle donne.
Nonostante ciò, l’illusione del ritorno ad una vita normale si affaccia con prepotenza, lasciando a Simon il suono di parole pronunciate solo nella fantasia: “Se dobbiamo continuare, io voglio tre cose. Voglio che ti fai operare alla schiena. Voglio che riprendi la tua carriera. Voglio che mi metti incinta”.
Ma il peso delle parole non dette possono avere comunque effetti strabilianti. “La iella era finita. Finiti i tormenti che aveva voluto infliggersi da sé. Aveva ritrovato la fiducia, il dolore se n’era andato, l’abominevole paura era sparita e tutte le cose che aveva perso erano tornate al loro posto. La ricostruzione di una vita era iniziata quando si era innamorato di Peegen Stapleford”. Finalmente la sconfitta dell’umiliazione.
Simon intraprende una serie di visite per capire quali possano essere, alla sua età, i rischi di concepire figli non sani e si rivede nuovamente a calcare le scene, questa volta senza esitazioni e senza flessioni.
Visioni eteree, fluide, vaporose. Deve assolutamente raccontarlo a Peegen quando tornerà a casa, in quella stessa casa dove pochi giorni prima si era orgiasticamente consumato un incontro a tre, quegli “allettanti giochi che molte coppie fanno per eccitarsi e divertirsi”.
Il mondo irreale fantasticato stride nella realtà vera, nella voce di Peegen che gli annuncia “Siamo alla fine … Non è quello che voglio. Ho commesso un errore”… “Lei andò via con la sua auto e il crollo di Axler durò cinque minuti, un crollo prodotto da una caduta che si era voluto e da cui non restava ormai possibilità di ripresa”.
L’idea del suicidio è un’idea sottile, pervasiva, che ti entra dentro e lavora implacabile; “i fallimenti erano suoi, come la sconcertante biografia sulla quale era impalato” questo è il pensiero di Simon dopo l’ennesima umiliazione per la telefonata fatta ai genitori di Peegen per urlare la propria rabbia.
E Sybil Van Buren? Sul periodico della contea era apparso un articolo che raccontava di un famoso chirurgo plastico ucciso a colpi di arma da fuoco dalla moglie da cui era separato. Sybil assume le sembianze di un esempio di coraggio “Se lei è stata capace di farlo, posso farlo anch’io!”.
Come può un uomo decidere di uccidersi?
Questa volta non vince l’uomo capace di scendere le scale del solaio e telefonare di nuovo al medico per il ricovero.
Questa volta predomina l’uomo attore. “A venticinque anni quando, da vero fenomeno teatrale, riusciva in tutto ciò che tentava e otteneva tutto ciò che voleva, aveva interpretato l’aspirante giovane scrittore di Cechov che si sente un completo fallito, un uomo ridotto alla disperazione dalle sconfitte nel lavoro e in amore”.
“Il fatto è che Konstantin Gavrilovic si è sparato” l’ultimo biglietto trovato accanto al cadavere dell’umiliato Simon.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Irvin D.Yalom (2014) IL DONO DELLA TERAPIA Traduzione di Paola Costa Neri Pozza Editore
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Irvin D.Yalom (2014)
Il dono della terapia
Traduzione di Paola Costa
Neri Pozza Editore
Prima o poi arriva il momento di guardarsi indietro per rivedere la strada percorsa. E’ un processo che non ha una data precisa, ma grosso modo si affaccia nella seconda metà della vita, quando si allunga il periodo vissuto rispetto al’indeterminatezza del tempo che resta.
L’età della maturità (o della maturazione) è proprio quella che dovrebbe consentire una ponderata serie di bilanci a distanza di sicurezza dall’impeto furioso della giovinezza e dall’esposizione non sempre protetta delle emozioni.
Se questo di norma è un processo attuato dalla maggior parte degli esseri umani, diventa ancora più significativo per coloro che esercitano una professione centrata sul lavoro di cura, qualsiasi essa sia. L’incontro con l’altro, infatti, quando inserito in una cornice di presa in carico, accresce la sensibilità e la conoscenza di sé, sviluppando la propensione ad interrogarsi e a rimettersi in discussione. Questo fenomeno diventa più visibile con il trascorrere del tempo. C’è chi in vecchiaia trova vantaggio nello scrivere di sé e della propria esperienza a scopo didattico, c’è chi utilizza le storie per raccontarne altre in trame narrative e formative, c’è chi riesamina il proprio agire con maggior completezza, consapevolezza e chiarezza e ne vuol fare dono alle nuove leve. Lo psichiatra psicoterapeuta Yalom riassume tutte queste posizioni e si dà un preciso compito: a settantasette anni offrire, a chi intraprende il lavoro di cura, una ricognizione di alcuni aspetti salienti osservati nella relazione malato-terapeuta durante i suoi quarantacinque anni di pratica clinica.
Scrive infatti nell’introduzione: E’ scoraggiante rendersi conto che sto entrando in una fase avanzata della vita. Le mie mete, i miei interessi, le mie ambizioni stanno prevedibilmente cambiando. Erik Erikson, nel suo studio sul ciclo della vita, definisce questo stadio tardivo dell’esistenza con il termine generatività, intendendo una fase post-narcisistica in cui l’attenzione si sposta dall’espansione del sé verso la cura e la preoccupazione per le generazioni a venire. … Il suo concetto mi sembra corretto. Voglio trasmettere quello che ho imparato. E il più presto possibile.
Lo fa con la giusta preoccupazione di chi osserva un dilagante settarismo e dogmatismo nel campo della psicoterapia, come se una tecnica o una diagnosi fossero sufficienti a restituire benessere, se non guarigione, alle grandi questioni ultime dell’essere umano: la morte, la solitudine, il significato della vita e la libertà.
Credo che la tecnica sia di qualche aiuto quando deriva dall’incontro unico fra il terapeuta e il paziente nel qui-e-ora della relazione.
Yalom nell’affrontare il compito di aggiornare il suo testo non rinnega la posizione assunta negli anni precedenti verso i temi fondanti: la crucialità del rapporto, l’autosvelamento, l’essenza del qui-e-ora, la sensibilità verso i temi esistenziali, l’importanza dei sogni.
Definisce il proprio approccio con il termine di “psicoterapia esistenziale” poichè convinto che all’origine del conflitto interiore rivesta grande significato anche il confronto con ‘i dati di fatto’ dell’esistenza, fattori che influenzano profondamente la natura della relazione tra il terapeuta e il paziente e influiscono su ogni singola seduta. Nel mirino, quindi, si devono inserire gli avvenimenti immediati che accadono durante la seduta perché i problemi interpersonali del paziente si manifesteranno ben presto a colori vivaci anche nel qui-e-ora del rapporto terapeutico.
Secondo l’esperienza dell’autore, il qui-e-ora diventa ottimo strumento per intervenire nella relazione, a patto naturalmente che il terapeuta si consideri una sorta di “compagno di viaggio”, mettendosi quindi in gioco, sottoponendo innanzi tutto se stesso a una terapia per eliminare i propri punti ciechi e utilizzando l’autosvelamento ogni qualvolta si dimostrasse necessario: E’ controproducente che il terapeuta rimanga opaco e nascosto al paziente. Ci sono tutte le ragioni per rivelarsi al paziente e nessuna buona ragione per nascondersi. …Stabilire una relazione autentica con i pazienti, per sua stessa natura, richiede di abbandonare il potere del triumvirato magia, mistero e autorità. … Per impegnarsi in un rapporto genuino con il proprio paziente è necessario rivelare i propri sentimenti nei suoi confronti nel presente immediato.
L’accurata descrizione di alcuni casi permette l’approfondimento di concetti e parole chiave che caratterizzano ogni processo di cura: essere un sostegno; “guardare dal finestrino del paziente” ovvero assumere un atteggiamento empatico e contemporaneamente insegnarlo anche al proprio assistito; ricordarsi che si può essere terapeuti per molti pazienti, ma che il paziente ha come riferimento un solo terapeuta e deve perciò rivestire un’unicità di interesse; avere l’umiltà di mostrare i propri errori, poiché tutti possono sbagliare; impegnarsi a costruire un rapporto “insieme” che diventerà il vero agente del cambiamento.
Di fondamentale importanza, inoltre, è evitare di cadere nell’asimmetria di potere fra chi cura e chi è curato. A tale proposito Yalom cita l’accresciuta efficacia del guaritore ferito analizzata da Jung e riporta personali considerazioni autobiografiche: i guaritori feriti sono efficaci perché sono maggiormente in grado di provare empatia per le ferite del paziente; forse è perché partecipano in modo più profondo e personale al concetto curativo. So di avere, moltissime volte, iniziato un’ora di terapia in uno stato di inquietudine personale e di averla terminata sentendomi molto meglio, pur senza commenti espliciti sul mio stato d’animo. Credo che l’aiuto mi sia arrivato in varie forme. Qualche volta è il semplice risultato di essere efficiente nel mio lavoro, di sentirmi meglio con me stesso attraverso l’uso delle mie abilità ed esperienze per aiutare un altro. A volte deriva dall’essere tirato fuori da me stesso e messo in contatto con un altro. L’interazione intima è sempre salutare.
Allo stesso tempo, però, è necessario porre attenzione ai rischi emotivi del mestiere quali la solitudine, l’ansia e la frustrazione: le sedute con i pazienti sono imbevute di intimità, ma è una forma di intimità che non fornisce il nutrimento e il rinnovamento che derivano da rapporti profondi e affettuosi con gli amici e la famiglia …. Troppo spesso noi terapeuti trascuriamo i nostri rapporti personali. Il nostro lavoro diviene la nostra vita. Alla fine della giornata lavorativa, dopo aver dato tanto di noi stessi, ci sentiamo svuotati dal desiderio di ulteriori rapporti. Inoltre i pazienti sono così grati, così adoranti, così idealizzanti che corriamo il rischio di apprezzare meno i membri della famiglia e gli amici, poiché meno disposti a riconoscere la nostra onniscienza ed eccellenza in tutte le cose
Chi dell’autore conosce anche il romanzo “La cura Schopenhauer”, non troverà insolite le sue riflessioni filosofiche sulla morte e sul come parlare della morte, evento che lo psichiatra sente più vicino al suo destino personale e che soprattutto ha affrontato nelle terapie di gruppo e nei rapporti con i malati terminali.
Filosofiche anche le parole sul significato della vita: Noi esseri umani sembriamo creature sempre alla ricerca di un significato per tutto che hanno avuto la sfortuna di essere gettati in un mondo privo di un significato intrinseco. Uno dei nostri compiti più importanti è quello di inventarci un significato abbastanza forte da sostenere la vita e attuare la manovra disonesta di negare il fatto che siamo noi gli artefici di questa invenzione. Così ci convinciamo che invece era lì che ci aspettava. La nostra continua ricerca di sistemi ricchi di significati sostanziali spesso ci fa precipitare in crisi di significato. … Molti pensano che i progetti significativi assumano un valore più profondo, più potente, se trascendono loro stessi – cioè se sono diretti a qualcosa o qualcuno al di fuori di sé, come l’amore per una causa, una persona, un’entità divina.
Il compito del terapeuta, in questo caso, è l’identificazione e la rimozione degli ostacoli che impediscono di impegnarsi su qualcosa che si reputa significativo, poiché è proprio quell’impegno che servirà a dare senso al trascorrere dei propri giorni. Ma ancor più illuminante è il riferimento all’insegnamento del Buddha: ci si deve immergere nel fiume della vita e lasciare che la domanda scorra via da sola.
Ampio spazio viene dedicato inoltre all’assunzione di responsabilità, altro punto nodale di conflitti interiori: Finchè i pazienti persistono nel credere che i loro problemi più importanti sono il risultato di qualcosa che è al di fuori del loro controllo – le azioni di altre persone, i nervi, le ingiustizie sociali, i geni – noi terapeuti veniamo limitati in ciò che possiamo offrire….Se speriamo di ottenere un cambiamento terapeutico più significativo, dobbiamo incoraggiarli ad assumersi la loro parte di responsabilità – cioè a rendersi conto di come contribuiscono in prima persona alla propria sofferenza. Compito non certo facile e veloce di fronte a resistenze pervicaci, ma i consigli forniti supportati da esempi clinici evidenziano l’importanza di: non prendere decisioni al posto del paziente; concentrarsi sulle resistenze che impediscono il processo decisionale; stimolare la consapevolezza offrendo consigli; facilitare le prese di decisioni.
Non mancano dettagli su situazioni che si possono verificare durante lo svolgimento della terapia quali toccare il paziente, accogliere le lacrime, controllare le pulsioni sessuali, leggere i sogni … materiali che certo stimolano guida e ispirazione, ma che rispecchiano soprattutto l’elaborazione di idee e tecniche che Yalom ha trovato utili nell’esercizio della propria professione.
L’autenticità introspettiva e la volontà di “seminare” spontaneità e creatività all’interno di un rapporto d’aiuto è testimoniato dalle sue seguenti parole: non considerate i miei interventi personali come una specifica ricetta procedurale; essi rappresentano la mia prospettiva e il tentativo di guardarmi dentro per trovare il mio proprio stile e la mia propria voce.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Giampaolo Nuvolati (2013) L’INTERPRETAZIONE DEI LUOGHI, Firenze, University Press
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Giampaolo Nuvolati (2013)
L’interpretazione dei luoghi
Firenze, University Press
In questo periodo perseguo, con TartaRugoso, l’arte della flanerie come esperienza di vita (sottotitolo del volume in lettura).
Sono diversi ormai i testi che in questa rubrica si rincorrono su questo tema, nelle sue varianti dedicate al genius loci, ai giardini, alle derive …Così anche questo libro di Nuvolati giunge a proposito e contribuisce con maggior chiarezza a delineare e a modernizzare la figura del flaneur.
Annota l’autore che la parola flaneur ha varie origini e usi:
“Nata intorno alla metà dell’Ottocento per designare dandy, poeti e intellettuali che passeggiando tra la folla delle grandi città ne osservano criticamente i comportamenti, la nozione di flaneur sollecita oggi con forza l’interesse delle scienze sociali e della filosofia, ma anche della letteratura e del cinema, per la capacità di identificare una particolare pratica di viaggio e di esplorazione dei luoghi, di rapporto riflessivo con le persone e gli spazi.
La figura del flaneur può dunque essere considerata da diverse angolazioni: “incarna il desiderio di libertà errabonda dell’individuo imprigionato da vincoli territoriali, ideologici, professionali; la ribellione contro le pratiche consumistiche di massa, specie contro il turismo mordi e fuggi; l’aspirazione ad assaporare la vita secondo ritmi più meditati; il recupero della sensibilità come forma di conoscenza!”, ma sebbene si tenda ad associare tale figura a poeti, artisti e intellettuali, lo spazio urbano può essere abitato da molteplici figure affini. Prima di conoscerle più in dettaglio, mi soffermo su una considerazione interpretativa che Nuvolati espone attraverso l’espressione “flaneur ossimorico”, ovvero le opposte contraddizioni che l’esploratore può incarnare.
Per esempio, essere al contempo puer e senex. Perché nel puer è custodita l’ingenuità del flaneur, la sua voglia di scoprire lo sconosciuto, la voglia di abbandonarsi entusiasticamente al labirinto urbano e però, al contempo, anche quella certa consapevolezza che lo rende saggio nella sua scelta di cosa osservare, nel sapere quando e dove sostare.
Sempre in ambito ossimorico il flaneur è solitario e un po’ malinconico, ma nello stesso tempo cammina nella folla, sfidandola e talvolta sentendosi un po’ sopra di essa.
Qualcuno ritiene che il bighellonare richiami l’ozio? Può darsi, ma è anche vero che la pazienza della perlustrazione, qualche volta vicino alla noia, rappresenti una sospensione in attesa dell’atto creativo (Tacita Dean definisce questo atteggiamento indolenza creativa). La flanerie, infatti, non è solo una forma di contatto lento con la città veloce, ma in genere è seguita da un momento produttivo, di scrittura, di narrazione, di fotografia, “di collezionare pensieri che non sempre seguono una logica, che spaziano da una disciplina all’altra, ricorrendo a più strumenti narrativi, spiazzando il lettore”.
Per non parlare dell’aspetto sociale e sociologico del flaneur … Egli infatti è “colui che grazie alla propria arte guarda la città, ne rielabora i significati e la restituisce a un pubblico più ampio, ma anche agli specialisti che necessitano di uno sguardo diverso, seppur mai definitivo”.
Dunque piedi, occhi e cervello sono le parti maggiormente coinvolte nell’espletare la flanerie: “caratteristica è quella di muoversi a piedi, conciliando tre attività: il camminar lento, l’osservare e l’interpretare ciò che lo sguardo coglie … Camminare nella città rinvia a una condizione di solitudine e di libertà nel rifiutare la velocità e i percorsi imposti dal ritmo urbano e massificato, è la scelta di tempi e pause personali ma, contemporaneamente, rappresenta anche un’apertura verso gli altri”.
Implicitamente fare il flaneur comporta un atteggiamento di pazienza, lentezza e silenzio. E’ solo grazie a queste attitudini che si possono percepire i cinque sensi vissuti dalla città, nonostante il rumore e la frenesia. Nel suo silenzio interiore il flaneur scopre che il luogo non rappresenta più il fondale delle sue azioni, ma diviene esso stesso protagonista, rivelandosi inaspettatamente agli occhi del suo osservatore e svelando l’anima fino allora nascosta. Senza dover necessariamente andare lontano, perché “ognuno ha la propria Parigi o Londra in cui perdersi; sono le nostre città di tutti i giorni che nascondono il loro genius loci misterioso, tra realtà e finzione”.
E, sempre a proposito delle contraddizioni incarnate, la vera sorpresa sta fra le multiformi figure che possiamo declinare nell’essere flaneur, rovistando sia fra presenze “marginali”, sia fra presenze di “élite” o addirittura fra “professioni”.
Nuvolati esamina queste categorie portando alla luce tizi e tali noti agli occhi di tutti coloro che si soffermano a considerare il prossimo che incrociano nelle vie della loro città.
Con TartaRugoso, passeggiando fra i vari crocicchi della città murata, condividiamo l’elenco proposto dal’autore.
Marginalità
– senzatetto e mendicanti che girano per la città cercando giacigli, cibo, luoghi della questua (il censimento che tartarugando potremmo costruire all’interno delle nostre mura è assai variegato e spazia dal “Dio ti benedica, buona giornata”, a “50 centesimi per mangiare”, al semplice gesto del braccio per vendere qualcosa, al suono di una fisarmonica accompagnato da uno o più languidi sguardi canini)
– pensionati che passeggiano e si appostano vicino a operai al lavoro per dare loro consigli (nel nostro caso l’esempio più evidente è in riva al lago per commentare manovre di imbarcazioni o raccolta di pesca, ma naturalmente non fanno difetto gli osservatori dei vari cantieri aperti)
– bighelloni frequentatori di bar e sale corse perennemente seduti ai tavoli (che suscitano sempre la nostra domanda “ma questi che fanno per vivere?”)
– matti del paese e balordi in perpetuo movimento alla ricerca di compagnia (“farò quella fine”, dice TartaRugoso, guardando all’affaccendato giornaliero trasportatore di libri che incrocia sempre davanti al teatro)
– alcolisti, tossicodipendenti che vanno a zonzo in città chiedendo la questua o alla ricerca di droga (il segreto è di evitarne lo sguardo)
– prostitute in attesa o a passeggio nelle zone di transito dei clienti (non siamo flaneur notturni per cui non ci è dato questo incontro)
– immigrati spaesati alla ricerca di conoscenti e di opportunità di lavoro in alcune zone della città (non nel nostro quartiere, dove invece sembrano abbastanza stabilizzati e abili conoscitori dei servizi sociali)
– studenti fuori sede che girovagano fra una lezione o l’altra nei periodi di pausa dello studio o nelle uscite serali (il lungolago ne è pieno, soprattutto nelle giornate di sole)
Elites
– ceti particolarmente abbienti che possiedono case di valore in più città dove trascorrere brevi periodi all’anno praticando attività di esplorazione della città congiuntamente all’élite locale e internazionale (nella nostra flanerie lacustre l’attenzione si desta quando vediamo spalancate imposte di ville solitamente chiuse, che dopo qualche giorno tristemente ritornano allo stato silente)
– viaggiatori dei Grand Tour (non ci è dato di incrociarli, data la nostra inesistente passione per questo tipo di turismo)
– new dandies a passeggio per sfoggiare nuovi capi di abbigliamento (idem come sopra)
– turisti intellettualizzati che frequentano musei e mostre (e che ci dimostrano quanto è bella e ambita la nostra città)
L’autore non manca di citare i “provocatori”:
hippies che rifiutano le regole; intellettuali critici nei confronti della società di massa; manifestazioni politiche; musicisti girovaghi. TartaRugoso, per esempio, ha stretto amicizia con il proprietario di due cani (Budino e Guapa), che ha scelto di vivere da barbone scrivendo poesie.
E, ancora, Nuvolati si sofferma su chi si trova a fare flanella per
motivi di lavoro:
poliziotti in perlustrazione di quartieri a rischio; detective sul luogo del delitto; giornalisti impegnati a raccogliere immagini e testimonianze; architetti che sovrintendono la trasformazione di un luogo.
Sicuramente la pratica che preferiamo, TartaRugoso ed io, è quella definita “camminare liberamente in città”, l’amare la città nel suo viverla quotidianamente, soprattutto in questo periodo estivo, quando le piazze (finalmente libere dalle auto) diventano teatri en plein air, stuzzicando la curiosità dell’approfondimento e regalando “quel sentirsi altrove” che corrisponde ai vari sentimenti espressi da film, musiche, mostre, rappresentazioni teatrali, giochi e mimi, monologhi …
La cinepresa in questo caso diventa lo strumento per catturare quei momenti magici e tentare di renderli eterni.
TartaRugoso, su stimolazione di Perec, ha anche tentato la pratica dell’”osservazione da postazione fissa” (in altre parole, tentativi di esaurimento di un luogo), stupendosi dell’effetto strabiliante che lo stesso spazio possa diventare, in diversi momenti della giornata, fonte di trasformazione sociale.
Per ottemperare alle istruzioni fornite da Nuvolati, ci manca solo lo “shadowing”, ovvero “il fare da ombra, il pedinare una persona prescelta lasciando che sia lei a guidarci nella città”, magari sostituendo il pedinato con un altro, in un punto particolare della camminata (shadowing incrociato).
Ma dubito molto che possa diventare un nostro atto sia pur sperimentale: da brava coppia tartarughesca, amiamo la solitudine e preferiamo lasciarci abbracciare dalle visioni dei nostri luoghi, apparentemente i soliti, ma suscitatori di sempre nuove percezioni.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Andrée Bella (2014), Socrate in giardino, Passeggiate filosofiche tra gli alberi, Ponte alle Grazie, Salani Editore, Milano
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Andrée Bella (2014)
Socrate in giardino
Passeggiate filosofiche tra gli alberi
Ponte alle Grazie, Salani Editore, Milano
Non è questione di amare o meno la natura.
La questione riguarda piuttosto l’interrogarsi, il soffermarsi, l’ascoltare e l’ascoltarsi.
Perché ci sono vicende in cui l’uso delle parole può rivelarsi insufficiente, se non inopportuno e inefficace.
Sono le vicende dell’umana sorte legate al mistero, all’insondabile, all’ineffabile che, nella loro presunta individualità, si dispiegano ad accogliere l’universale e l’eterno.
In quel vuoto che si forma dentro, nel tempo surreale che può perdere il suo senso,volgere lo sguardo alla natura che ci possiede, prendersi per mano e accompagnarsi lungo la vita diventa la terapia più profonda per ritrovare se stessi.
Per lo meno, da tartaruga la vedo così, e così la vorrei vivere, nonostante l’obiettiva difficoltà.
Ho imparato due definizioni di vita:
Bios (da cui biografia), che designa la vita legata al nostro nome e alla nostra storia, il cui inizio è sancito dalla data di nascita e la cui fine dalla data di morte.
Zoé (da cui zoologia), che designa la vita universale che ciascuno di noi si porta dentro, intrecciata sì alla bios, ma ben più ampia, una vita senza nome e al di là del pensiero.
Andrée Bella suggerisce di connettere il microcosmo (il proprio agire e il proprio sentire) al macrocosmo (quel tutto senza il quale la vita umana non avrebbe potuto darsi): “A partire da questa prospettiva il senso dell’anima si trova nel mondo e quello del mondo può essere riconosciuto e celebrato nell’anima e i due poli risultano essere indissociabili”.
Perché quindi non ispirarsi agli esercizi dell’antica terapeutica filosofica, grazie ai quali si può tentare di trasformare i propri modi di sentire e pensare?
E’ intorno a questo tema che il sottotitolo del libro “Passeggiate filosofiche tra gli alberi” ci insegna ad essere “sereni e fermi anche di fronte alle avversità, comprese la vecchiaia, la malattia e la morte stessa”, nonché a “vivere concretamente cercando di non smarrirsi nei meandri quotidiani del piccolo, soffocati da abitudini inerti o doveri vuoti”.
La prima passeggiata propone l’esperienza filosofica dell’autunno e le riflessioni mito-botaniche sulla perdita e sulla morte.
Fra noccioli, edere, betulle, è l’incontro con un pino silvestre in difficoltà che maggiormente mi colpisce. Proprio lui, “emblema immaginario di una forza che non soccombe all’arrivo del freddo” è lì, malato e in sofferenza, eppure sa che deve in qualche modo resistere, imparare a sopportare. Il pino dolorante allora evoca questo esercizio “Mettere a fuoco la capacità di resistenza”. “La capacità di resistenza è una cosa diversa da una stanca rassegnazione o dall’atto di ribellione, pur potendo coincidere in parte con l’una o con l’altro. A volte siamo costretti a subire situazioni che non possiamo cambiare. Situazioni difficilissime, malattie gravi, proprie o altrui, licenziamenti ingiusti, incidenti, morti improvvise e premature, inganni e così via. Situazioni per le quali non si vive, ma si sopravvive. … La capacità di resistere, che può avere tratti eroici anche in certi gesti quotidiani, come alzarsi ogni mattina … implica costanza, volontà e fatica. … La fatica può essere foriera di grande felicità, Ma bisogna imparare a sopportarla … Ogni difficoltà superata significa apprendimento, cambiamento.”. Come si può imparare qualcosa se prima non si sperimenta un crollo?
Anche l’incontro con i pioppi neri fortifica l’esercizio,
Narra la leggenda che Fetonte, figlio del dio Sole, riuscì a farsi prestare dal padre il carro di fuoco per poter volare nel cielo, ma la sua incapacità di governare le briglie rischiò di fargli bruciare l’intera terra e Zeus fu quindi costretto a intervenire e a fulminarlo. Le sorelle Eliadi, vedendo il corpo cadere nel fiume Eridano, iniziarono a piangere senza smettere mai e Zeus, impietosito, le trasformò in pioppi neri. La loro corteccia nera ci ricorda che “bisogna saper guidare il carro, non avvicinarsi troppo al sole e neppure alla terra, saper stare in equilibrio. Il tentativo di trasfigurare il dolore e la sofferenza, di trascendere e trasformare il negativo e di oltrepassare il limite e salire, deve accompagnarsi alla conoscenza permessa dal discendere e dal vedere il limite e la morte”.
La seconda passeggiata celebra le nozze tra acqua e terra, con la bella metafora del “lasciarsi accadere” come i salici disposti in riva al fiume: “Rami che sanno ondeggiare assieme alla corrente, senza spezzarsi, delicati e potenti nell’arginare i fiumi”.
L’esercizio è “Provare a stare con quello che c’è, dentro e fuori, ogni giorno”. “Accettare ciò che si è e si ha o non si ha più … La consapevolezza che è inutile inasprirsi, chiudersi, rifiutare ciò che accade. Inutile pensare che la propria sofferenza sia colpa degli altri o di qualcosa che ci manca”.
Ci vengono in aiuto gli stoici e la loro disciplina dell’assenso: vedere le cose così come sono, cercando di eliminare il giudizio e il pathos che le rende terribili e temibili per noi.
La forza acquatica, ricordiamolo, possiede le sue ombre e i suoi rischi. Possiamo infatti impantanarci nella palude: “quando il saper seguire e adattarsi alle situazioni diventa passività, fino a un’immobilità stagnante e mortifera. Una situazione psichica in cui tutto è annacquato e non ci si può appoggiare a nulla, i contorni si sciolgono e non permettono appigli”.
E’ l’ontano l’albero cui dobbiamo rivolgerci per arginare lo sprofondamento depressivo. Il legno di quest’albero, infatti, non marcisce (il ponte di Rialto poggia su pali di ontano, così come molteplici cattedrali medievali). “Dove l’acqua ristagna, ecco nascere gli ontani a fissare l’azoto dell’aria e a resistere. E’ una necessità di equilibrio e complementarietà, saper lasciare accadere e scegliere, accogliere e decidere, abbandonarsi e sforzarsi, ascoltare e prendere la parola, cedere e proporre, coltivare pace e saper combattere”.
Sempre dagli stoici un altro esercizio: “Inserire ogni oggetto nella catena delle cause”. Serve a ricordare che le cose non possono esistere da sole.
Ecco la quercia e la ghiandaia. La ghiandaia sputa nel terreno le ghiande che porta nel becco, le osserva e le ingoia di nuovo tutte, tranne una, che resta lì nel terreno, pronta a seguire il suo nuovo destino. Fa questa operazione più volte salvando se stessa e la quercia, che si propaga in continuazione. Gli stoici sostenevano che per un singolo fare il bene della comunità equivale anche a fare il proprio bene e invitavano quindi all’esercizio dell’azione al servizio degli altri.
Nella terza passeggiata, dedicata alle nozze tra terra e fuoco, l’esercizio proposto è “Attenzione alla sensazione e alla consapevolezza di essere vivi”. Ovunque. Persino in un parcheggio di città, dove il rapporto con la natura può essere solo immaginato. “L’accaparramento di suolo a fini commerciali, la parcellizzazione pianificata e la privatizzazione, l’aumento dei dispositivi di controllo e l’omogeneizzazione delle attività legate al consumo rendono più difficile abitare felicemente il territorio urbano. … Ma forse esiste, è esistito e sicuramente potrà sopravvivere un desiderio altrettanto intenso di liberarsi di tutto ciò. Un desiderio che mira a costruire vite, strade e case differenti. E’ il desiderio filosofico, un bisogno di trasformazione e miglioramento di sé e del mondo che con il possesso non ha nulla a che vedere”.
Guardiamo dunque quel fico che rompe il cemento e cresce nella crepa del muro. Il fico è il simbolo di illuminazione e conoscenza, della “forza misteriosa che si propaga e si espande. Oltre la morte. Instancabile. Eterna. E’ una volontà umana che cerca perseverante, nonostante il morire, il senso della vita”. Nella sua vitalità ci insegna che per alimentare la fiamma del mondo bisogna andare oltre ai propri interessi. Solo così, misteriosamente, potremo comprendere che soffiando sul fuoco del mondo si soffia su un fuoco che pure è nostro e ci è intimo.
Entusiasmarsi equivale ad avere un “soffio dentro”, cosa che accade ogni volta che respiriamo. Nella natura il respiro è dato dal vento e dal suono che produce soffiando fra gli alberi e “forse bisogna imparare dai pioppi tremuli, imparare a oscillare con il vento. Senza fermarlo, senza imprigionarlo, senza farsi sbatacchiare qua e là”. Ogni città dovrebbe possedere un luogo in cui fermarsi ad ascoltare il canto dei pioppi, un luogo dove “mettersi ad ascoltare la voce del vento. Per addolcire la scansione meccanica dei ritmi quotidiani e la visione ristretta del tempo rigidamente organizzato. Per rimettere tutto questo nell’orizzonte terrestre, nel succedersi delle stagioni e delle ore geologiche”.
La quarta passeggiata, infine, propone riflessioni mito-botaniche sulla nascita e rinascita: “Essere o non essere. E’ come un glicine che si appoggia a un albero”. “Bisogna comprendere come esercitarsi a rinascere e a innamorarsi. Il memento mori, ricordati che devi morire, si trasforma in memento vivere, ricordati di vivere”.
E ricordarsi di vivere non è poi vicenda così scontata, in quanto l’abitudine può inibire l’esercizio della meraviglia e della sorpresa, precipitandoci nella noia, come già osservava Seneca “Il sole non ha spettatori se non durante le eclissi”. Orfeo, il mitico musico cantore, sceso vivo nell’Ade aveva saputo evocare con il suo canto cosmico la gratitudine per la bellezza di tutto ciò che vive ed è destinato a scomparire. E l’Amor fati di stoica memoria insegna proprio ad innamorarsi di ciò che naturalmente accade, così come enunciava Marco Aurelio: “Non devi cercare di ottenere che gli avvenimenti avvengano come tu vuoi, ma desiderare gli avvenimenti così come avvengono e sarai sereno”.
L’esercizio in questo caso, quindi, è quello di mantenere alta la consapevolezza che non tutto dipende da noiin ciò che ci accade nella vita. Ciò che invece è strettamente dipendente da noi è il nostro modo di vivere e percepire gli eventi che ci capitano. Se qualsiasi cosa ci capiti è consueta e ovvia, allora ricordiamo che amore del fato significa “Amore di una primavera capace di non dimenticare l’autunno. E viceversa di un autunno capace di non dimenticare la primavera … Camminiamo memori di queste alternanze, sereni come coloro che si esercitano a non avere paura di ciò che normalmente si considera negativo. … Stoicamente, camminiamo”.
Imparare pertanto a lasciarsi sbocciare in primavera. Così come il serpente, nella prima giornata di sole, esce dalla propria pelle, pronto per indossarne una nuova.
O, da tartaruga, rivedere l’azzurro del cielo dopo aver contemplato il buio della terra.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Paolo Legrenzi (2014), Frugalità, Il Mulino, Bologna
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Paolo Legrenzi (2014)
Frugalità
Il Mulino, Bologna
L’attenzione è stata attirata indubbiamente dal titolo.
Accade, fortunatamente non molto spesso, che nelle dinamiche decisionali che contraddistinguono ogni coppia coniugale quando si deve procedere ad un acquisto impegnativo, si sollevi un’affermazione poco simpatica nei miei confronti, ovvero che sono “avara”. La mia indole tartarughesca ha sempre un sussulto di fronte a questa sentenza. Perché se proprio proprio devo titolarmi di qualcosa, trovo più giusta la parola “frugale”.
Leggendo questo libro ho condiviso molte riflessioni e, a conferma del mio personale sentimento verso me stessa, ho scoperto nell’ultima pagina di aver già provveduto da sola ad applicare il consiglio suggerito, ossia “questa cosa mi serve proprio?”, domanda che previene la successiva “e se facessi a meno di questa cosa?”.
Entrando nel dettaglio di specificare il significato della frugalità, si parte dalla considerazione che un’idea certamente diffusa confonde la frugalità con la povertà, nel senso che sono solo i ricchi che possono rinunciare a qualcosa di superfluo, essendovi i poveri già costretti dalle circostanze. Se quindi essere frugali vuol dire rinunciare all’abbondanza, diventa sicuramente più facile dopo che si è ben sperimentato nell’arco dell’esistenza cosa significa “avere il superfluo”.
Invece, secondo l’autore, la vera sfida è affrontare la frugalità come una scelta a priori, non come un rifiuto di una possibile vita affluente e consumistica.
Elenca quindi una serie di osservazioni:
- Frugalità non è povertà. E’ una scelta, non una costrizione
- Frugalità non è avarizia. L’avarizia, come la povertà, non è una vera e propria scelta: alla povertà siamo costretti dalle circostanze esterne, all’avarizia dalle nostre ossessioni mentali
- Frugalità non è una decisione di risparmio: produce risparmio come effetto collaterale, poiché il rifiuto del superfluo e del consumo spinto favorisce la formazione di quel margine di manovra costituito da soldi non sprecati
Molto eloquente è, a supporto di queste affermazioni, l’esempio della valigia, del viaggio e dell’attrezzatura da portare con sé:
– il povero ha una valigia piccola in cui sono stipate tutte le cose e dove non c’è spazio di manovra: se si mette qualcosa di nuovo, bisogna rinunciare a qualcos’altro
– il ricco ha una valigia grande e piena di cose per trovare sempre quelle giuste per ogni occasione, quindi priva di spazi per aggiungere ulteriori beni
– il frugale ha una valigia media, ma è stato educato a mettere dentro poche cose, per cui se durante il viaggio trova qualcosa che gli piace può inserirlo senza fatica. La frugalità garantisce che la valigia non sia mai piena zeppa
Dal puto di vista della collocazione storica, la distruzione della frugalità ha avuto inizio nel corso del Novecento con un massiccio e ponderoso processo culturale che vede affermarsi e globalizzarsi la società dei consumi.
“L’industria dei prodotti di massa per affermarsi dovette riuscire a imporre bisogni permanenti”, o meglio, seminare desideri irrinunciabili in modo democratico e quindi accessibili a tutti.
“Se si voleva distruggere la frugalità, la leva iniziale doveva consistere nella creazione di oggetti desiderabili, attraenti, di stile, ma soprattutto riconoscibili come prodotti di un’azienda diversa dalle altre … Si trattava poi di propagandarle con tecniche adeguate, così da poter colonizzare prima l’America e poi il mondo”.
Questo principio basato sulla notorietà ha subito dato i suoi frutti; come non ricordare il predominio di alcune marche su altre ritenute invece insignificanti: Hoover per gli aspirapolveri, Gillette per le lamette dei rasoi, Singer per le macchine da cucire, Maggi per i dadi o Campari per l’aperitivo. (la memoria autobiografica mi rimanda agli anni Sessanta, quando mio padre ricordava a mia madre di comprare assolutamente le Gillette, perché tagliavano meglio; oppure i dadi Maggi che non avevano nulla a che vedere con quelli della Star, pensiero sostenuto anche a distanza di anni da mia suocera; impossibile poi pensare a una macchina da cucire che non fosse “La Singer” e idem per l’aspirapolvere, fino all’arrivo della Folletto).
Un’altra componente dell’antifrugalità riguarda l’aumento dell’offerta, che contribuisce a rendere estremamente labile il confine tra ciò che è frugale e ciò che non lo è.
“Scegliere di essere frugali vuol dire oggi fare a meno di molte più cose rispetto a quelle di chi un tempo credeva di aver già scelto di essere frugale”.
I desideri sono realizzabili grazie alla loro commerciabilità attraverso la determinazione dei prezzi. I desideri si possono perciò comprare e vendere.
“La frugalità consiste essenzialmente nel rifiutare la corruzione che dipende dal dare un prezzo a qualcosa … Infatti una volta insegnato l’uso della moneta e creato un mercato, l’incanto di una vita frugale scompare per sempre: i prezzi cancellano i sensi di colpa e legittimano quanto una volta era proibito, irrituale o inappropriato”.
Ognuno di noi pertanto può decidere se accedere agli innumerevoli mercati dei desideri e se soddisfare questi desideri in modo frugale oppure optare per il superfluo.
Nell’epoca moderna assistiamo inoltre a una importante svolta linguistica: “quelli che un tempo erano considerati vizi, oggi vengono riclassificati desideri”.
Ma esiste un modo per imparare la frugalità?
L’autore, psicologo, definisce quali siano le “precondizioni cognitive della frugalità”, ovvero: il desiderio di accumulare beni; la paura delle perdite; la capacità di controllare e posticipare i desideri; la capacità di valutare il futuro.
In particolare, sul controllo dei desideri, grande rilevanza assume il compito educativo genitoriale, poiché è da molto piccoli che si impara a controllare i propri desideri e a sfuggire alle tentazioni: “l’educazione alla frugalità è l’architrave di una buona educazione. I bambini più frugali, nel senso che resistono alla tentazione in attesa di ricompense maggiori, sono quelli più coscienziosi e diligenti. Sono proprio coloro che più probabilmente diventeranno adulti di successo”.
Sulla previsione del futuro, la frugalità è indubbiamente una strategia di prevenzione di molti mali, in quanto costituisce una sorta di assicurazione contro l’incertezza del domani e, spesso, diventa anche premessa per il nostro risparmio.
A tal riguardo, riporta una ricerca che dimostra come le persone di mezza età guardino al passato con un misto di rimpianto e nostalgia, credendo di non cambiare più. “Questo errore è un grande freno alla scelta di una vita frugale. La frugalità, infatti, crea un cuscino di sicurezza, un margine di manovra che riteniamo inutile se, giunti alla mezz’età, pensiamo che il futuro sia una replica del passato. In realtà non ci sono mai repliche nella vita e questa è una trappola: il futuro riserva sovente belle sorprese, ma anche brutte”.
In un paese che invecchia non si può non tener conto delle “brutte sorprese”, connesse sempre più spesso alla perdita dell’autonomia. In tal senso la frugalità rende più forti, difendendoci dalla scarsità non solo di soldi, ma anche del tempo e della mancanze di idee.
Allerta infine l’autore che la frugalità non deve essere intesa come rinuncia di oggi in vista di futuri vantaggi domani. Alcuni dati, per esempio, stanno dimostrando che gli italiani sono tornati a risparmiare riducendo i consumi, osservazione questa ben diversa dal sostenere che i consumi calano perché gli italiani non hanno più soldi (“I consumi si sono ridotti di 2,7 miliardi e i risparmi sono aumentati di 4,4 miliardi”).
La domanda conclusiva è quella di interrogarsi se questa nascente frugalità sia solo temporanea, in attesa di una ripresa che scatenerà nuovamente il consumismo, o un segnale di cambiamento di scelta di vita.
Sostiene Legrenzi “la buona frugalità deve essere qualcosa di più di una rinuncia alle tentazioni. I piaceri derivanti da una vita consumistica devono essere sostituiti da altri piaceri. Questo non implica la decrescita economica, ma un nuovo indirizzo nell’uso dei soldi che raccogliamo con le tasse e con i nostri risparmi. In primis dobbiamo pagare i nostri debiti, invece di lasciarli alle prossime generazioni, poi dobbiamo cercare di contribuire al gusto per una vita di riflessione, di ricerca, migliorando i processi educativi e l’istruzione”.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Alberta Basaglia (2014) con Giulietta Raccanelli, Le nuvole di Picasso, Feltrinelli, Milano e “Manicomi” di Davide van de Sfroos
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Alberta Basaglia (2014)
con Giulietta Raccanelli
Le nuvole di Picasso
Feltrinelli, Milano
C’è un passato che ritorna, leggendo queste pagine.
Il fatto che Alberta abbia tre anni e una virgola più di me significa aver vissuto più o meno contemporaneamente eventi, cultura, musica, letture di quegli anni. Gli anni del baby-boom, della risalita economica, ma anche gli anni delle conquiste sociali, delle piccole-grandi rivoluzioni, delle contestazioni.
La differenza è che Alberta questo clima l’ha vissuto da protagonista, anziché da spettatrice.
E’ attraverso lo sguardo di una bambina affetta da coloboma che le sue parole scivolano libere, così come le nuvole vaganti nei cieli azzurri disegnate sulla carta da pacchi.
“Ma tu perché guardi con la testa storta?” “Perché guardo storto? Perché così ci vedo meglio”. Una risposta perfetta, positiva e soddisfacente per il pubblico, ma anche per la bambina curiosa, che dalla sua simile si aspettava solo una cosa semplice come le cinque parole ricevute…. Esistono anche modi semplici per comunicare.
Vedere di sghembo non è certo un impedimento: ho vissuto senza limitazioni. Sono stata lasciata libera di decidere il mio modo di vedere. …La vita dei due genitori che mi erano capitati in sorte era talmente identificata nella loro scelta che tutto rientrava nello stesso calderone: l’idea era che tutti, proprio tutti – maschi, femmine, matti, malati, bambini, bambini malati – dovevano avere una possibilità per poter vivere la loro vita. La malattia c’è, non la si nega, ma il fatto che ci sia non deve impedire alla persona in questione di poter vivere e agli altri intorno di poter stare con lei.
Il passo indietro negli anni è vivido. Ci sono i riferimenti a Pippi Calzelunghe (Pippi, Pippi, Pippi che nome, fa’ un po’ ridere,
ma voi riderete per quello che farò!), agli episodi della Freccia Nera (prime identificazioni adolescenziali nell’eroe Aldo Reggiani e la sua amata, l’esordiente Loretta Goggi), ai cartoni del Carosello (Pallina con la sua coda bionda ballare e lucidare i pavimenti con la cera Solex o per non poter sognare sulla vita sempre rosa con la brava Maria Rosa e sul gigante buono che a detta delle mie compagne pensava sempre lui a tutto), ma anche ai primi prodotti di “lusso” e alla prima versione del centro commerciale: la Standa.
Ma non bastava, per nutrire la mia cultura assetata di pop andavo anche alla Standa. Con l’Adriana e la Marisa giravo tra gli scaffali e ascoltavo il sottofondo sonoro, le canzoni “da Standa” appunto: Twist and shout, Nessuno mi può giudicare, E la pioggia che va, Ventinove settembre. Poi, finalmente, con i punti della Mira Lanza sono arrivati il mangiadischi portatile marrone e una radiolina. … Nella rivoluzione normale di casa nostra si era così costruito uno spazio accogliente per molti generi diversi. Per Patty Pravo, per Mozart, per le canzoni partigiane, per i canti dei minatori del Sulcis. Lucio battisti invece era escluso dalla nostra familiare hit parade; era troppo alto il rischio di aprire l’inevitabile infinito dibattito su un quesito ai tempi fondamentale: “Ma Battisti è di destra o compagno?”.
Sì, c’è proprio tutto. Solo che per Alberta lo sfondo delle sue nuvole è di grande respiro:
Alla fine la casa si svuotava e iniziava il ticchettio della macchina da scrivere della mamma. Nella penombra sentivo il fumo di sigaretta che fluttuava da una camera all’altra, insieme alle parole di Franco e Franca. …Le loro voci in compagnia delle truppe intellettuali evocate: Marcuse, Sartre, Conolly, Goffmann,. Heidegger, Hegel, Marx, Gramsci. Arrivavano tutti puntuali a darmi la buonanotte. Era la mia ninna-nanna, che durava fino a tarda, tardissima ora… C’è quella teoria che dice che se di notte mentre dormi qualcuno ti legge delle cose, tu alla fine le impari, nel sonno, senza nemmeno rendertene conto. Credo che sia quello che è successo a me.
Scorrendo le pagine l’una dopo l’altra si riesce ad entrare in quelle giornate frenetiche, intense, con il kilt rosso e blu, l’infantile invidia per i vestiti a fiori della Rosa, i maglioni senza cuciture preparati dalla Franca con i gomitoli arrivati dalle matasse stese sulle braccia di Alberta: braccia ben dritte in avanti per tenere tesa la lana tra polso e gomito, movimento leggermente ondulatorio per permettere al filo di scorrere veloce e arrotolarsi per bene e con ritmo in mano alla mamma, davanti a me; io da una parte e lei dall’altra della stanza.
Scene di ordinaria quotidianità, come i viaggi in macchina da Gorizia a Venezia e le interminabili soste di Franco dal rigattiere: Franco si aggirava tra i vecchi mobili impolverati e le tante piccole cose di pessimo gusto che in genere affollano questi luoghi … Tra tanta paccottiglia, annusato il pezzo che gli interessava, partiva con un lungo, lento, ragionato avvicinamento … sfide lanciate a se stesso per riuscire a portare dalla sua il robivecchi.
Lo stesso Franco che sulla spiaggia, dopo cinque brevi, contemplativi minuti, già scalpita e ridacchiando dice: “Bè, adesso andiamo?”. “Ma se siamo appena arrivati!” … A ripensarci, anche il tempo libero può essere noioso se non riesce a entusiasmarti quanto ti entusiasma il tuo mestiere. Beato lui che si è trovato un lavoro che gli è piaciuto così tanto.
E piano piano arrivano le personalità della Franca e del Franco dell’Alberta e dell’Enrico: Nessuno ci ha mai lasciato “di là” perché “non erano cose da bambini”. In quell’ultimo luminoso piano del palazzo della Provincia, le porte non si chiudevano, le parole ci raggiungevano sempre, da una stanza all’altra, insieme all’odore del fumo di sigaretta, al ticchettio della macchina da scrivere e agli squilli del telefono. Queste diverse presenze erano il mio quotidiano. Questa è stata per me la rivoluzione più normale del mondo.
C’è il caffè del Signor Toni, appuntamento irrinunciabile di ogni sabato:
Poi giù di corsa, perché il signor Toni stava aspettando Franco al bar del piano terra. Era il momento del loro caffè. Non c’era settimana che lo saltassero. … Appena ci vedeva ci salutava con un sorriso mesto e gli occhi tormentati di chi convive con la sofferenza mentale e con le sue numerose crisi. Quelle sedute al tavolino del bar evidentemente funzionavano e sono andate avanti per anni. E per anni lui è riuscito a non smarrirsi … Quelle conversazioni con Franco davanti a un caffè riuscivano a non farlo perdere nei suoi fantasmi … Il papà ci avrebbe raggiunto di lì a neanche un’ora.
C’è la Lettera 22 della Franca:
Un giorno capita che sulla libreria-scrivania della mamma, la sua Olivetti carta da zucchero abbia un foglio scritto quasi per intero che spunta fuori dal rullo gommoso … Riconosco nella storia appena letta tutto il lavorio, tutto il fermento che mi stava attorno. Riconosco i medici entusiasti dell’impresa, quelli che venivano a tavola con noi. … Eccolo qui il ribaltone in corso nelle mura dell’ospedale di papà. La mamma con queste sue righe me lo mostrava attraverso le sue parole … Nel 1982 il libro sarebbe uscito col titolo Manicomio, perché?
E intanto corre l’anno Sessantotto:
Sui muri appena fuori dalle aule comparivano scritte nuove “Voglio essere orfano”. I genitori erano diventati istituzioni da abbattere alla luce del sole. Ma papà mio malgrado, per quegli studenti non era da buttare, anzi. Era considerato uno di loro, perché lui dal ’68 stava a Gorizia a riorganizzare i seicento matti dell’ospedale psichiatrico, a smantellare la sua istituzione, mattone dopo mattone. …Contestarlo sarebbe diventato un lusso solo nostro, molto privato.
La storia che oggi noi conosciamo come Legge Basaglia, Alberta l’annuncia con la parole ascoltate in una mitica trasmissione di quei tempi, TV7, direttamente dalla voce di Sergio Zavoli:
Nel novembre del 1962 l’équipe psichiatrica diretta dal professor Franco Basaglia, apre il primo reparto dell’ospedale e inaugura, anche in Italia, la comunità terapeutica.
E lievi come le nuvole, ci sono anche loro, i matti. Le pareti arancioni e blu del signor Velio, il signor Carletto in portineria e le signore brutte e grasse ma fresche di parrucchiere, fiere delle loro pettinature da casco e bigodino, la Desolina che ricamava immagini sacre, la Maria che stava silenziosa, quando era tranquilla, Ma anche la Romana di anni 11 e i tanti bambini dimenticati che Alberta troverà nel 1978, diventata grande e decisa, per la sua tesi di laurea, di setacciare cento anni di vita dell’ospedale, dal 1872 al 1972, per scoprire quanti bambini dimenticati in vita e in morte siano passati di lì, per farli uscire da quelle carte ammuffite e per leggere le loro storie. … Sempre invisibili, mischiati ai pazienti adulti. Ero decisa a farmi amici anche loro. Solo così avrei potuto controllare l’angoscia e guadagnarmi la forza di raccontarli.
Vedere di sghembo non è certo un impedimento, quando si decide di alzare i tappeti e mostrare la polvere che c’è sotto nascosta.
“Vede, la cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare”. Avrebbe detto così mio papà, un anno prima di morire, durante il giro di conferenze in Brasile; era il 28 giugno 1979.
Oggi, 2014.
C’è un passato che ritorna, leggendo le pagine di Alberta. Il mio passato con i “miei” matti, in quel parco che ancora domina la città.
A loro, a Franco, alla Franca e ad Alberta dedico uno dei primi successi di Davide Van De Sfroos e una serie di fotografie in attesa della libertà.
al suono di MANICOMI di Davide Van De Sfroos
Le tartarughe potrebbero raccontare … di Gibran
Le tartarughe
potrebbero raccontare,
delle strade,
più di quanto non potrebbero
le lepri
Kahlil Gibran, Sabbia e spuma, 1926
TartaRugosa ha letto e scritto di: GASTON BACHELARD (1975) La poetica dello spazio, Traduzione di Ettore Catalano, Edizione Dedalo Bari
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Gaston Bachelard (1975)
La poetica dello spazio
Traduzione di Ettore Catalano
Edizione Dedalo Bari
Il 2014 è anche la ricorrenza dei 130 anni dalla data di nascita di gaston Bachelard, a mio avviso il filosofo più affascinante e sorprendente del Novecento.
Ne parlo come ne fossi una grande esperta, in realtà non è così. Non ho mai affrontato i suoi testi scientifici che hanno caratterizzato la prima fase della sua vita (doppia laurea, prima in Matematica e poi in Filosofia), ma sono rimasta folgorata da quelli seguiti alla sua svolta di interesse, ovvero da quando ha iniziato a dedicarsi alla “poétique de la rèverie ”, intesa come situazione in cui l’individuo si abbandona alla propria immaginazione.
La rèverie (parola difficilmente traducibile nella lingua italiana: fantasticheria, sogno, immaginazione fantastica) si distingue dal sogno per il fatto che la coscienza dell’ io è attiva.
Le sue meditazioni coinvolgono i quattro elementi materiali fuoco, aria, acqua, terra, dalla cui concretezza possono derivare infinite immaginazioni oniriche e poetiche.
Bachelard diventa pertanto un simbolo della conciliazione fra ragione e immaginazione, fra scienza e poesia. Considerando l’immaginazione antecedente al pensiero, l’una è complementare all’altro e l’essere umano deva saperle distinguere e alternarle nel corso della propria vita, come si fa con il giorno (impegno diurno) e con la notte (l’intimo riposo del sognatore).
L’immagine poetica è sempre un po’ al di sopra del linguaggio significante. Il verso ha sempre un moto, è veicolo di espressioni di linguaggio, la parola parla. La poesia contiene una felicità qualunque sia il dramma che deve illuminare. … Il poeta crea immagini non vissute. Con la poesia vivi il non-vissuto
Da brava TartaRugosa, non potevo certo restare indifferente all’elemento che più mi appartiene: la terra, lo spazio, il luogo.
Per Bachelard vivere lo spazio significa sentirsi parte di esso, sentire la sua voce, il suo “battito”, il suo respiro. Lo spazio colto dall’immaginazione non può restare spazio indifferente.
E da questa riflessione inizia il suo viaggio alla ricerca dell’intimità degli spazi felici, primo fra tutti la casa.
Ricordandoci delle case e delle camere noi impariamo a dimorare in noi stessi. … La casa è il nostro angolo di mondo. E’ uno dei più potenti elementi di integrazione per i pensieri, i ricordi e i sogni dell’uomo. … Quando si sogna la casa natale, si partecipa al calore primordiale, al paradiso materiale. … Per conoscere l’intimità dobbiamo darle una localizzazione spaziale
Ed ecco quindi che Bachelard si addentra nella casa: Più la casa è complicata (corridoi, soffitti, angoli) più i nostri ricordi hanno rifugi sempre meglio caratterizzati.
I valori del “riparo” sono così profondamente radicati nell’inconscio che li si ritrova semplicemente evocandoli, piuttosto che descrivendoli.
Quando parlo per esempio della casa della mia infanzia, mi pongo in un’immaginazione sognante in cui mi riposo nel mio passato. Solo io posso evocare l’odore dell’uva che secca sul graticcio, al di là di qualsiasi descrizione approfondita.
Ci sono quindi forti connessioni con la propria autobiografia, poiché è questo il compito del poeta:
Il lettore che ‘legge una casa’, dischiude una porta alla reverie, poiché a un certo punto non leggerà più quella casa, ma rivedrà la sua, l’angolo dei suoi ricordi più preziosi.
Il filosofo descrive la “verticalità” della casa, dove il tetto rappresenta la razionalità (vedo il chiaro del cielo, la geometria delle travi del tetto, domino dall’alto), mentre la cantina rappresenta l’irrazionalità (il buio, la potenza del sotterraneo, la paura dell’oscurità).
Si inoltra poi all’interno della casa, soffermandosi in particolare su alcuni oggetti:
le cose che stanno nella casa, cassetti, armadi, cassapanche: quanta psicologia si cela dietro le loro serrature! Un cassetto chiuso non mostra immagini, può essere pensato: ma questo ci costringe a sua volta a creare immagini sul ‘pieno’ che crediamo di pensare.
Eccolo quindi paragonare a veri e propri organi della vita psicologica segreta: l’armadio con i ripiani, il secretaire con i cassetti, la cassapanca con il doppiofondo.
Nell’armadio vive un ordine che protegge tutta la casa da un disordine senza limiti.
Nel cofanetto si trovano le cose indimenticabili: la memoria dell’immemoriale.
Nei cassetti e nelle cassapanche si nascondono i segreti.
Prosegue poi con altre forme dell’abitare: il nido e il guscio: entrambi esigono che ci facciamo più piccoli, ma, in fondo, rannicchiarsi appartiene all’abitare intimo.
Il nido è l’immagine del riposo, della tranquillità. In genere si associa con la casa semplice.
Pur essendo precario, ci dà l’idea della sicurezza, perché è mimetizzato dal fogliame, non lo si vede a una prima occhiata, ben nascosto com’è fra il verde.
Così, contemplando il nido, giungiamo all’origine di una fiducia nel mondo, “un appello alla fiducia cosmica”.
La nostra casa, dice Bachelard, è un nido nel mondo.
L’esperienza dell’ostilità del mondo viene più tardi, quando usciamo dal nido.
Il guscio, invece racchiude sia la “durezza”, sia la “mollezza”.
L’immagine poetica è fortissima: “la vita inizia girandosi e non slanciandosi”. Il guscio viene formato a cerchi concentrici, se pensiamo a quello della chiocciola.
Inoltre, bisogna essere soli per poter abitare un guscio: si acconsente cioè alla solitudine.
Poteva mancare il guscio della tartaruga? Certo che no! Però in una chiave che ribalta completamente una certa visione del mondo, come è opportuno accada attraverso la reverie. Tutto parte da uno scritto di Giuseppe Ungaretti, che nelle pagine di un suo diario di viaggio commenta un’incisione vista nella casa del poeta Franz Hellens dove “un artista aveva espresso la rabbia del lupo che, gettatosi su una tartaruga ritrattasi nella sua corazza ossea, diventa pazzo per non poter saziare la propria fame”.
Non vorrei sembrare parziale o banale (Quelli che si abbandonano alla sonnolenza della funzione fabulatrice non sconvolgeranno il gioco delle vecchie immagini infantili, godranno senza dubbio del dispetto dell’animale malvagio e rideranno, di nascosto, con la tartaruga rientrata nel suo rifugio), ma in questo caso non ce la faccio proprio a condividere lo slancio dell’immaginazione prodotta nei pensieri di Bachelard. Nella sua costruzione fantasticata su questo episodio, infatti, propone questa immagine: Il lupo viene da lontano, è tutto magro e la lingua pende di rossa febbre. Improvvisamente esce da un cespuglio la tartaruga, pietanza ricercata da tutti i ghiottoni della terra. Con un balzo, il lupo è sulla preda, ma la tartaruga, cui la natura ha concesso una singolare velocità nel far rientrare nella sua casa testa, zampe e coda, è più svelta del lupo. Per l‘affamato lupo, essa è ormai solo una pietra sul sentiero.
Continua Bachelard, dopo aver dichiarato che pur non piacendogli i lupi, forse, per una volta, la tartaruga avrebbe dovuto lasciarlo fare: è necessario che il fenomenologo si racconti da sé la favola del lupo e della tartaruga, è necessario che egli innalzi il dramma al livello cosmico e mediti sulla-fame-nel-mondo … più semplicemente che il fenomenologo abbia, per un istante, viscere di lupo, davanti alla preda che diventa pietra.
Va poi oltre, Bachelarde dal guscio passa ad analizzare gli angoli, connotandoli alla caratteristica dell’immobilità (stare nell’angolo). Ma anche tale immagine può essere carica di poesia:
Leonardo da Vinci consigliava ai pittori in difetto di ispirazione, davanti alla natura, di guardare con occhio sognatore le fessure di un vecchio muro! Chi non ha visto la carta del nuovo continente in qualche linea che appare sul soffitto? Il poeta sa tutto questo, ma, per dire a suo modo che cosa sono questi universi creati dal caso, ai confini di un disegno e di una reverie, egli va ad abitarli trovando un angolo in cui fermarsi in quel mondo che è un soffitto screpolato.
Si sofferma poi sulla miniatura e sulla sua capacità di contenere in sé spazi sterminati. La rappresentazione miniaturizzata serve a comunicare agli altri le proprie immagini: io possiedo il mondo tanto meglio quanto più riesco a miniaturizzarlo. … Il grande viene fuori dal piccolo. La miniatura è una abitazione della grandezza.
Ma la reverie conduce anche all’immensità, ovvero fuori dal mondo circostante, nell’infinito, dove lo spazio si estende senza limite. Attraverso l’immensità i due spazi, quello dell’intimità e quello del mondo, diventano consonanti: Quando si approfondisce la grande solitudine dell’uomo, le due immensità si toccano e si confondono.
Naturalmente tutto quanto scritto è una visione parziale di ciò che mi ha affascinato e colpito.
La reverie poetica resta per me una grande creatrice di simboli, poiché partendo da immagini materiali arriva a dilatarle a dismisura, caricandole non solo di valori soggettivi, ma anche di risonanze universali e archetipiche.
Rincorre infine la dialettica del fuori e del dentro e della fenomenologia del rotondo e io mi lascio prendere da questa doppia reverie sull’immagine della Porta che dal dentro porta al fuori, e viceversa:
La porta è tutto un cosmo del Socchiuso. E’ almeno un’immagine principe, l’origine stessa di una reverie in cui si accumulano desideri e tentazioni, la tentazione di aprire l’essere nel suo intimo, il desiderio di conquistare tutti gli esseri reticenti. La porta schematizza due possibilità notevoli, che classificano nettamente due tipi di reverse. A volte, eccola ben chiusa, sbarrata con il paletto o col catenaccio: a volte eccola aperta, cioè spalancata. Ma giungono le ore dell’immaginazione più sensibile. Nelle notti di maggio, quando tante porte sono chiuse, ve ne è una appena socchiusa. Sarà sufficiente spingere con molta dolcezza! I cardini sono ben oliati. Si disegna allora un destino.
ALZHEIMER E CINEMA. TRE FILM PER SVILUPPARE RESILIENZA tratto da: Luciana Quaia (2012) Intime erranze Il familiare curante, l’Alzheimer, la resilienza autobiografica, Nodo Libri, Como
ALZHEIMER E CINEMA. TRE FILM PER SVILUPPARE RESILIENZA
Entrare in una sala cinematografica e lasciarsi immergere nel silenzio che scende quando le luci si spengono, mentre lo sguardo viene catturato dalle prime immagini in movimento e la potenza musicale avvolge l’udito, equivale ad entrare in un’altra dimensione.
In questo “andare altrove” offerto dal tempo della durata del film accadono delle cose: a fronte di esperienze artificiali (suoni, inquadrature, immagini, colori pensati e scelti dal regista) le immagini ci formano e ci trasformano perché esplorano, con storie verosimili e personaggi realistici, la totalità dell’esperienza del vivente e della sua perenne ricerca del senso della vita.
Il film, dunque, non è solo visione di sequenze di fotogrammi, ma diretta esperienza del rapporto esistente tra la nostra storia personale e la storia che ci viene raccontata.
La proiezione sullo schermo incarna così la nostra stessa identità, suscita emozioni, produce reazioni, crea collegamenti tra immaginario e reale.
La fusione che avviene tra realtà dello spettatore e realtà filmica, può influenzare il modo di pensare e di sentire dello spettatore, inducendo anche all’adozione di nuovi modelli comportamentali e riformulazione dei propri schemi mentali.
[ …] Il cinema ha attinto ampiamente praticamente da tutti gli aspetti possibili dell’esistenza. Non poteva quindi mancare l’appuntamento con la drammaticità della demenza, tema su cui la macchina narrativa sta producendo da anni parecchie opere.
Ho scelto questi tre film perché, a mio giudizio, possiedono notevole impatto emotivo e carattere formativo nel presentare personaggi e vicende assai simili, per concretezza e talvolta crudezza, alle situazioni relative alla cura e gestione del malato.
In talune scene poetiche non si scade mai nel sentimentalismo: il dolore rimane dolore, la perdita rimane perdita, ma le tre pellicole insegnano come l’eroe di turno possa acquisire la piena consapevolezza di che cos’è la sua vita e accettare la necessità del cambiamento, subendo quindi una positiva trasformazione.
La strada per Galveston (p. 157-164) presenta il prendersi cura del malato all’interno del domicilio.
Lontano da lei (p. 165-170) testimonia la complicata e tormentata decisione di delegare il processo di cura all’istituzione.
Una sconfinata giovinezza (p. 171-178) vive la storia d’amore di una coppia in balia dei ritorni di un passato che invalidano quelli del presente.
Il proponimento è, dopo la visione, staccarsi dall’influsso delle immagini in movimento per cercare le tracce affini alle storie degli spettatori, stimolandoli a uscire dal proprio nascondiglio e rivelare le assonanze scoperte con la loro storia attuale. Terminata l’oscillazione tra finzione e realtà, l’ancoraggio al gruppo per iniziare a raccontarsi ancora una volta produce scambio, crescita e sviluppo personale. Può essere la semplice verbalizzazione del ritorno sulle scene appena viste oppure un lavoro più accurato di scrittura per confrontare le prove affrontate sullo schermo con i propri comportamenti [… ]
TartaRugosa ha letto e scritto di: Graziella Bernabò (2012) Per troppa vita che ho nel sangue Antonia Pozzi e la sua poesia, Ancora Editrice, Milano
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Graziella Bernabò (2012)
Per troppa vita che ho nel sangue
Antonia Pozzi e la sua poesia
Ancora Editrice, Milano
E’ passato un anno e poco più dalla celebrazione del centenario della nascita di Antonia Pozzi (febbraio 1912). Questo libro giace sul mio tavolino dall’anno scorso, a conferma della proverbiale lentezza della mia specie.
Ma ora, in queste tetre e buie giornate invernali, è momento di riprenderlo in mano e rileggerlo con quel turbamento suscitato forse da un titolo così contradditorio “per troppa vita che ho nel sangue”, così lontano dall’idea che a soli 26 anni (3 dicembre 1938) Antonia abbia deciso di abbandonare la scena della vita.
D’altronde le biografie servono proprio a mettere in luce passaggi significativi per tentare di capire il mistero che ognuno di noi nasconde.
Spiegare le ragioni di un suicidio non è mai affare agevole. Scrive Bernabò: “Far dipendere la sua decisione finale semplicemente da una delusione amorosa significherebbe non capire la complessità e la profondità del suo dramma … Antonia avvertiva in sé una straordinaria energia vitale ed era portata ad esprimerla, nella vita come nell’arte, ma si accorgeva della difficoltà di viverla appieno in un universo raggelante”.
Per tentare di comprendere meglio occorre quindi contestualizzare l’epoca della sua esistenza e la cultura di quei tempi.
Antonia appartiene a una famiglia colta, raffinata e benestante: padre avvocato, madre contessa appassionata d’arte e di musica, nonno noto storico, nonna – nipote di Tommaso Grossi -vivace e sensibile, dai quali assorbe un appassionante e costante desiderio di apprendere. Accanto agli studi classici coltiva pertanto le sue passioni per la musica, il disegno, la scultura, le lingue straniere, gli sport del tennis, nuoto, equitazione, sci, alpinismo.
In particolare “l’amore per la montagna e le scalate non si risolse per Antonia in un semplice fatto sportivo, ma ebbe sempre un significato esistenziale profondo, fu cioè una ricerca, a volte anche ai limiti del sacrificio (aveva una debolezza congenita degli arti che le rendeva difficile arrampicarsi), di essenzialità, purezza e forza”.
Il suo luogo maggiormente amato è Pasturo, un piccolissimo paese ai piedi della Grigna “Quando dico che qui sono le mie radici non faccio solo un’immagine poetica. Perchè ad ogni ritorno fra questi muri, fra queste cose fedeli e uguali, di volta in volta ho deposto e chiarificato a me stessa i miei pensieri, i miei sentimenti più veri”. (Ed è proprio ai piedi delle sue mamme montagne che Antonia oggi riposa, secondo la sua volontà).
Apparentemente dunque la sua infanzia, costellata da figure parentali positive, è colorata di rosa. Ma Antonia ha troppa vita nel sangue e un padre che, pur agevolando ogni sua passione e aspirando a una sua emancipazione, resta controllore e censore di entusiasmi troppo accesi, “col comprensibile desiderio di proteggere dalla tempeste della vita una creatura tanto sensibile e vibrante qual era la figlia”.
La sua presenza decisionista si rivela in modo emblematico in occasione del giovanile innamoramento di Antonia verso Antonio Maria Cervi. Siamo nel 1927. Antonia frequenta la prima liceo e inizia a dedicarsi con assiduità alla poesia: “La poesia ha questo compito sublime di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare. La poesia è una catarsi del dolore, così come l’immensità della morte è una catarsi della vita”.
Rimane affascinata dal professore di greco e latino e dalla passione con cui trasmette i suoi saperi ai giovani allievi, curandosi della loro formazione e approfondendo la loro cultura persino con regali di libri di alto contenuto a chi raggiungeva risultati brillanti. La sua natura evidentemente ha molte affinità con quella di Antonia (amore per la conoscenza, la poesia, l’arte, il bene, il bello). Questo fascino diventa presto amore, fortemente ostacolato dal padre “un uomo ambizioso come lui non avrebbe potuto aderire facilmente a un matrimonio non particolarmente prestigioso dell’unica figlia … le ragioni della sua opposizione erano prima di tutto la forte differenza di età e il fatto che Antonio Maria Cervi era meridionale e in quanto tale poco accetto alla buona società milanese degli anni Trenta”.
Il professor Cervi, di alta integrità morale, fu sempre estremamente corretto nei rapporti che ebbe con le sue allieve e anche quando si legò maggiormente ad Antonia, il suo sentimento rimase in gran parte quello di fratello maggiore, piuttosto che di amante. “Forse, a causa delle notevole differenza di età e di educazione, il suo affetto per lei acquistava alcune connotazioni paterne e tradizionaliste, che lo spingevano a trascurare il valore della passionalità e, più in generale, dell’emozionalità femminile di lei”.
Nel 1930 Antonia frequenta presso la Regia Università di Milano la facoltà di lettere e filosofia dove incontra maestri illustri e frequenta nuove importanti amicizie, fra cui Remo Cantoni, Dino Formaggio, Vittorio Sereni. Di questo periodo sono numerose le poesie dove Antonia racconta la sua travagliata storia d’amore che esplode drammaticamente nel 1931. In quell’estate infatti Antonia viene mandata dal padre in Inghilterra con la scusa di migliorare la conoscenza della lingua inglese, ma in realtà per essere allontanata dal professor Cervi che, offeso dal comportamento dimostrato nei suoi confronti, non incoraggia certamente la prosecuzione di quel rapporto. “Entrambi gli uomini della vita di Antonia, il padre e l’amato, rientravano in fondo in uno stesso sistema rigidamente patriarcale (tipico dell’Italia dell’epoca) che voleva ricondurla a una sorta di ordine: quello della figlia emancipata, ma ligia ai doveri del suo rango sociale, nel caso del padre; quello della sposa-madre portatrice di valori tradizionali nel caso di Cervi, con l’aggiunta, oltre tutto, dell’idea di una maternità di Antonia che gli restituisse il fratello morto Annunzio….Antonia andò incontro a una terribile crisi pur di non venir meno ai doveri verso di loro e per cercare di conciliarli, con il risultato di scontentare entrambi e di esaurire le proprie energie. … Ecco che allora i suoi veri e complessi desideri, le sue autentiche parole erano destinate a restare soffocate, e si delineava in lei l’idea della morte come restitutrice di serenità. Soltanto nella poesia poteva esplodere il suo desiderio di autenticità e di una libera ricerca di sé”.
Gli anni 1934 e 1935 sono riempiti da viaggi (Sicilia, Grecia, Africa mediterranea, Austria, Germania) e dalla scrittura della tesi su Flaubert.
La relazione con Cervi è definitivamente tramontata, pur lasciando ampia traccia nel poetare di Antonia.
Il lavoro sulla tesi e l’influenza di Banfi spingono Antonia ad accarezzare il progetto di passare dalla poesia alla prosa: “L’idea di per sé non sarebbe stata strana, conteneva anzi una progettualità interessante che avrebbe fatto capolino nelle ultime composizioni di Antonia, decisamente aperte al sociale; ma diventava negativa in quanto l’autrice, a causa dei giudizi negativi sui suoi versi ricevuti da Banfi e da Paci, viveva la sua vocazione poetica con una sorta di senso di colpa e si sentiva quasi delegittimata nel coltivarla … Tuttavia continuava a perdere energia, illudendosi di potersi volgere disinvoltamente alla prosa realistica, il che non le era molto congeniale e, forse, contribuì a deprimerla. Certo era ben lontana dal sospettare di essere giunta nella poesia a esiti di grande originalità. Solo molto più tardi tali risultati sarebbero stati valorizzati fino in fondo come fervida testimonianza di un momento particolarmente inquieto della cultura italiana ed europea e, nello stesso tempo, di un’autonoma voce di donna in un contesto intellettuale per il resto sostanzialmente maschile”.
Le sue poesie del 1935 mostrano una nuova illusione amorosa con Remo Cantoni e il mancato riconoscimento della sua poesia da parte dell’ambiente banfiano.
Forse per questo motivo nell’anno successivo, 1936, la produzione poetica cala e Antonia cerca una nuova ricostruzione di sé dedicandosi con intensità allo studio, allo sport, ai viaggi. Diventa anche più sistematico il gusto per la fotografia che “la porta a ricercare una solidità dell’esistente, e a ricercarla in un mondo semplice, contadino o montano che sia; essa diventa una forma di relazione affettiva col mondo nella quale Antonia esprime insieme l’angoscia-fascino della morte e l’amore per la vita”.
Il 1937 vede l’affacciarsi di una nuova amicizia con Dino Formaggio, grazie al quale Antonia scopre il quartiere operaio di Piazzale Corvetto. La sua poesia attraversa una nuova stagione “più complessa e originale, con una più ampia apertura alla realtà storica e sociale del suo tempo … un’apertura per lei dolorosa, a causa del contatto con un mondo di grande miseria e desolazione, ma in parte anche vitale, perché consona al suo essere più profondo, proteso fervidamente verso gli altri e verso una concreta realizzazione di sé nella vita pratica”.
E questa vitalità sembra accompagnarla nella progettazione dei nuovi impegni: ottiene una cattedra per l’insegnamento di materie letterarie presso l’Istituto Tecnico Schiaparelli, intraprende azioni di impegno sociale a favore dei poveri in compagnia dell’amica Lucia, intensifica la sua attività fotografica che andava di pari passo con la sua nuova ispirazione realistica.
Ma sono di quei tempi anche il progredire della violenza razzista di Mussolini e del regime fascista oramai allineati sulle posizioni della Germania nazista. Nel novembre 1938 circa cento professori ebrei furono allontanati dalle università italiane.
“Antonia doveva sentirsi sempre più estranea all’ambiente familiare e, nello stesso tempo poco capita, per la sua collocazione sociale, dai compagni. Si affezionò ancora più a Dino. Scambiò forse l’estroversione e la cordialità dell’amico per qualcosa di più intenso, e ricominciò a sognare un avvenire di sposa e di madre”. Desiderio anche questa volta disatteso da Dino, il quale accettava null’altro che un forte rapporto di amicizia.
Questo è il quadro di quei tempi: lo scandire del trascorrere degli anni e la storia del primo Novecento è significativo per allargare lo sguardo sui disagi esistenziali di una donna e di un’epoca.
Sintetizza Bernabò a proposito della personalità di Antonia: “Certo una forte inquietudine, congiunta con un senso di insicurezza e, a volte, di inferiorità rispetto alla disinvoltura, reale o apparente, da lei percepita negli altri; un evidente desiderio di conferme affettive esterne, che la portava a caricare i rapporti privilegiati di forti aspettative, con una conseguente facilità alle delusioni e a uno spiccato senso di abbandono, una frequente tendenza al sogno; una sensibilità fuori del comune, che la spingeva ad assorbire la sofferenza umana e a farsene carico, vivendola frequentemente con un senso di colpa per la propria appartenenza sociale elevata. … La sensibilissima Antonia doveva sentirsi stretta tra l’aspirazione a un protagonismo culturale e letterario e il desiderio, invece, di una vita più semplice, all’insegna di quel sogno di felicità domestica che in quell’epoca pareva inevitabilmente connessa con il destino femminile…. Aspirava a esistere intera in un mondo che invece la voleva restringere nel ruolo tradizionale della ragazza della buona società … oppure la accettava solo in quanto mera ripetitrice di una cultura che, per quanto aperta e moderna rispetto ai tempi, le precludeva un’autentica emozionalità di donna e una vera espressione personale”.
Per troppa vita che ho nel sangue
tremo
nel vasto inverno
La potenzialità umana e artistica di Antonia, di straordinaria intensità, non trovando al suo manifestarsi un adeguato riconoscimento diventa probabilmente una delle cause della sua tragedia esistenziale, come se quella troppa vita implodesse dentro di lei, svuotandola e portandola a cercare nel vasto inverno un’altra felicità.
Giovanni Starace (2013) Gli oggetti e la vita, Donzelli Editore. Presentazione di TartaRugosa
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Giovanni Starace (2013), Gli oggetti e la vita, Donzelli Editore
Che io ami la casa è superfluo ricordarlo, giacché me la porto sempre appresso. In questo periodo dell’anno, quando il silenzio attorno si fa greve, è piacevole fare l’inventario delle cose che riempiono la mia dimora.
Amo gli oggetti, amo la casa. Istintivamente questi “esterni” li ho sempre percepiti in perfetta continuità con il mio “interno”, scoprendo molto tempo dopo che “nel percorso evolutivo, gli oggetti svolgono un ruolo primario e disegnano una fenomenologia dell’età con la loro presenza nella vita della persona. Oggetti significanti lungo tutto il percorso di vita sono parte integrante della strutturazione del sé e del mantenimento di un suo assetto sano”.
Nella memoria gli oggetti si fissano non tanto per ciò che sono, quanto per ciò che rappresentano, o hanno rappresentato, in un momento particolare della vita.
Se rispolvero i primi ricordi ci trovo sicuramente pezzi che ora sono scomparsi, come per esempio l’orso bianco e nero che in alcune foto appare alto quanto me (a un anno è facile stabilire queste proporzioni) e del quale a un certo punto si è smarrita la traccia, probabilmente a causa di un intervento sleale di mamma e papà. Ha resistito invece un altro orsacchiottino, Gigetto, che sta nel palmo di una mano e risale ad un acquisto fatto alla fiera degli Obei Obei in una fase dolorosa della vita. A scoppio ritardato, come la psicologia insegna, può ricomparire l’oggetto transazionale: “E’ così quando il bambino sceglie un oggetto specifico per averlo sempre con sé, per raggiungere l’illusione di una presenza materna continuativa. Questi oggetti, definiti da Winnicott transizionali, sono generalmente morbidi e piccoli come un peluche, una copertina, un fazzoletto… Si collocano all’interno di quella esperienza di illusione creativa che rende possibile l’accettazione progressiva della realtà nei suoi caratteri specifici”.
Non è detto che la funzione transizionale si esaurisca esclusivamente con un oggetto specifico. Talvolta anche la manipolazione della materia ottiene lo stesso effetto riparativo del Sé: creare dal nulla un manufatto con le proprie mani o prendersi cura in modo esorbitante di un dato oggetto possono lenire una psiche dolorante: “la cura di essi si sostituisce alla cura di un sé precario e ferito con un beneficio inusitato: si evita un contatto diretto con il dolore mediante un’azione lieve e costruttiva … il contatto con parti meno evolute del sé, incontrate nell’oggetto su cui sono state proiettate, possono essere elaborate con maggiore facilità, poiché in questa trasformazione hanno perso i loro aspetti più aspri”.
Ma gli oggetti sono anche altro: una certezza di continuità dell’esperienza in uno spazio che improvvisamente deve mutare; un segnale che evidenzia il passaggio da un’età all’altra; un racconto della relazione fra lo spazio occupato e chi li possiede: “alcuni passaggi della vita hanno bisogno di essere accompagnati da una nuova disposizione dei luoghi in cui si abita. Sembra difficile poter raggiungere il cambiamento senza aver creato contemporaneamente un habitat che rispecchi lo stato emotivo del momento, i sentimenti prevalenti di quella fase della vita”.
E’ forse questo il motivo per cui è sempre così difficile liberarsi dalle cose quando si cambia luogo di vita. E’ come gettare via una parte di sé, è come ricostruire un’identità nuova e non è casuale che molti disturbi psicopatologici emergano proprio in occasione di un trasloco.
Così come nel caso di elaborazione del lutto. Accade talvolta che chi rimane non riesca a svuotare la casa rimasta priva del suo abitante e, contemporaneamente, desideri che gli oggetti ivi contenuti permangano nello stesso ordine in cui il residente li aveva disposti. In questo caso si parla di lutto complicato, come se il sopravvissuto cercasse di “mantenere in vita il legame con una persona cara, per proteggere l’integrità della memoria, forse anche mantenere vivi frammenti della persona scomparsa. … La conservazione irrinunciabile della totalità degli oggetti nasconde una fragilità oltre che un rapporto irrisolto con la persona cara che è morta. Una relazione che appare imbalsamata insieme alle cose, incapace di svincolarsi da un contatto costante con esse. In questi casi il rapporto con gli oggetti assume il tono dell’immutabilità, dell’inamovibilità; segno di un’identità ancorata a quelle cose e mai distaccata da loro. Gli oggetti appaiono come frammenti sparsi di un sé che cerca strenuamente di restare integro e sempre uguale a se stesso”.
Considerando la permanenza di certi oggetti nella propria abitazione, possiamo affermare che è proprio l’esperienza del lutto a dare parola alle cose, a stimolare una loro venerazione, a conservarle senza una ragione apparente, come se chi, ritrovandosi a contatto con un bene ereditato, dovesse entrare nello spazio di colui che un tempo ne era proprietario e lentamente lo assumesse come proprio. Con la convinzione, però, che proprio quegli oggetti entrati improvvisamente nella nostra vita, siano liberi di costruirsi una nuova storia: “le cose sono lì, ci guardano e ci dicono che sono, indipendentemente da noi, vivono di per sé. E’ vero, le possiamo manipolare, nascondere, rompere, abbellire, ma loro sono altro da quello che vogliamo da loro stesse. Sono la testimonianza più evidente della limitatezza umana, attaccano la nostra onnipotenza”.
Su questo tema, oggetto con identità propria, Starace approfondisce con un ragionamento sociologico relativo al clima culturale della modernità, mettendo in risalto il rischio che un oggetto diventi un’entità priva di coerenza a causa del fenomeno consumistico. “La produzione di massa ha reciso il legame tra gli oggetti e la loro singolarità, in quanto oggetti unici. Sono diventati tutte copie e l’originale si è disperso in esse. … Se durante i secoli passati le generazioni si succedevano in un ambiente statico di oggetti che sopravvivevano loro, oggi sono le generazioni di oggetti che succedono a un ritmo accelerato nell’ambito di una stessa esistenza individuale. Sono posseduti prima di essere guadagnati, precedono la somma di sforzi e di lavoro necessari al loro uso: secondo una stringente logica consumistica, il godimento anticipa la produzione delle risorse necessarie alla sua realizzazione”.
Ecco quindi che gli oggetti, dotati di una vita propria, usano l’individuo per moltiplicarsi e diffondersi, privando il soggetto di entrare in relazione con i propri effettivi bisogni e costringendolo a consumare a velocità vertiginosa. Si viene quindi a perdere la loro capacità di essere integrati nell’attività psicologica: “gli oggetti transizionali perdono il loro significato profondo per diventare degli oggetti-cose che vivono in nome della loro semplice materialità e sono avulsi da un contatto significativo con la persona”.
Non è facile resistere ad una cultura dominante che propone un sistema di “merci a perdere” da consumare velocemente, dove “il valore dell’oggetto segue le oscillazioni dell’autostima della persona: oggetti potenti soggetti potenti, oggetti svalutati persone svalutate, sempre secondo una logica dell’apparenza e della finzione”.
Forse quello che potrebbe venirci in aiuto per ripristinare un rapporto affettivo con le cose è il sentimento della nostalgia per quella “materia significativa portatrice di reverie: forme che ci fanno toccare il passato, momenti particolari della vita, eventi esclusivi, luoghi domestici, quotidiani, sensazioni irrepetibili … possibilità di vagare nella mente, nella memoria e nel tempo senza necessità alcuna, nel piacere di un ricordo e nel vissuto di qualcosa che è andato, ma che è ancora possibile condividere con altri. Racconto e memoria che si fanno profumo e odore, che entrano nel corpo nel momento in cui l’oggetto viene nominato”.
Guardo l’interno della mia calda tana e sono contenta dell’inverno che sta per arrivare.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Stephen Emmott (2013), Feltrinelli Dieci miliardi. Il mondo dei nostri figli Traduzione di Bruno Amato
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Stephen Emmott (2013), Feltrinelli
Dieci miliardi. Il mondo dei nostri figli
Traduzione di Bruno Amato
In fondo si potrebbe dire che è solo una questione di numeri.
Tanti: nel titolo, nelle date, nelle fotografie, nei grafici.
Emmott sa come gestirli: è uno scienziato che dirige il dipartimento di Scienze computazionali alla Microsoft e insegna la stessa disciplina all’Università di Oxford. Conduce ricerche su sistema complessi, clima ed ecosistemi, e sull’impatto esercitato dagli umani sul proprio suolo.
Nel 2012 il suo monologo teatrale 10 Billions riscuote un successo enorme. Da lì nasce questo libro.
Per chi come me si appresta al riposo invernale, direi che è una lettura che non concilia affatto il sonno, ma lo turba, lo disturba, lo ritarda.
Parla della razza umana, del suo sviluppo e della sua casa, la Terra.
Nel grafico Popolazione mondiale, una curva mostra la crescita dal 10.000 a.C. al 2010: “Appena diecimila anni fa eravamo solo un milione. Nel 1800, poco più di duecento anni fa, eravamo un miliardo. Nel 1960, cinquant’anni fa, eravamo tre miliardi. Oggi siamo sette miliardi. Nel 2050, i vostri figli e i figli dei vostri figli vivranno su un pianeta con almeno nove miliardi di altre persone. E, verso la fine di questo secolo, saremo almeno dieci miliardi. Forse di più”.
Emmott spiega gli eventi che hanno aiutato ad arrivare al punto in cui siamo:
- la rivoluzione agricola (quattro per l’esattezza, la prima con l’addomesticamento degli animali, la seconda con la selezione di piante e specie vegetali, la terza con la meccanizzazione della produzione alimentare, la quarta, odierna, con la rivoluzione verde);
- la rivoluzione industriale grazie alla quale il mondo veniva trasformato dalla pratica manifatturiera, dall’innovazione tecnologica, da nuovi processi industriali, dai mezzi di trasporto e la dipendenza da carbone, petroli e gas come principali fonti di energia;
- la rivoluzione alimentare determinata da un aumento sempre maggiore della popolazione che dal 1960 ha avviato la rivoluzione verde.
I mezzi per avere più cibo che sono stati intrapresi nel corso del tempo:
– l’uso su scala industriale di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti chimici
– un’espansione senza precedenti nello sfruttamento del suolo
– l’industrializzazione totale dell’intero sistema di produzione alimentare
I risultati derivati all’ambiente:
– perdita di habitat naturali
– inquinamento
– sfruttamento intensivo della pesca
– rapida estinzione di moltissime specie
– degrado di interi ecosistemi
– scarsità dell’acqua
Dà spazio anche a qualche numero a proposito di trasporto, utilizzato per spostare avanti e indietro per il mondo tutto ciò che compriamo, mangiamo, le materie prime e le risorse necessarie a fare ogni cosa:
nel 1960 circolavano 100 milioni di automobili sulle strade del mondo – nel 1980 erano 300 milioni. Nel 1960 si muovevano 100 miliardi di passeggeri per chilometro. Nel 1980 erano 1000 miliardi.
Il numero totale dei veicoli prodotti supererà i 2 miliardi nel 2013.
Quest’anno voleremo per 6000 miliardi di chilometri e saranno spediti in giro per il mondo qualcosa come 500 milioni di container di roba che consumeremo noi. Mediamente un volo sulla lunga distanza impiega circa cento tonnellate di carburante.
Non sorprenderà il fatto che la produzione automobilistica globale, il traffico aereo e il movimento merci siano tutti destinati a crescere in misura consistente nel corso di questo secolo. Le autovetture saranno almeno il triplo di quelle prodotte nel secolo scorso e i settori del trasporto merci e delle linee aeree sono destinati a espandersi.
La crescita a ritmo sbalorditivo della popolazione umana e di tutti i sistemi di interconnessione legati a questo fenomeno stanno provocando un’emergenza planetaria senza precedenti.
Esaminiamo solo alcuni aspetti che già da soli sarebbero più che sufficienti a far scattare qualcosa di più che una riflessione.
Scrive Emmott che “oggi il 40 percento dell’intera superficie del pianeta è utilizzato per l’agricoltura. La restante superficie comprende l’Artide e l’Antartide; il Sahara e vasti tratti dell’Australia non utilizzabili per l’agricoltura, così come la Siberia e altre zone di tundra; i luoghi in cui viviamo; aree protette; giacimenti utilizzati per l’estrazione delle risorse finite della Terra; foreste utilizzate per la produzione di legname. Attenzione: la domanda di cibo e quindi di terra coltivabile è destinata almeno a raddoppiare entro il 2050. Che sia questo uno dei motivi dell’accaparramento di terreni da parte di governi, grandi imprese, hedge fund e istituzioni dai confini spesso poco chiari?”
Ma andiamo oltre.
“Sfruttamento del suolo ed emissioni inquinanti stanno provocando una significativa perdita di popolazione tra le specie: l’attività umana sta provocando la più grande estinzione di massa sulla Terra dopo l’evento che 65 milioni di anni fa spazzò via i dinosauri.
Ma la perdita più importante è quella della biodiversità e, di conseguenza, l’alterazione del funzionamento dell’ecosistema e di molte funzioni vitali del pianeta. In breve, con l’aumento della popolazione e con la crescita delle economie lo stress sull’intero sistema si aggrava nettamente. E’ questo il punto in cui ci troviamo adesso”.
Acqua:
La siccità del 2008 in Australia, quelle della Russia e dell’Europa orientale del 2010 e quella del 2012 negli Stati Uniti, hanno causato perdite tra il 20 e il 40 percento dell’intero raccolto di grano e mais.
Una percentuale incredibile – il 70 percento – dell’acqua dolce disponibile sulla Terra viene oggi utilizzata per l’irrigazione agricola.
Più di un miliardo di persone vive in condizioni di estrema scarsità d’acqua.
Suolo:
La domanda di terra per uso alimentare è destinata a triplicare entro la fine del secolo.
Ciò vuol dire che le spinte ad abbattere molte delle rimanenti foreste tropicali – le foreste pluviali – per assoggettarle all’uso umano si intensificheranno di decennio in decennio.
Nel 2050 il 70 percento di noi vivrà in città. Vale la pena di ricordare che delle 19 città brasiliane che negli ultimi dieci anni hanno raddoppiato la loro popolazione, dice si trovano in Amazzonia.
Ne consegue che la produttività alimentare è destinata a declinare, per via del mutamento climatico (già ci sono insolite ondate di caldo, siccità, inondazioni), del degrado del suolo, della desertificazione, dello stress idrico.
Ricorda Emmott: “nel corso dell’ondata di caldo verificatasi nel 2010 in Russia, il governo del paese aveva bloccato le esportazioni di grano, provocando il caos nei mercati delle derrate, un’impennata senza precedenti nei prezzi dei beni alimentari e, di conseguenza, diffusi tumulti per il cibo in Asia e in Africa, tumulti che sfociavano nella violenza di quella che oggi chiamiamo “Primavera araba”.
Milioni di persone provenienti da paesi non più abitabili, o che non dispongono di acqua e cibo sufficienti, o che sono teatro di conflitti per il possesso di risorse naturali sempre più preziose origineranno stati militarizzati.
Chiunque non si accorga che questo scenario globale ha tutte le carte in regola per scatenare un conflitto civile internazionale si sta illudendo. Non è un caso che tutti i convegni scientifici sul cambiamento climatico cui partecipo hanno di fatto un nuovo tipo di platea: i militari”.
E come non essere quindi d’accordo con la sua affermazione:
“Comunque lo si guardi, un pianeta di dieci miliardi di abitanti è uno scenario da incubo”.
Emmott non ha alcuna fiducia sull’ottimista razionale, ovvero colui che sostiene che le previsioni catastrofiche del passato si sono rivelate errate e che la nostra creatività e intelligenza ha sempre permesso di tecnologizzare una via d’uscita dal problema. E non tanto perché le ipotesi percorribili siano totalmente impraticabili, quanto perché nessuno ci si sta impegnando in un momento in cui è già troppo tardi:
“Certo l’ottica dell’ottimista razionale è che siamo così intelligenti e inventivi da poterci permettere di non preoccuparci: inventeremo di sicuro un modo per cavarci dalla brutta situazione in cui ci troviamo adesso. E – io stesso devo confessarlo – è fortissima la tentazione di credere in un’idea così attraente. Ma è un enorme salto nel buio della fantasia.”
E quindi? Quindi modificare il comportamento, cosa apparentemente semplice ma che nessuno ha voglia di fare, a partire dalla contraccezione.
“Potremmo cambiare la situazione in cui ci troviamo. Probabilmente non è possibile farlo tecnologizzando la via d’uscita, ma solo trasformando radicalmente il nostro comportamento. Nulla però indica che questo stia accadendo, o che stia per accadere. Penso che le cose andranno avanti come se nulla fosse.
Abbiamo un urgente bisogno di fare – e voglio dire fare concretamente – qualcosa di radicale per sventare una catastrofe globale. Ma non penso che lo faremo.
Quello che penso è che siamo fottuti”.
Fra pochi giorni è il 2 novembre. Spero di risvegliarmi nella prossima primavera.
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TartaRugosa ha letto e scritto di: Franco Arminio (2011), Terracarne Mondadori, Milano
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Franco Arminio (2011)
Terracarne
Mondadori, Milano
I miei giri diventano sempre più circoscritti.
La zona della tana è già stata individuata e non mi fido a lasciare incustodito per troppo tempo quell’invitante giaciglio intiepidito dai raggi pomeridiani di un settembre generoso di luce e calore.
Nonostante la mitezza della temperatura e l’abbondante vegetazione colorata dai frutti maturi, sento l’avvicinarsi del tempo del silenzio e del riposo. Cerco le parole custodi del mio scivolare nel sonno in una scrittura densa, struggente, nostalgica, così vicina allo stato d’animo scatenato dal necessario temporaneo congedo dal luogo che amo.
Terracarne è già un titolo che fa intuire la comunione totale del corpo con la terra, e questo annuncio solletica l’attesa del lungo abbraccio che mi cullerà nei prossimi mesi. Nell’imminente immobilità causata dal freddo del Nord, un libro che parla di spostamenti intorno ai paesi invisibili e ai paesi giganti del Sud dell’Italia è una tentazione cui non so resistere, pungolata dalla visione della mappatura geografica che orienta il mio andare e dalla certezza che questo viaggio sia in realtà perno su cui avvolgere pensieri e riflessioni sulla ricerca proprio di quei luoghi che sempre inseguono i nostri sogni infranti.
Franco Arminio cerca di tratteggiare lo spirito del suo vagare con lo splendido termine di paesologo, una professione conosciuta a ben pochi e che trova nelle sue pagine sfumature di definizioni appena delineate: “La paesologia è semplicemente la scrittura che viene dopo aver bagnato il corpo nella luce di un luogo … Il paesologo va nei paesi a pescare lo sconforto e si ritrova tra le mani un poco di beatitudine: può essere uno scalino, una casa nuova o antica, può essere la visione di un castello o di un albero di noci, può essere una piazza vuota o un vicolo col ronzio di un televisore. Si va nei luoghi più sperduti e affranti e si trova qualcosa, ci si riempie perché il mondo ha più senso dov’è più vuoto, il mondo è sopportabile solo nelle sue fessure, negli spazi trascurati, nei luoghi dove il rullo del consumare e del produrre ha trovato qualche sasso che non si lascia sbriciolare … non basta attraversare un luogo, ci vuole che il luogo ti attraversi”.
Che cosa cerca Arminio in questo suo interminabile transitare tra i paesi del Sud? Un Sud che scopriamo a intermittenza congelato tra il ricordo di una geografia originaria disegnata dal moto perpetuo e lo scontro con l’insulto di un divenire ributtante, perché di quella terra nulla rispetta. Il ritratto paesaggistico del Mezzogiorno d’Italia è di un realismo spietato, ma la voce narrante è quella di un poeta che sa come guidarci fra terre ancora intatte nella loro primigenia bellezza per poi scaraventarci analogamente negli scempi della cosiddetta modernità, basata sul più bieco sfruttamento della cultura locale.
Non esistono mezzi termini nel suo citare Salvemini: “Cento anni fa Gaetano Salvemini scriveva: Nel Mezzogiorno d’Italia la potenza sociale, politica, morale della piccola borghesia intellettuale è assai più grande e più malefica che nel Nord. … Essi non vedono nella vita se non un gioco di protezioni, uno scontrarsi di influenze più o meno efficaci, un prevalere di simpatie o antipatie capricciose. Per essi non esiste alcuna scala di valori morali obiettivi. Il merito consiste nell’avere un protettore potente. Sarebbero capaci di presentarsi innanzi a un possibile patrono in ginocchio, strisciando la lingua per terra”.
E allora dove si spinge la ricerca, se poi alla fine non è la politica, il progresso, la ricostruzione, ma la gente stessa artefice delle proprie rovine? “L’Irpinia che è venuta dopo il terremoto, quella che c’è adesso, è una terra stuprata in molti punti, una terra che a viverci dentro ogni giorno ti dà tanto dolore, ma pure un soffio incerto di lietezza. Non starò a dire ancora una volta degli errori e degli orrori della ricostruzione, del grande abbaglio di portare le industrie in montagna, dell’illusione che fare tante case avrebbe dato più vita ai paesi. …Le colpe delle classi dirigenti di allora, che poi sono le stesse di adesso, sono evidenti. Non si possono tacere, tuttavia, anche le colpe di gran parte della popolazione, che fu tanto ansiosa allora di partecipare alla spartizione del bottino. … Nuovi sono gli intonaci, le vernici, ma il malanimo di questa terra è ancora qui, la diffidenza e il rancore restano il nostro marchio di fabbrica, unitamente al vittimismo e all’accidia.”
Arminio sa qual è l’affanno della sua rincorsa: “Il Sud che cerco è annidato nei paesi più sperduti, il Sud che resiste dove c’è poca gente, dove ci sono alberi, erbacce, cardi, il Sud che vive ancora solo dove è più dimesso, il Sud che non crede alla pagliacciata del progresso, il Sud dei cani randagi, dei vecchi seduti sulle scale, delle case di pietra incollate in lunghe fila che si attorcigliano. Il Sud che amo ha più di ottant’anni e rughe non lisciate, è una tribù di reumi e bastoni, è ugualmente lontano dall’Europa e dall’Africa, è una terra di magie arrangiate, di cimiteri sempre ampliati, di piazze livide e rancorose. Io voglio frugare tutta la vita in questo Sud fino a quando scompare, voglio restare tutta la vita dentro i suoi paesi rotti e malandati. Sono un guardiano della più solitaria disperazione. Sono vivo nei paesi invernali quando passa un funerale, sono vivo quando nevica e nei giorni più ventosi, nelle case dove i ragni fanno i nidi nelle damigiane, nel bar degli scapoli…. L’Italia che amo è quella che non sa niente di sé, che non si sente ricca né povera, che non si vanta e non si lamenta, un’Italia che appare a lampi su strade periferiche, un’Italia rimasta viva per sbaglio, per le amnesie della politica, per i mancamenti del progresso”.
E’ l’affanno di svelare un genius loci imbavagliato, impaurito, offuscato da strati di finta civilizzazione: “Mi sembra che il mondo lo abbiamo svuotato a furia di riempirlo. Mi sembra che le nostre giornate siano una trafila affannosa nella scontentezza. Siamo scontenti nel tempo libero e quando lavoriamo, siamo scontenti quando il nostro amore è corrisposto e anche quando non lo è. Siamo scontenti quando gli altri ci ignorano e quando si occupano di noi. Forse il problema sta nel fatto che siamo troppi. Forse la vita ha un suo tetto di intensità prestabilito. La felicità che si poteva spartire un milione di uomini è la stessa che adesso si debbono spartire un miliardo di uomini. Il nostro sfiatamento sta tutto nell’aver invaso il pianeta con la nostra presenza”.
Mentre leggo tremo e scavo. Esagerato dire che lo faccio per orgoglio, per rivoluzione, per utopia o, forse, per paura. Semplicemente scavo per sentire la terra che diventa parte di me ed io parte di lei, condividendone, per il periodo del sonno, lo spazio dello stesso punto di vista di un paesaggio perduto.
“La società è basata su un diluvio di bugie, si rimane insieme per diplomazia. I luoghi non ci corrispondono e noi non corrispondiamo ai luoghi, le vicinanze sono sempre precarie, un colpo di vento le fa saltare. Si parla tanto di comunità, ma a malapena riusciamo a contenerci in noi stessi. … Solo quando il filo si spezza ci accorgiamo che in fondo qualcosa di quello che stiamo facendo ha un senso. Ci accorgiamo che il segreto è il semplice stare da qualche parte, con quello che c’è, perché è sempre tanto, una collina, un albero. Tendiamo a posare su tutto i teloni dell’abitudine, però un colpo secco a volte viene da sotto e ci scompiglia, e allora vediamo che tutto è appoggiato provvisoriamente sulla tavola del mondo. …Bisogna soffiare nelle nostre visioni come se fossero piume. E così pure nella nostra carne. Io vivo così, a metà tra me stesso e il paesaggio, vivo nel mio respiro e nel respiro della terra.”
TartaRugosa ha letto e scritto di: Silvia Bonino (2012) Il mio giardino semplice, De Vecchi Editore
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Silvia Bonino, 2012
Il mio giardino semplice
De Vecchi Editore
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Noi tartarughe siamo semplici e ostinate. Sarà forse dovuto al fatto che metà del nostro tempo lo trascorriamo in ozio meditativo, riportando alla memoria quanto osservato nella vita trascorsa sopra, anziché sotto, le radici. E quest’anno molti sono stati gli accadimenti da ri-analizzare: ci vogliono anche gli strumenti appositi e sicuramente la visione del giardino fornita dagli occhi di una psicologa aiuta a districarsi nel corso degli stravolgimenti atmosferici.
Che come tartaruga potrei avere molto da raccontare a livello autobiografico, risalendo alla storia dei miei avi vissuti in epocali ere geologiche … ma il tempo a disposizione è quello che è, per cui diventa molto più interessante assistere alle manovre difensive dei miei amici umani e immagazzinare i consigli di Silvia Bonino.
Il suo libro, infatti, è stato pensato e realizzato per il pubblico infantile, quindi non solo i suggerimenti sono lineari e abbordabili anche dal mio rudimentale cervello, ma ciò che accompagna l’intera spiegazione è l’intenzione educativa che dovrebbe giungere all’essere umano sin dalla più tenera età grazie al rapporto con i vegetali.
“Le mie conoscenze di psicologia infantile unite alla personale esperienza di giardinaggio mi hanno convinta della necessità di coinvolgere direttamente bambini e adolescenti nella coltivazione delle piante. Si tratta infatti non solo di accostare i soggetti più giovani alla natura, di ampliare la loro conoscenza scientifica del mondo vegetale, di aiutarli ad apprezzarne la bellezza e il valore, di educare cittadini più rispettosi dell’ambiente e della sua storia. Si tratta, in modo molto più profondo, di educare il bambino attraverso la coltivazione delle piante. … i numerosi insegnamenti non riguardano solo i diversi rapporti con l’ambiente, ma anche altri aspetti più profondi della personalità stessa dell’individuo, del suo modo di pensare e di entrare in relazione con gli altri … di porsi di fronte alla realtà, modi che partono dal mondo vegetale ma al tempo stesso lo travalicano”.
Dunque apprendimenti che tramite l’arte del “giardinaggio casalingo” diventano palestra di vita e insostituibile formazione anche dal punto di vista intellettuale.
Gli obiettivi che il testo si pone sono affascinanti:
- comprendere l’unità della vita
- conoscere e accettare il ciclo della vita
- conoscere e accettare il ciclo delle stagioni
- imparare a prendersi cura di un essere vivente
- imparare il senso di responsabilità
- imparare a tollerare la frustrazione e a pazientare
- imparare a pensare
- imparare ad accettare i limiti
- confrontarsi con la vita reale
- imparare l’armonia
Le modalità con cui tali obiettivi vengono perseguiti consistono nella presentazione di un tragitto avente come base pochi ma efficaci assunti: che cos’è il giardino semplice; che cosa serve per il giardino semplice; che cosa evitare nel giardino semplice; che cosa fare nel giardino semplice.
L’autrice non trascura il fatto che non tutti possono avere la fortuna di possedere un giardino: i consigli infatti possono essere applicati, con le dovute proporzioni, anche ad appezzamenti minori, dal terrazzo, al balcone, al davanzale di una finestra.
Ciò che è oltremodo incoraggiante riguarda proprio l’aggettivo “semplice”, assolutamente non proposto in forma riduttiva, ma inteso come avvio di comportamenti virtuosi e di pensiero.
Sottolinea Bonino che oggigiorno siamo tutti un po’ vittime di innamoramenti artificiali della natura: è sufficiente recarsi da un florovivaista per poter ammirare innumerevoli varietà di piante e fiori messi in bell’ordine, come se quel risultato fosse la normalità, esattamente riproducibile anche nei propri luoghi abitativi, senza tener conto delle differenze vincolate ad elementi quali l’umidità, l’esposizione alla luce, la composizione del terreno, la temperatura.
“La pianta e il suo ambiente costituiscono un sistema complesso, la cui comprensione richiede di tenere conto non solo di una pluralità di elementi, ma anche del fatto che le relazioni tra questi elementi non sono mai determinabili e prevedibili in modo certo, ma solo con un certo grado di approssimazione. Per questo il giardinaggio costituisce un’ottima educazione al pensiero complesso, al ragionamento probabilistico e alla capacità di considerare contemporaneamente diverse variabili”.
In un giardino la cosa più importante è imparare ad OSSERVARE. Addirittura prima di impiantarlo. Accade spesso infatti che tale compito venga delegato all’architetto giardiniere, più propenso a “piazzare” i propri prodotti che a rispettare le caratteristiche dell’ambiente.
Nell’esperienza mia e di TartaRugoso, imparare ad osservare è scaturito dai molti errori commessi quando, assolutamente principianti, ci facevamo catturare dalla beltà dei cespugli fotografati sui libri e ci precipitavamo ad acquistarli. Alcuni arbusti ce l’hanno fatta, altri invece sono diventati parte integrante della terra che non ha saputo, per causa nostra, onorare le loro esigenze.
Abbiamo imparato a scegliere piante che si adattassero alla totale ombra, e ora sappiamo anche che cosa resiste all’impavido sole.
Bonino parla di come sia importante sviluppare la capacità di anticipare, azione che comporta la possibilità di immaginare possibili e diversi scenari futuri. Sostiene giustamente che se si fallisce in questa operazione, gli errori non possono essere riparati in tempi brevi.
Dedicarsi al giardinaggio implica inoltre l’acquisizione del significato del termine”probabilità”, concetto che si applica ben al di là del giardino di casa: “Se si tiene conto che tutta la scienza moderna è di tipo probabilistico, si comprende l’importanza di saper ragionare in termini di probabilità e, soprattutto, di accettare l’insicurezza che ne deriva”.
Questa accettazione è basilare se si vuole imparare ad accettare la frustrazione di variabili insospettate e, soprattutto, a diventare pazienti.
Il luglio del 2013 in questo caso è stato un ottimo maestro. E’ infatti successo ciò che, in un quarto di secolo, avevamo solo sentito narrare: “Non bisogna poi dimenticare le avversità atmosferiche, fra cui la più terribile è la grandine: se talvolta si limita a bucherellare le foglie, altre volte le lacera fino alla completa distruzione, danneggiando anche i rami. Una rovinosa grandinata può compromettere tutta la fioritura e il raccolto non solo di quell’anno, ma anche la fioritura della primavera seguente e la conseguente fruttificazione. … Il giardiniere paziente, allora, ricomincia da capo, trae insegnamento dagli eventuali errori commessi e cerca di non ripeterli, accetta gli eventi sui quali non ha alcun controllo e guarda al futuro con fattivo ottimismo”.
Per dirla ancora con le parole di Bonino, dal punto di vista psicologico “la frustrazione è strettamente connessa alla pazienza: bisogna infatti saper aspettare che un obiettivo si realizzi, dopo aver fatto tutto ciò che era necessario per il successo della propria iniziativa. La pazienza è una virtù fuori moda. Oggi tutti, adulti e bambini, vogliono avere subito tutto, di qualunque cosa si tratti. E poiché questo non possibile, se non in casi molto rari, la depressione e l’infelicità dilagano. Nel caso di un giardino, bisogna imparare a rispettare i ritmi della vita vegetale, che sono lenti e richiedono sovente di pazientare non solo settimane e mesi, ma addirittura anni. … Questa pazienza non è però inerte attesa; è certamente un atto di fede nel futuro, che si sostanzia tuttavia di un lavoro costante e di cure assidue”.
E così è stato anche nel nostro caso. Dopo lo sbigottimento e la rabbia causati dalla grandinata nefasta, è arrivata la voglia della ricostruzione e dello sviluppo del pensiero su come agire e reagire : ”dopo un momento iniziale di irritazione o di sconforto, il fallimento è infatti di stimolo a trovare soluzioni migliori e più creative”.
Le indicazioni e i consigli che Bonino fornisce nel suo libro per mettere chiunque in grado di cimentarsi con la cure del verde sono veramente innumerevoli, comprese numerose schede relative a piante atte ad essere coltivate in climi e spazi difficili lungo tutto l’arco dell’anno.
Il concetto più profondo che trasmette per far sì che il rapporto con il giardino diventi intimo e reciproco (nello scambio del dare e del ricevere) è quello di empatia: “Prendersi cura di un essere vivente – vegetale, animale o umano che sia – significa anzitutto riconoscere e rispondere alle sue esigenze, anche se questo ci costa impegno e fatica. … Per empatia si intende la capacità di comprendere e condividere le emozioni di un altro essere vivente: essa può basarsi sia su segnali esterni sia sulla rappresentazione astratta delle esigenze altrui. La cura delle piante aiuta proprio a sviluppare questo secondo tipo, più evoluto, di condivisione emotiva, basato sulla rappresentazione mentale del vissuto altrui, in questo caso le necessità delle piante”.
Bando quindi alle chiacchiere tipiche dei novelli orticoltori, ognuno così certo delle proprie tecniche: così come non esistono individui ripetibili, altrettanto si può affermare per l’orto-giardino semplice.
Occorre camminare, sostare, guardare, ascoltare, toccare, per capire i reali bisogni del nostro giardino.
Nell’imprevedibilità dei fenomeni, per il momento la natura ancora resiste e ha molto da insegnare a chi la vuole amare, ponendoci “di fronte all’evidenza che la nostra azione sul mondo biologico, del quale siamo parte, non è onnipotente e infinita, ma anzi sottoposta a molti vincoli … avere cura delle piante significa scoprire come, all’interno di certi limiti, ci sia grande spazio al nostro agire, se basato su conoscenze appropriate e su buone pratiche”.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Luisa Carrada (2012), Lavoro, dunque scrivo!, Zanichelli, 2013
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Luisa Carrada (2012)
Lavoro, dunque scrivo!
Zanichelli
E’ fine luglio, tempo di vacanze.
Le usuali notizie metereologiche: a metà mese una violenta grandinata ha messo a repentaglio il mio carapace. Nascosta sotto il telo di copertura dei pomodori, percepivo il cupo tonfo dei chicchi gelati sopra e intorno me. Dalle 4 alle 4.30. Poi il silenzio.
Quando mi sono decisa a sporgere il capo, i pomodori non c’erano più e ampie chiazze di ghiaccio riempivano i solchi di quello che fino al giorno prima sembrava essere il risveglio delle ritardatarie coltivazioni.
Ma io sono forte e la natura pure. Così in questi giorni, a 38 gradi e una siccità preoccupante, tutti ci stiamo dando da fare per costruire la nostra resilienza.
E anche se il pensiero va all’imminente agosto, la sensazione della parola “lavoro” va oltre l’immaginazione. Si sta lavorando davvero!
Poi c’è TartaRugoso in preda agli incubi del foglio bianco e quindi dedico a lui questa lettura, perché “quando il testo è più complesso e dedicato alla stampa, gli si chiede ancora di più un pensiero ispiratore, una struttura coerente e armonica, uno stile, una voce inconfondibile. Cose che scaturiscono da un lavoro minuzioso, quasi sempre anche lungo”.
Molti insegnamenti di questo libro arrivano dritti dritti anche a me, visto e considerato che Carrada approfondisce con esercizi di scrittura gli stili e le modalità più adatte alle nuove forme di comunicazione di intranet, siti web e social media, sostenendo che “siamo diventati tutti un po’ scrittori ed editor … per tutti, mantenere e far crescere le relazioni dipende quindi anche dalla capacità di esprimersi attraverso testi chiari ed efficaci”.
Senza poi parlare degli innumerevoli esempi di quanto poco gradevoli siano modelli comunicativi improntati su linguaggi burocratesi che conferiscono al testo significati difficili da decodificare, soprattutto oggi che ci troviamo nella necessità di concentrare i nostri messaggi non più su pagine ma su schermi, cioè su finestre che mostrano solo una porzione di testo alla volta.
Per Carrada l’accesso alle tante informazioni che ormai costellano la nostra sete di conoscenza è positivo:”non spaventi l’abbondanza, anzi. E’ sempre meglio avere a disposizione più materiale di quanto poi effettivamente utilizzeremo. … Copiate e tagliate pure, ma annotate rigorosamente autore e fonte di ogni cosa, anche minima. … Il testo migliore non è frutto di un collage,ma di una scelta”.
E’ questa la fase del pre-writing, si raccoglie e contemporaneamente si progetta. Nella testa di chi scrive, lentamente quanto misteriosamente, carta, bit, informazioni, notizie, materiali raccolti iniziano ad intrecciarsi e a formare le prime mappe, scalette e organizzazioni testuali.
Chi deve scrivere per pubblicare saggi ben conosce questo momento, la cui durata può anche essere molto lunga.
E ora, dopo il processo della raccolta, la “corsa alla redazione”, la parte che più affligge TartaRugoso.
A lui le parole di Carrada: “Siamo alla redazione, la fase più temuta e procrastinata. Una paura che si smorzerà assai se abbiamo ben lavorato prima. Il segreto è infatti non arrivarci con il foglio bianco, ma con molti fogli già ben riempiti con molte parole che ci aspettano: le mappe, gli appunti, la scaletta. Tutto è pronto per la fase di redazione, che in genere scatta quando:
– i materiali raccolti sono talmente tanti che”chiedono” di prendere forma in una prima stesura
– siamo talmente coinvolti e convinti del nostro lavoro che desideriamo condividerlo al più presto
– la scadenza per la consegna si avvicina pericolosamente”.
Per abbassare l’ansia, quindi, è fondamentale non perdere tempo nel cercare le giuste parole dell’avvio, quanto invece correre, ovvero “accettare di scrivere la prima bozza anche “così così”, senza fermarsi a rifinire…. Non fermiamoci a controllare un dato, ad arrovellarci su una singola parola, a limare un periodo…. Quello che man mano ci viene in mente, scriviamolo in rosso per ricordarcene dopo. Ora, meglio inseguire la suggestione di una parola, di una nuova idea e fissarle subito prima che svaniscano. Per verificare coerenza e tenuta del testo, fare i controlli, sintonizzare lo stile, per fortuna c’è la revisione. Se ci si mette a correre, inoltre, la paura passa”.
E’ dunque nella fase di revisione che si deve rallentare per: controllare contenuti e loro organizzazione, eseguire il controllo grammaticale, migliorare lo stile, verificare le fonti, definire la formattazione.
Nel suo tirare le fila, l’autrice ricorda a chiunque si senta intimorito dalla scrittura:
– è meglio organizzarsi che aspettare l’ispirazione
– se crediamo che l’ispirazione ci visiti all’improvviso è perché nasce dal materiale accumulato
– non colpevolizzarsi se non si sta incollati al computer: si scrive anche quando non si scrive
Passata questa introduzione, si entra nel cuore degli argomenti classici delle scuole di scrittura, con un occhio particolare alla struttura del testo sulla pagina web.
TartaRugosa, notoriamente arcaica e ostile a queste innovazioni, ha finalmente imparato perché quando scriveva articoli sul blogzine, puntualmente riceveva dalla redazione il suggerimento di capovolgere il testo. Infatti: “Il modello retorico classico comincia con l’introduzione (esordio, narrazione, argomentazione, epilogo), quello giornalistico con la notizia e la conclusione. … In una pagina web la notizia deve stare necessariamente sopra lo scroll, poiché è sulla prima schermata che i lettori si soffermano per l’80% del tempo…. La piramide rovesciata deve perciò anticipare la conclusione, facendo seguire la notizia o le informazioni più importanti”.
Provvidenziali i suggerimenti forniti per la cura della sintassi: le riflessioni sull’utilizzo della forma attiva, del congiuntivo, del gerundio, del lessico specialistico accompagnate dal confronto tra un testo “macchinoso” e l’immediata traduzione dello stesso con una sintassi semplificata aiutano senz’altro a migliorare il proprio stile e facilitare la comprensione di ciò che si scrive.
Particolarmente affascinante per me il capitolo sul “Cercare la parola giusta senza essere Flaubert”.
“Un esercizio che aiuta è soffermarsi su una parola, capire come è nata e si è trasformata, guardarne la forma, pronunciarla per ascoltarne il suono. Improvvisamente, è come se si aprisse un sipario e le parole raccontassero un’intera storia”.
Nel mondo del lavoro, questa attitudine evidentemente non è molto seguita e me ne sono resa conto nel leggere gli esempi che Carrada porta a supporto dei gerghi inutili, che contribuiscono a distrarre il lettore, a deviare l’informazione, a confondere l’attenzione.
Errori in cui molte volte io stessa sono caduta, nella falsa convinzione che la scelta di alcuni verbi, aggettivi, locuzioni fossero più autorevoli proprio per la pomposità di cui amano circondarsi le organizzazioni. La lista è sconfortante, a proposito dei verbi così distinti:
– i paternalistici: consentire, mettere in grado, permettere
– i velleitari: volere, intendere
– gli antiquati: provvedere, procedere, trasmettere
– i visionari: vedere, prevedere
– i buoni-a-tutto: effettuare, sviluppare, realizzare, usare, utilizzare
– i pomposi: rappresentare, costituire, figurare, risultare
Impietosi, ma d’un vero che più vero non si può: provvedere al pagamento, anziché pagare, per esempio, oppure procedere all’avvio del progetto, anziché avviare il progetto, e via elencando.
Sembra davvero che la scrittura professionale avversi radicalmente preposizioni semplici, preferendo loro parole ed espressioni lunghe. I consigli in questo caso riguardano:
– è sempre possibile spiegare con parole semplici quelle più difficili
– i vocabolari sono i nostri amici, anche quello etimologico
– per scegliere la parola giusta bisogna conoscerne tante
– usiamo senza problemi le parole straniere solo quando non hanno una buona e dignitosa alternativa in italiano; in tutti gli altri casi pensiamoci su
Se poi ci soffermiamo sulla lunghezza del testo, è essenziale ricordare che i nuovi media esigono la capacità di saper potare e tagliare: “Togliere le parole che non servono è come passare un panno su un vetro appannato e veder emergere più nitido il paesaggio che sta dall’altra parte”. Naturalmente la gentilezza della sfrondatura non significa che bisogna trasformare la parola intera in abbreviazione (p.v.; u.s.; gg.; prof.ssa; gent.le). Ci sono poi cose che non andrebbero mai tagliate, per esempio il nome di battesimo che, se indicato solo con l’iniziale, impedisce il riconoscimento del sesso.
Un altro accorgimento è di evitare verbi che comunichino nostre intenzioni, in quanto appesantiscono il messaggio, rendendolo appunto più appannato. Espressioni come: ricordiamo, precisiamo, aggiungiamo, rammentiamo, è interessante notare che, scriviamo per ricordare che … sono spesso del tutto superflue. Per esempio la frase: La informiamo che i ns uffici saranno chiusi fino al 18 agosto diventa molto più efficace con: I nostri uffici saranno chiusi fino al 18 agosto.
La coppia vincente sulla pagina web, indica l’autrice, è rappresentata da titolo e sotto-titolo, in quanto possono racchiudere sia l’oggetto, sia il tema dell’articolo. L’oculata scelta della loro costruzione, inoltre, consente un buon posizionamento sui motori di ricerca, orientando e incuriosendo il lettore con sole poche battute di lettura veloce.
La necessità di accontentare un pubblico ormai incapace di sostare sui caratteri di stampa prevede l’apprendimento di tanti piccoli accorgimenti che Carrada offre in abbondanza ai suoi lettori (utilizzo di liste, spaziature, colonne, font, numerazioni, ridondanze, ripetizioni, formule di cortesia, e tante altre cose ancora): è sufficiente darsi la briga di leggere il suo libro e mettere in pratica gli esercizi proposti.
I risultati non mancheranno, parola di TartaRugosa che si è cimentata con successo in una delicata lettera di risposta ad un cliente deluso!
TartaRugosa ha letto e scritto di: Matteo Sturani, curatore (2013) Pietre, piume e insetti. L’arte di raccontare la natura Einaudi
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Matteo Sturani, curatore (2013)
Pietre, piume e insetti. L’arte di raccontare la natura
Einaudi
E’ arrivata nuovamente l’estate. Con incedere incerto, quest’anno.
Maggio freddissimo e bagnato non ha agevolato il passaggio di testimone al fratello successivo che, titubante, ha cercato di recuperare con un paio di giorni a 38 gradi, per precipitare subito dopo, a cavallo di folate di vento impetuoso, a temperature di minima fino a 12 gradi.
Ben l’hanno capito le povere piantine dell’orto, irrigidite e bloccate nella crescita, ma smaniose di rispondere al richiamo della loro natura, con il risultato di piccoli fiori adagiati su esili steli allungati a cercare la luce. Acqua in quantità, ma sono luminosità e calore che fanno difetto!
Pure io me ne sono accorta nelle mie passeggiate lungo i sentieri, sempre pronta ad interrarmi di nuovo, cercando riparo e calore fra le viscere del sottosuolo.
E nel breve tempo del solstizio di giugno, di conforto alle mie memorie è arrivato il libro di Matteo Sturani, con le sue memorabili pagine di letteratura dedicate all’arte di osservare e raccontare i fenomeni della natura.
Un’antologia di poco più di una ventina di autori che riescono a pennellare con le parole autentici quadri naturali di intensa vita vegetale e animale.
Che sia questione di occhio, Sturani lo rivela subito citando Leonardo: “or non vedi tu che l’occhio abbraccia la bellezza de tutt’il mondo? Lui è capo dell’astrologia, lui fa la cosmografia, lui tutte le humane arti consiglia e corregge. … Cos’è ciò che ti risveglia, o uomo, ad abbandonare le tue case cittadine, a lasciare parenti e amici e andare nei campi tra i monti e valli, se non la bellezza naturale del mondo, di cui, se ben ci rifletti, ti delizi col senso del vedere?”.
Che sia questione d’epoca, lo si scopre nei tratti biografici degli autori, laddove “in un mondo privo di computer, televisori e altre forme di distrazione da camera, in strade dove passava una macchina ogni mezz’ora, il baricentro della vita ludica si spostava per forza di cose al di fuori delle mura di casa … Il giardino, l’orto, il bosco divenivano allora il campo di gioco privilegiato, teatro di inesauribili esplorazioni .. interi mondi che promettevano avventure senza fine”.
E in me, TartaRugosa, l’eco di quelle esperienze recupera i ricordi d’infanzia, nostalgico periodo di reminescenze di come lo sguardo si apriva stupito di fronte alle meraviglie degli abitanti non umani di questo pianeta.
Per dirla con Primo Levi: “Verso metà giugno mia madre metteva mano ai bagagli. … Contenevano tutto: biancheria, pentole giocattoli, libri, scorte, abiti leggeri e pesanti, scarpe, medicine, attrezzi, come se si partisse per l’Atlantide. … I tre mesi scorrevano lenti, sereni e noiosi, punteggiati dall’abominio sadico dei Compiti per le Vacanze. Comportavano sempre un nuovo contatto con la natura: modeste erbe e fiori di cui era gradevole imparare il nome, uccelli dalle varie voci, insetti, ragni. … Nel giardino-cortile si affaccendavano ordinate tribù di formiche, di cui ero affascinante studiare le astuzie e le ottusità”.
Quelle stesse formiche che attiravano pure la mia curiosità (probabilmente supportata dalla fiaba di La Fontaine): minuti e minuti di osservazione delle lunghe file dei minuscoli insetti che molto si davano da fare intorno ad una briciola di pane o un avanzo di frutta o, più macabramente, un residuo di cadavere animale. Osservazioni non esenti da rudimentali e sadiche sperimentazioni di vivisezione, che però a quei tempi venivano annoverate come veri e propri apprendistati chirurgici (amputazioni di una parte del corpo con lo stecchino del ghiacciolo) dettati da una precoce quanto infondata passione per la medicina. Nonostante l’identico, miserevole esito, quegli episodi però non coincidevano con forme di violenza gratuita che altri coetanei esercitavano sui laboriosi insetti (dare loro fuoco, per esempio).
Piero Calamandrei nel capitolo “Inventario della casa di campagna” considera “Innata genialità dei ragazzi nell’inventar modi sempre nuovi per tormentare le creature vive! Si direbbe che i loro giuochi non abbian gusto se non si lasciano dietro, in quel mondo di popoli minimi dei quali essi sono i dittatori, una scia di mutilazioni e di stragi: e gli accorgimenti per infliggerle sono così estrosi, che figurerebbero bene in una speciale sezione del museo degli strumenti di tortura che si ammira in Norimberga”.
Ma “se da un lato la natura pagava un prezzo sotto i colpi di un banditismo brufoloso armato di fionde, alcool e cerini, dall’altro il contatto diretto con tale natura era in grado di promuovere una conoscenza della stessa e dei suoi meccanismi che nessuna aula o laboratorio scolastico avrebbe in seguito fornito”.
La natura quindi anche come gioco di formazione, le cui scoperte non erano esenti da sacrifici.
Italo Calvino rispolvera i miei giorni d’infanzia in campagna, quando in “Un pomeriggio, Adamo” scrive: “Libereso schiuse le sue mani e la lasciò guardare dentro. Aveva le mani piene di cetonie: cetonie di tutti i colori. Le più belle erano le verdi, poi ce n’erano di rossicce e di nere, e una anche turchina. E ronzavano, scivolavano una sulla corazza dell’altra e ruotavano le zampine in aria”. La stessa esperienza da me condotta con i maggiolini, catturati in un bicchiere e poi versati sul dorso della mano, per guardarli correre e dischiudere la corazza da cui improvvisamente spuntavano le punte delle ali. Che sorpresa ogni volta vederli spiccare il volo come piccoli elicotteri!
Molte sono le pagine del testo che invitano all’atteggiamento contemplativo, ma altrettante le storie avventurose di chi la natura la vive come esperienza diretta: “Il naturalista all’opera”; “Emozioni caccia e pesca”; “Le disavventure del naturalista” raccolgono testimonianze e descrizioni di grande efficacia identificativa, soprattutto in coloro che, come me, amano essere spettatori piuttosto che attori.
Dalla Dalmazia all’Amazzonia, dalla Provenza alla taigà, dal collezionismo di farfalle di Nabokov, dell’erbario di Calamandrei e dei coleotteri di Gadda, ai suoni di Thoureau e alle tavole a tempera di Mario Sturani, nonno del curatore Matteo, i viaggi si susseguono negli habitat talora sconosciuti del pianeta, portandoli più vicini e meno ostili, quando mediati dall’osservazione e dall’amore del luogo.
Fuori del tempo eppure dentro l’immutabilità delle cose, perché, come stimolano le parole di Calamandrei, esistono luoghi in cui “il periodico rispuntare degli stessi teneri germogli in cima agli stessi rami, non è un susseguirsi di generazioni … ma è un periodico riaffermarsi di una presenza eterna, sottratta alle discendenze e ai declini”.
TARTARUGOSA HA LETTO E SCRITTO DI: REMO CESERANI, DANILO MAINARDI (2013) L’UOMO, I LIBRI E ALTRI ANIMALI IL MULINO, BOLOGNA
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Remo Ceserani, Danilo Mainardi (2013)
L’uomo, i libri e altri animali
Il Mulino, Bologna
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Tutto è partito da una lettura casuale a me riferita: “I rettili erano comparsi da poco quando in alcuni s’andò sviluppando la novità evolutiva di una corazza insieme cornea e ossea. Un notevole avanzamento di carattere difensivo, avvenuto ben più di duecento milioni di anni fa. Una volta rinchiusesi lì dentro, però, queste primitive tartarughe divennero conservatrici e, praticamente, smisero di evolversi. Loro (a differenza di altri animali) tartarughe erano e tartarughe sono rimaste”.
Sob, sono da un’eternità vittima di una stasi evolutiva: “La loro stirpe, in definitiva, s’è specializzata troppo e ciò adesso le impedirebbe di sviluppare quelle soluzioni adattative che forse le sarebbero utili per continuare a sopravvivere”.
Liquidata così dal mio mitico, amato Danilo Mainardi?
Stasi per stasi, (che sia stato quello sforzo primordiale a costringermi a dormire per metà della vita?), la lettura è piacevolmente proseguita con il dibattito-epistolario fra due ex compagni di scuola – Remo Ceserani e Danilo Mainardi – che hanno intrapreso strade diseguali, ma conservato la stessa abitudine di essere curiosi verso il sapere e la conoscenza. Anche in questo volume, dove si interseca lo sguardo di due apparenti differenze: “Io perennemente con l’etologia in testa, lui con in testa la letteratura. Passioni contrapposte? Si vedrà.”
Il gioco è proprio questo: cimentarsi in un viaggio tra letteratura ed etologia per trovare analogie e contrasti (ma pure possibili convergenze) tra i rispettivi campi di ricerca ed interessi, affidandosi a parole appartenenti ad entrambi i mondi letterario ed etologico.
Ecco emergere quindi temi come la comunicazione, i personaggi romanzeschi e l’antromorfizzazione di alcuni animali, la cultura e l’evoluzione biologica, il linguaggio, l’aggressività, i sogni, il sesso, la paura.
Da un lato le posizioni di Mainardi che si fondano sulla globalità delle forme di vita, senza soffermarsi unicamente su quella umana, dal cui aspetto culturale è invece attratto il letterato Ceserani. E mentre Ceserani mette a fuoco solo la storia culturale della nostra specie, Mainardi adotta l’ottica del paleontologo, ovvero: “Mi viene da ragionare in termini di milioni, talora addirittura di miliardi di anni. Per me Homo sapiens è una specie giovanissima, sempre sotto il collaudo della selezione naturale, e ti assicuro che è una specie a rischio. Mi viene dunque da sorridere quando la Chiesa cattolica si vanta di durare ormai da duemila anni. E che saranno mai duemila anni, anche per la nostra giovanissima specie, nell’ottica del paleontologo?”
La discussione sulla cultura diventa particolarmente feconda grazie all’analisi condotta da Bauman, sociologo citato da Ceserani, per evidenziare il passaggio dalla modernità alla postmodernità. Bauman così sintetizza le sue riflessioni sulla concezione di modernità solida e liquida: “da una parte le nazioni e le istituzioni sociali, familiari e individuali forti, l’egemonia del centro sulla periferia, gli equilibri di potere, i conflitti e le guerre, la ricerca di identità, i problemi della sicurezza, le pratiche di esclusione e sospetto verso gli altri,le forme di assimilazione forzata; dall’altra il sistema decentralizzato, la multidimensionalità e fluidità dei rapporti, l’ibridazione, gli spostamenti massicci di popolazioni, l’aspirazione alla libertà, l’uso della rete nei sistemi della comunicazione”.
Tale citazione serve a Ceserani per dimostrare come, nella specie umana, il sistema culturale si fondi su aspetti politici, etici e morali di possibile evoluzione in tempi brevi: “Se le analisi di Bauman sono vere, tu e io, nati nella prima metà del Novecento, avremmo vissuto in due sistemi sociali e culturali nettamente diversi: un’infanzia, adolescenza e giovinezza solide e una maturità liquida”.
Mainardi conferma: “occorre rilevare che l’evoluzione culturale è straordinariamente più rapida di quella biologica. Il cambiamento evolutivo culturale può infatti determinarsi all’interno di una popolazione in brevissimo tempo, senza attendere ricambi generazionali.” Pur tuttavia non può non considerare l’aspetto della selezione naturale “un comportamento, indipendentemente dal fatto che sia trasmesso per via genetica o apprendimento sociale, se mal adattativo viene comunque penalizzato dalla selezione naturale”, quindi un tipo di evoluzione che si sviluppa in un movimento lungo e interrotto, tendenzialmente lento, contrario alla visione di Ceserani che percepisce l’evoluzione culturale “come un movimento più agitato e drammatico, fatto di salti e di conflitti.”
Ed è qui che l’occhio del paleontologo riesce a coniugare ciò che le teorie dividono:”la vita non è che un unico, seppur lungo, episodio. Gli studiosi della biologia sono innanzitutto degli storici, studiosi di una storia naturale che non potrebbe mai ripetersi uguale a come è stata, con le stesse specie, i suoi rigogli, le sue crisi, i suoi equilibri e squilibri, estinzioni e nuove comparse, mescolamenti”. E aggiunge Mainardi “Dovendo però anche confrontarmi con la vita di tutti i giorni … è come se possedessi due distinte consapevolezze. Una lente che mi consentisse di guardare questo modesto spazio temporale amplificato, dove io sono ben più partecipe, e un’altra che se risale all’età dei dinosauri, diventa come un film accelerato. La progressiva scomparsa di quei rettiloni, della conseguente comparsa dei loro nipoti uccelli, della trasformazione di qualche dinosauro in coccodrillo o caimano o alligatore, della subdola apparizione dei primi piccoli mammiferi”. La vita è tutta vita, ma è come se l’uomo la volesse interpretare come leggenda, teso com’è ad anteporre innanzi tutto se stesso.
Certo l’uomo appare come l’animale culturale per eccellenza, ma è pur vero che anche altre specie animali sono in grado di produrre e trasferire fra loro soluzioni di problemi, linguaggi e innovazioni. ”All’interno dei sistemi comunicativi delle specie animali, quanto ai contenuti, si va da informazioni fondamentali per la sopravvivenza, come la specie e il sesso d’appartenenza, a segnali che possono essere ritenuti analoghi a vere e proprie parole create ad hoc per indicare qualcosa che proprio in quel momento sta avvenendo”.
Le storie di animali che corroborano la discussione sono numerose e gustosissime (sia viste con l’occhio dello scienziato che attraverso le opere di famosi scrittori) e sollevano curiosità e risposte che ben evidenziano quanti misteri ancora debbano essere svelati sulle convergenze tra la specie umana e le altre abitatrici del nostro pianeta.
Nello scenario della trattazione di temi sulla consapevolezza, la morte, l’aggressività, la violenza, la paura, Mainardi rilancia e pone in primo piano una sgradita specificità tipica dell’essere umano: “noi esseri umani siamo una specie molto diversa da tutte le altre soprattutto perché abbiamo sviluppato una straordinaria e unica capacità di evoluzione culturale.. Ciò ci è costato, in termini evolutivi, la perdita quasi totale delle istruzioni genetiche per stare al mondo (i cosiddetti istinti tanto per intenderci), ed è proprio per questo che abbiamo una sete di conoscenza sempre impellente, indispensabile per la nostra stessa sopravvivenza di animali culturali. Ecco allora che noi animali onnivori (dunque parzialmente carnivori), certe altre specie dobbiamo ‘consumarle’, in quanto culturali, non solo mangiandole, ma anche in altri modi, e cioè per il nostro insaziabile bisogno di conoscenza. E’ all’interno di questo bisogno che, tra le curiosità in qualche caso giustificabili, si localizza la sperimentazione sugli animali”.
Riconosce, Mainardi, un fenomeno etologico che riguarda solo la nostra specie: la pseudospeciazione, e di essa ne parla per affrontare il tema della violenza e dell’aggressività, spiegando che “sono rari i casi naturali in cui le interazioni aggressive intraspecifiche sfociano nella morte. Le due possibili soluzioni naturali degli scontri aggressivi fra animali non portano mai all’uccisione dello sconfitto, ma, in alternativa, o all’interazione sociale o a una spaziatura fra gli individui”.
Il termine pseudospeciazione viene citato da uno studio di Konrad Lorenz: “Ogni gruppo culturale sufficientemente circoscritto tende a considerarsi una specie a sé e a non ritenere come veri e propri uomini i membri di altre unità analoghe … poiché i nemici non sono considerati veri uomini, si può infierire su di loro tranquillamente”.
Secondo questa definizione, Mainardi afferma che è la cultura (o certi tipi di cultura) a rendere l’uomo crudele. Per natura, infatti, l’essere umano dovrebbe essere altruista ed empatico; razzismo, fanatismo, olocausto, santa inquisizione, torture vengono riservati, secondo la pseudospeciazione, ad esseri in vario modo classificati, ma sempre in senso fortemente negativo, come ‘diversi’. “La pseudospeciazione, i riti di guerra, la disciplina assoluta e acritica richiesta ai soldati, la propaganda che racconta l’avversario come perennemente aggressivo, l’obliterazione dei segnali etologici di paura e resa, utili in natura per smorzare gli attacchi, fanno slittare la sana e adattativa aggressività animale in qualcosa di ben più atroce. E tutto ciò non per natura ma per cultura. Certo è che in nessun’altra specie, tranne che nell’umana, gli individui risultano così disinvoltamente, e consapevolmente, sacrificabili”.
Anche di se stessi, verrebbe da aggiungere, leggendo queste parole sull’evoluzione della vita sulla Terra: “Nella storia della vita sulla Terra si sono già verificati, e superati, cinque periodi di grave crisi. Non per nulla quella che stiamo vivendo viene dai paleontologi definita la ‘sesta estinzione’. Le precedenti crisi non furono comunque mai definitive. Altrimenti non saremmo qui. E, occorre rilevare, al loro termine seguì sempre un periodo di rigoglio evolutivo. Rimane però istruttivo il fatto che, a decretarne la fine fu, come del resto è logico, la scomparsa della causa stessa che le aveva prodotte. Ebbene, è fondamentale allora ricordarci che la sesta estinzione, quella che stiamo vivendo, l’abbiamo fabbricata soltanto noi. Sarebbe dunque essenziale che comprendessimo, ma sul serio, che è solo salvando le altre specie, soprattutto salvando gli equilibri naturali, che potremmo salvare noi stessi. Altrimenti sarebbe come se stessimo allegramente organizzando, col nostro comportamento intelligente, il nostro suicidio.”
Beninteso a tutto vantaggio del mondo postumano!
Nevio Spadoni, LA BESA GALANA
TartaRugosa ha letto e scritto di: Georges Perec (1989), Pensare/Classificare, Rizzoli, Milano, Traduzione di Sergio Pautasso
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Georges Perec (1989)
Pensare/Classificare
Rizzoli, Milano
Traduzione di Sergio Pautasso
Così come l’introduzione del concetto di “ limite” libera la creatività nella psiche umana, altrettanto si può affermare che, nella scrittura, la costrizione induce alla produzione di fantasia.
E’ questo il primo pensiero che mi è sopraggiunto quando, uscita dal letargo, mi sono finalmente decisa di approfondire la conoscenza dell’Ou-Li-Po Ouvroir de littérature potentielle (“Opificio di letteratura potenziale”), gruppo francese fondato da Queneau e a cui aderirono, fra altri, Georges Perec e Italo Calvino.
Perec mi “intriga” molto ed è ritornato fra le mie mani grazie all’ossessione classificatoria di TartaRugoso , così lontana dalle mie modalità che seguono altre linee di pensiero e, nonostante ciò, degne di esistere, come fra poco vedremo direttamente dalle parole di Perec.
Tornando all’Ou-Li-Po, ciò che rende affascinante l’approccio di questo opificio è lo sforzo di proporre a chi scrive nuove strutture di natura matematica o l’invenzione di procedimenti che, in virtù di regole date (appunto le costrizioni) consente il raggiungimento di soluzioni originali e bizzarre.
Calvino, parlando di Perec, affermava che ”la costrizione allarga le potenzialità visionarie e risveglia i demoni poetici più inaspettati e segreti” e la metafora dell’oulipiano simile al corridore nella corsa ad ostacoli è molto efficace: “per arrivare a scegliere quello che vuole, comincia mettendo un certo numero di ostacoli sul cammino che lo conduce a ciò che cerca, e questi ostacoli si chiamano costrizioni, regole».
Nel capitolo Brevi note sull’arte e il modo di sistemare i propri libri, è geniale il modo utilizzato da Perec per ragionare sull’ampliamento dello spazio di una biblioteca. Parte da una formula matematica che fissa il totale di opere da non superare nel numero 361: K+X >361>K-Z (se K è uguale a 361 e inteso come numero giusto per una biblioteca, se entra un’opera nuova X occorre eliminarne un’altra Z, in modo che K rimanga costante).
Ma la razionalità apparentemente semplice della formula si scontra con gli ostacoli della realtà libraria: per esempio che “un volume contasse per un (1) libro, anche se riuniva (3) romanzi (o raccolte di poesie o di saggi, ecc.) … non alterava affatto il progetto iniziale, semplicemente invece di parlare di 361 opere, si decise che la biblioteca essenziale avrebbe dovuto comporsi idealmente di 361 autori”. Tutto ciò avrebbe potuto funzionare, ma … per le opere che vengono scritte o riscritte da più autori? “certe opere, poniamo i romanzi del ciclo cavalleresco, non avevano autore o ne avevano più d’uno e ceri autori, i dadaisti, per esempio, non potevano essere separati gli uni dagli altri senza perdere automaticamente dall’80 al 90% del loro interesse precipuo: si giunse così all’idea di una biblioteca limitata a 361 temi”.
Di fatto “uno dei principali problemi per l’uomo che conserva i libri che ha letto o che si ripromette di leggere, è dunque quello dell’accrescimento della propria biblioteca”.
Ed è sulla base di questa osservazione che Perec dà inizio ai diversi modi di scegliere ed organizzare gli spazi per ordinare i libri di cui si è in possesso, con lo stile dei tentativi di esaurimento di un luogo: “nell’ingresso, nel soggiorno, nella o nelle camere, nel cesso … sulle mensole dei caminetti o dei radiatori (pur considerando che, alla lunga, il calore può risultare nocivo), tra due finestre, nella strombatura di una porta chiusa, sugli scalini di uno sgabello di biblioteca, rendendolo così inutilizzabile (molto chic, vedi Renan), sotto una finestra, in un mobile disposto obliquamente e che ne pari il vano fra i due (molto chic, fa ancora più effetto con qualche pianta verde)”. Quanto al modo di sistemare i libri, elenca: “ordine alfabetico, ordine per continente o paesi, ordine per colore, ordine in base alla data di acquisto, ordine secondo la data di pubblicazione, ordine per formati, ordine per generi, ordine seguendo i grandi periodi letterari, ordine per lingua, ordine per priorità di lettura, ordine per rilegature, ordine per collane”.
Specifica inoltre che “conviene distinguere le classificazioni stabili da quelle provvisorie .. queste ultime destinate a durare appena qualche giorno in attesa che il libro trovi, o ritrovi, il suo posto definitivo”, e questa precisazione porta alla mia memoria i grandi trasferimenti che ogni tanto in casa sconvolgono la mia ricerca di testi che credevo in un posto e invece sono stati spostati in un altro, problema evidentemente non solo mio, visto che Perec conclude: “aspettando l’ordine, li trasporto da una stanza all’altra, da uno scaffale all’altro, da un mucchio all’altro, e mi capita di passare tre ore a cercare un libro senza trovarlo, ma con la soddisfazione, a voltre, di scoprirne altri sei o sette che mi vanno bene lo stesso”.
L’intero testo rispecchia lo stile di Perec: guardare il quotidiano attraverso la memoria autobiografica e il gusto ludico sollecitato dall’Ou-Li-Po nella creazione di contrasti e virtuosismi di prodezze.
Come nel capitolo Considerazioni sugli occhiali, vero esercizio per cimentarsi con l’arte dello scrivere, partendo proprio da questo spunto: A proposito di quanto sia difficile parlare di occhiali in generale e nel mio caso in particolare. L’autore dedica ben quindici pagine a descrivere l’oggetto in sé nelle sue particolarità e nei diversi periodi storici e al rapporto con il soggetto che li indossa.
Specificità d’uso: certuni portano gli occhiali per tutto il giorno, altri in qualche occasione ben precisa, per esempio per guidare o per leggere … Posto degli occhiali: alcune persone tengono gli occhiali anche quando non li usano; li spostano sulla fronte o decisamente tra i capelli: altre, che devono avere una costante paura di perderli, li lasciano penzolare attorno al collo servendosi di una catenella; altre ancora li sistemano in una particolare custodia .. altre invece li posano sempre e rigorosamente allo stesso posto, in un cassetto del comò, sulla mensola del lavabo o di fianco al posto per vedere la televisione. Pulire gli occhiali: so che esiste una carta speciale che certi ottici danno in omaggio … molte persone invece …usano comunemente tutto ciò che capita loro a portata di mano: fazzoletto, Kleenex, tovagliolo, angolo di tovaglia, ecc. Gesti con gli occhiali: poiché si ritiene che gli occhiali conferiscano un’aria severa a chi li porta, alcune persone se li tolgono in segno di benevolenza … grattarsi la fronte con gli occhiali o mordicchiare le stanghette sono segni di profonda riflessione”.
Emblematico il capitolo che dà il titolo al testo Pensare/classificare: “E’ talmente forte la tentazione di distribuire il mondo intero secondo un unico codice! Una legge universale reggerebbe l’insieme dei fenomeni: due emisferi, cinque continenti, maschile e femminile, animale e vegetale, singolare, plurale, destra sinistra, quattro stagioni, cinque sensi, cinque vocali, sette giorni, dodici mesi, ventisei lettere. .. Con le mie classificazioni ho sempre un problema: non durano … il gran numero delle cose da mettere a posto, la sensazione che sia quasi impossibile distribuirle secondo criteri veramente soddisfacenti, fanno sì che non ci riesca mai e che mi fermi a sistemazioni provvisorie e vaghe.. Il risultato finale è dato da categorie che, quanto meno, sono strane; per esempio una cartellina piena di scartoffie varie sulla quale si trova scritto “Da classificare” o un cassetto con l’etichetta “urgente 1” che non contiene nulla (nel cassetto” urgente 2” c’è qualche vecchia fotografia, in quello “urgente 3” alcuni quaderni nuovi”). Insomma, me la cavo”.
Anche in queste parole c’è un vago rispecchiamento di ciò che accade nella nostra casa e nei nostri contenitori, visto che entrambi, nelle reciproche diversità, godiamo del furor classificatorio.
Godibilissima la lettura di queste pagine in cui troviamo inserite considerazioni anche intorno ai temi delle case abitate, di schede di cucina, di stanze di analisi, di scrivanie, di città ideali, di moda … una vera immersione nell’arte dello scrivere senza frontiere.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Jorn De Précy (2012) E il giardino creò l’uomo Traduzione di Laura De Tomasi Ponte alle Grazie, Adriano Salani Editore
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Jorn De Précy (2012)
E il giardino creò l’uomo
Traduzione di Laura De Tomasi
Ponte alle Grazie, Adriano Salani Editore
E’ quasi l’ora del risveglio e il movimento del giardino inizia ad essere percepibile.
Quale migliore lettura di un testo che grazie alla perizia dello storico di giardini Marco Martella è stato riportato alla luce e reso in Italia accessibile attraverso la sua traduzione?
Parlo di “E il giardino creò l’uomo” il cui titolo non rende onore al ben più affascinante “The lost garden” dell’edizione originale.
E’ stata una vera sorpresa scoprire pagina dopo pagina la strabiliante attualità di questo breve trattato scritto nel primo decennio del Novecento. Come sempre, se la Storia non cadesse nell’oblio collettivo, molte sorprese del presente non ci apparirebbero più tali.
L’autore infatti intreccia concetti evidentemente arcaici con sentimenti misantropici tuttora in auge e alla cui difesa si ergono molti movimenti d’azione e di pensiero.
Così viene definito Jorn De Précy dal curatore del libro Marco Martella:
“Un uomo distaccato, timido e orgoglioso allo stesso tempo. … Giardiniere-filosofo amava prendersi gioco dei pensatori di professione, diffidava delle teorie e dei sistemi filosofici e si limitava a manifestare le proprie idee senza cercare di approfondirle né di argomentarle … più che pensare da filosofo, viveva da filosofo. … Alcune delle idee contenute nel Lost Garden fanno ormai parte della nostra visione del mondo; in piena era positivista, però, suonavano assai all’avanguardia: la solitudine dell’uomo-massa, la proliferazione di quegli spazi che Marc Augé chiama non-luoghi della surmodernità, il nomadismo dell’individuo moderno”.
Greystone è il nome del giardino perduto.
La preoccupazione di De Précy che dopo la sua morte il destino della sua “creatura” fosse incerta si dimostrò fondata. Infatti, dopo la sua scomparsa e quella del giardiniere Samuel cui aveva lasciato in eredità Greystone, il giardino si trasformò in una giungla e nel 1956 la proprietà fu trasformata in un hotel di lusso. “Oggi dell’antico giardino non resta nulla, tranne qualche vecchio cedro e il tracciato dei sentieri principali, ormai asfaltati e bordati di begonie, fiori che De Précy detestava sopra ogni cosa”.
Ma che cos’era il giardino per De Précy? Così spiega Jorn: “Questo libro non è l’ennesimo trattato che ha per oggetto regole compositive, ma piuttosto una meditazione su quell’arte dei giardini che è molto più di un’arte…. Il giardinaggio, caro lettore, non è che un dialogo ininterrotto con la terra”.
E da qui si parte a ritroso fino ad incontrare la potenza del Genius Loci e alla necessità dell’uomo di venire a patti con lo spirito del luogo: “…capitava di incontrare dei simulacri, mezzo nascosti dalla vegetazione e l’edera dove spuntavano cespugli di alloro. Al centro delle radure si ergevano altari dedicati a dèi spesso di origine etrusca, talvolta anonimi. Là, immersi nella natura e nel mistero del sacro, gli uomini si sovvenivano della propria origine. Il patto con la terra si rinnovava”.
Rimpiange De Précy l’idea pagana e la visione animistica del mondo. Non si preoccupa di esternare il suo dissenso verso la società civilizzata e il primato della ragione:”Niente più dèi per noi, dunque. Tutt’al più abbiamo il diritto di credere nel Dio delle religioni monoteiste, il quale, ritiratosi nel suo cielo astratto, separato dal mondo degli uomini, ha sgombrato il campo dalle divinità puerili, e dall’identità spesso confusa, dei politeisti. … La terra continua ad esprimersi … Ma poiché non è più guidato dagli dèi, e ha voltato la schiena alla natura, l’uomo non ascolta più” e al tempo stesso si consola ricordando che tuttavia la divinità dei luoghi è ancora altamente considerata in Giappone, in certe popolazioni africane, nell’Indiano d’America o nell’Aborigeno australiano, reputati da tutti civiltà primitive e quindi inferiori.
Nostalgico? Certamente sì.
Pessimista? Proviamo a leggere queste parole senza farle risalire ai primi del Novecento: “Da più di un secolo, a seguito dell’industrializzazione e del processo di urbanizzazione, la città si è gradualmente affrancata dal suo territorio fino a diventare un mondo a sé…Non è costituita che di spazi freddi, inospitali, tutti simili fra loro … Questi luoghi anonimi, insulsi, fatti per le masse e non per l’individuo, sono unicamente dei sostituti di ciò che un tempo erano i luoghi della vita umana. Sono l’espressione di un’idea astratta, e quindi disumanizzante, dell’uomo” e vi troveremo la forza antesignana delle parole dell’antropologo Marc Augé.
Ancora: “Non sono mai riuscito a superare la mia allergia per la tecnologia moderna .. Per qualche ragione questi apparecchi sono sempre brutti, producono suoni sgraziati e, soprattutto, impoveriscono il mondo”. L’apparente facoltà della tecnologia di liberare l’uomo dalla fatica del lavoro, in realtà è solo l’anticipazione della sua alienazione.
E’ sempre più complesso per l’autore riuscire a trovare i luoghi fantasma, quei luoghi cioè dove “lo spazio è come carico di una strana densità, di una profondità insondabile, come se qualcosa della vita degli uomini e delle donne che lì hanno pregato, amato, sofferto e sognato” o perché distrutti o perché resi monumenti per attirare la fame di distratti visitatori. Si interroga De Précy: “che cosa accadrà quando tutti disporranno dei mezzi per concedersi questo surrogato del viaggiare che è il turismo?”. Un secolo dopo solo noi riusciamo a dare una risposta.
Ma cosa fa di De Précy un giardiniere filosofo? Il fatto che ritenga il giardino come ultimo rifugio degli dèi e degli uomini. Nel giardino “non ci si spinge in avanti, come il tempo meccanico che ormai governa le nostre esistenze … Non vi sono scopi da ottenere, né obiettivi da raggiungere, perché la vita ha un solo fine: se stessa… Ritrovare questa vita, la vera vita, e questo tempo della natura che è anche il nostro vero tempo … ecco che cosa ci spinge ad aprire il cancello di un giardino e a entrarvi”.
Il vero giardiniere “sa benissimo che non otterrà alcun risultato se si affiderà esclusivamente alla proprie capacità e alla propria tecnica .. gli dèi talvolta sono ostili” … Il giardiniere ha uno sguardo da filosofo quando scruta il cielo e il passaggio delle nuvole. Con la passione del poeta interroga il mondo che lo ospita e che è infinitamente più grande di lui”.
Lavorare la terra richiede che ci si metta in ginocchio e si rispetti la sua sacralità. Il giardiniere-filosofo sa che la sua opera è effimera perché la natura è indomabile e la tavolozza dei colori è destinata a sbiadire per cedere il posto ad altre combinazioni e altre gradazioni dettate dal giro delle stagioni. Ma di questo non si dispera perché curando la terra, si prende cura della vita e la interroga, accordando i propri desideri con quelli del luogo.
C’è un unico modo per entrare in comunione con la natura e questo farà scuotere la testa a molti che inseguono la voglia del controllo e della composizione artificiale finalizzati ai “bei quadretti”. Occorre infatti saper ascoltare il giardino e restituirgli la sua selvatichezza.
In termini pratici “bandire dal giardino i fiori annuali esotici, le loro forme artificiali e i loro colori chiassosi … le serre e soprattutto le orribili aiuole fiorite a favore delle piante semplici, umili e colme di magia delle foreste e delle campagne.. Nel suo libero svilupparsi, la natura, appena guidata dalla mano del giardiniere, deve poter dialogare con la dimora; lo spazio vegetale deve mescolarsi a quello dell’uomo, fino a confondersi con esso”.
E’ questo il principio che guida la mano del nostro giardiniere-filosofo e lo ritroviamo nella descrizione del suo amato Greystone: “il visitatore che ama i giardini convenzionali rimarrà un poco sconcertato, In questa mescolanza di costruito e vegetale vedrà solo l’eterna lotta che oppone l’uomo alla natura, con un netto e inquietante vantaggio a favore della seconda. Ma che noia, questa vecchia lotta, che in realtà esiste solo nella mente degli esseri umani! No, nell’architettura vegetale della mia casa vi invito a leggere piuttosto un accordo, un’alleanza, la forma visibile di un ritrovato amore fraterno”.
Le dieci pagine dedicate al giardino di Greystone ci conducono in uno scenario poetico di foglie, fiori, alberi, arbusti, pietre, viti, verdure e molto altro ancora, fino a far immaginare persino la casa dello scrittore una prosecuzione del giardino.
La passione di De Précy ulteriormente traspare nella preoccupazione dell’approssimarsi della fine della propria vita e del destino del suo giardino, e non solo. Del destino di tutti i giardini, poiché “interrogarsi sul giardino significa interrogarsi sull’umanità”.
E ora che Greystone non esiste più, rimangono i suggerimenti di chi l’ha molto amato:
“Fate giardini! Tracciate il vostro disegna sulla faccia della Terra, che si presta sempre volentieri ai sogni dell’uomo, piantate un giardino e prendetevene cura. … Lavorate con i poeti, i maghi, i danzatori e tutti gli altri artigiani dell’invisibile per rimettere al suo posto il mistero del mondo. .. Non avrete il desiderio assurdo di cambiare il mondo: farete solo un piccolo spazio alla vita. … Gli dèi sono dalla vostra parte. Stanno aspettando gli uomini, sorridendo dei loro errori e delle loro speranze, dietro il cancello aperto del giardino”.
L’uomo tartaruga di Zàachila, Macario Matus, in Poesia n. 279, febbraio 2013
Zàachila fu la seconda dimora
degli zapotechi, dopo Teotitlan
del Valle. Si sapeva che sotto il paese
c’erano quattro ramarri che reggevano il mondo.
Ma in una delle tombe trovate
apparve l’uomo tartaruga, con la testa
coperta con pelliccia di ozelot. Nelle mani
portava una daga di ossidiana, frecce
e guaine di corteccia vegetale come scudi.
Disgraziatamente fu abbattuto a tradimento.
Di fronte è impossibile dominarla,
con le sue fauci e la lingua potente
strappa dita e mani nemiche.
In pericolo mette la testa sotto il carapace,
scende nel fiume, rotola sulla sabbia del mare
e scappa fra le onde bianche di schiuma.
Sgravatasi, cova i suoi figli sulla tiepida spiaggia.
Dopo qualche tempo ritorna solo per guardare
la prole alzarsi, scomparire
davanti all’oceano, alla terra e agli uomini.
(Macario Matus)
TartaRugosa ha letto e scritto di: Keisuke Matsumoto (2012) Manuale di pulizie di un monaco buddhista Spazziamo via la polvere e le nubi dell’anima Antonio Vallardi Editore, Milano (traduzione di Ramona Ponzini)
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Keisuke Matsumoto (2012)
Manuale di pulizie di un monaco buddhista
Spazziamo via la polvere e le nubi dell’anima
Antonio Vallardi Editore, Milano
(traduzione di Ramona Ponzini)
Leggendo questo libro ho scoperto qualche mio tratto buddista. Forse.
Non sono una maniaca delle pulizie, però ho ben chiari certi miei comportamenti rispetto ad esse, le cause che li scatenano e gli effetti che ne derivano. Sicuramente Matsumoto mi ha fatto più volte rispecchiare in alcune affermazioni.
Purtroppo sono ancora ben distante dallo Zengosaidan, ovvero “non pentirti di ciò che hai fatto in passato, non preoccuparti per il futuro e dedicati con tutte le tue forze a non avere mai rimpianti”.
Mi riconosco abbastanza in ciò che invece lo scostamento da questa filosofia comporta, come spiega l’autore: “Credo che le persone che vivono nella società contemporanea, sempre così indaffarate, arrivino a casa stanche, lascino i piatti sporchi nel lavandino, i vestiti nel cesto del bucato e poi si addormentino. La mattina seguente, però, si sveglieranno freschi e riposati? Non è più probabile che si sveglino tristi perché salutano il nuovo giorno circondati da tutte le cose lasciate in disordine la sera prima?”
Mmmh …
La casa in disordine effettivamente mi inquieta e la tendenza a non trascurare almeno bagno e cucina con annessi e connessi, più il rifacimento del letto prima di uscire sono senz’altro attività che mi fanno guardare alla giornata con un senso di maggior leggerezza.
Non c’è luogo come il bagno che sveli il vero volto di una casa. … L’acqua è il fondamento della vita. In una casa normale l’acqua si trova in cucina e in bagno. L’acqua entra nel nostro corpo, circola e poi viene espulsa, ritornando alla natura. Le pulizie di cucina e bagno sono basilari nelle pratiche religiose proprio perché siamo coscienti del fatto che sono i luoghi dove scorre l’acqua…. In qualsiasi tempio buddhista il bagno è sempre pulitissimo e davanti alla porta si troveranno le calzature sistemate con cura. Anche il gabinetto trasmette un senso di pulito e questo fa sì che vi si possano espletare le correlate funzioni con animo sereno. Sicchè, chi ha finito di utilizzarlo, dovendo fare in modo di non turbare tale atmosfera a scapito di chi vi entrerà in seguito, si preoccuperà di lasciare tutto pulito e in ordine.
Ho inoltre dato una spiegazione al perché i vetri sporchi mi turbano e mi danno la sensazione di essere immersa nello sporco:
Il vetro è simbolo di trasparenza e di non attaccamento alle cose terrene. Se nei giorni nuvolosi i vetri delle finestre sono coperti di ditate, anche la nostra anima si rannuvolerà. Nel buddhismo la cosiddetta “giusta visione”, ossia il vedere attraverso il filtro di noi stessi, il nostro io, sconfigge ogni nube e permette di comprendere la vera essenza delle cose. … Le finestre sono, dunque, in qualche modo legate alla giusta visione delle cose e pulirle fino a farle sembrare trasparenti, fino, cioè, a farci dimenticare della loro esistenza, ci permette di vedere dall’altra parte senza renderci conto che c’è qualcosa che ci separa. Puliamole, dunque, fino a far sparire ogni ombra.
Vorrei essere un po’ più monaca, a questo riguardo, e utilizzare le raccomandazioni sul come effettuare le pulizie del vetro: è essenziale la carta del giornale. Bisogna utilizzare carta di grandezza commisurata a quella del vetro da pulire, imbevuta della giusta quantità di acqua e detergente, e lucidare a fondo. .. Bisogna prima togliere le macchie più evidenti con movimenti verticali e orizzontale, fino a finire la miscela di acqua e detergente .. suggerisco di mescolare aceto e acqua insaponata.
Nel testo sono parecchie le indicazioni date sia sul come eseguire le pulizie, sia su quali strumenti utilizzare. Sui pavimenti ho ancora molto da imparare:
I pavimenti vengono puliti ogni giorno, indipendentemente dal fatto che siano sporchi. Grazie a questo tipo di pulizie anche il nostro spirito si manterrà lucente…. Lucidare i pavimenti tutti i giorni vi permette di capire cosa significa realmente pulire la vostra anima. Una stanza sporca e in disordine è segno che anche il vostro spirito è sporco e in disordine.
Però mi consola verificare che sul “come lucidare i pavimenti” sono abbastanza a buon punto:
Per prima cosa bisogna passare la scopa e togliere la polvere, poi si prendono un secchio colmo d’acqua, uno straccio ben strizzato e si pulisce a fondo. Non sono necessari detergenti né stracci per asciugare. Poiché uno straccio ben strizzato trattiene l’acqua, una volta passato sul pavimento quest’ultimo si asciugherà da sé. .. Quando lucidiamo un pavimento non distraiamoci e concentriamoci su ciò che stiamo facendo, con naturalezza ci troveremo faccia a faccia con la nostra anima.
Ecco, guardando anche l’illustrazione dove si vede il monaco diligentemente a carponi che strofina il pavimento, debbo dire che io pure assumo quella posa, a dispetto di tutti gli elettrodomestici in commercio da me giudicati non all’altezza dell’antico olio di gomito, accompagnato dalla modernità di un panno in microfibre che un’amica mi ha suggerito e che, immerso e strizzato nell’acqua bollente, effettivamente ti fa rispecchiare nelle piastrelle.
Comunque l’insegnamento è impari: i monaci vivono nel tempio e non hanno tre gatti che girano per casa, oltre a TartaRugoso.
Sullo stirare temo non ci siano possibilità di recupero:
Anche noi monaci indossiamo l’abito monacale dopo averlo stirato. Così facendo il nostro spirito sarà ben curato e in armonia con il nostro vestiario. Le grinze, inoltre, rimandano la mente alla vecchiaia, sebbene ci siano monaci che continuano a svolgere in maniera ineccepibile le proprie attività anche a ottanta o novant’anni, in perfetta salute. … Stirare è l’attività ideale per chi vuole mantenere giovane il proprio spirito.
Si sente che l’autore è ancora nell’età in cui si pensa che le grinze possano essere ripassate facilmente come con il ferro da stiro!
Molti sono i suggerimenti pratici per chi si voglia avvicinare a meditazioni filosofiche e spirituali attraverso il fare le pulizie.
Chissà se riuscirò prima o poi ad arrivare alla seguente conquista:
Ogni cosa sta dove deve stare. Può sembrare ovvio, ma se si applica concretamente questo principio, non si correrà più il rischio di imbattersi in qualcosa fuori posto. Quando dobbiamo utilizzare un oggetto lo prendiamo dal luogo dove è collocato, ma una volta usato lo rimettiamo dov’era. … Sentire la voce delle cose. Lo spirito non va mai tenuto in una condizione di trascuratezza. Se usate le cose con cura, inizierete a sentire bisbigli all’orecchio dello spirito e sarete in grado di udire la loro stessa voce. Al contempo, è necessario conoscere a fondo lo spazio di sistemazione, ossia la stanza va percepita come se fosse una parte del nostro corpo e va pulita ripetutamente giorno dopo giorno. Capire l’essenza degli oggetti e avere dimestichezza con lo spazio in cui si trovano, ci permetterà di capire dove gli stessi oggetti vogliano essere riposti. E non dimenticate che tutti possono raggiungere questo stato mentale.
Nel mio spazio di solito i bisbigli non sono quelli delle cose, anzi sarebbe più corretto non definire bisbigli le esclamazioni ad alta voce su dove esse dovrebbero trovarsi e su dove diavolo siano invece sparite.
Tuttavia lo spazio di sistemazione lo conosco proprio bene, considerato che anche nel disordine la maggior parte delle volte alla fine le cose si trovano!
In ogni caso nulla da obiettare sulla serenità dell’ordine. Non so se corrisponda a un ordine spirituale. Per quello che mi conosco, il mettere ordine è un esercizio che svolgo quando ho finalmente terminato qualche compito gravoso che teneva impegnata la mente. Una volta finito l’onere mentale, è quasi automatico che segua analogamente un’operazione di riordino dello spazio fisico.
Temo però che questo sia il processo inverso di ciò che predica la filosofia buddista.
In ricordo di Lecce
Che gatti
Un nuovo anno pare sia arrivato. Me ne sono accorta dall’eco lontano dei botti, quegli stessi che rompono il caldo dell’aria nella notte di san Lorenzo, turbando il mio sonno.
Almeno qui, sotto il protettivo strato di terra, questi fragori servono da calendario rassicurante: siamo in inverno e ancora molto ha da passare prima ch’io possa risalire di nuovo verso l’alto scoperto.
Che, a dirla tutta, questo sopra che giace a coprirmi mai come quest’anno è desolante.
E’ vero che noi tartarughe siamo piuttosto introspettive e deliziate dalla solitudine, ma ormai mi ero abituata a un rumore ben più dolce dei botti: quello di altrui zampe che scavano nel cumulo delle foglie secche per formare un caldo giaciglio.
Papà pino, infatti, affonda le sue radici nel punto più caldo del sentiero e, nelle giornate buone, i corti raggi solari non solo riparano la mia nicchia nascosta, ma offrono un buon punto di siesta anche per gli amici a quattro zampe.
Dicevo che quest’anno è desolante: giusto il primo gennaio di un anno fa sentivo le voci dei due umani che chiamavano – invano – la gatta bianca Noelle. So per certo che non è mai stata trovata.
Ma il 2013 annuncia un altro evento: per la prima volta non si ode più il passo vellutato degli abitatori felini di questo mio stesso luogo. Sono tutti migrati verso mete più adatte alla loro salute. Uno, Silvestro, invece non ce l’ha fatta e non tornerà più a dormire sul cuscino degli aghi del pino.
E mentre attendo il nuovo solstizio e la fine dello svernamento degli inquilini estivi, mi godo le pagine di Che gatti, consolando il ricordo un po’ triste con le storie di Bice e Nino, i due gatti di Alessandra e Paolo cui, alla prima, devo alcune bellissime fotografie che mi hanno consegnato all’eternità fra le mani e il sorriso di Luciana.
Non sono gelosa dei gatti, so che possono dare soddisfazioni maggiori di noi tartarughe e sono quindi felice quando ascolto le storie di chi condivide la sua vita con queste imprevedibili bestiole: “voglio arruffianarmeli il più possibile perché continuino a sceglierci come loro compari a due zampe”, afferma Alessandra.
E come non crederle? Curiosando nel suo quadrotto fotografico che ancora reca con sé l’acceso rosso natalizio, ingentilito dalle orme simili a grandi fiocchi di neve intorno ai musetti sognanti di Bice e Nino, assistiamo alla scansione del giorno dei due amati quattrozampe.
In punta di piedi, fra le oniriche visioni di ciò che si annunciava come presentimento, conosciamo l’ingresso non già del primo gatto, ma della seconda creatura in casa di Ale e Paolo e la sua diffidenza sconfitta a poco a poco grazie alla giocosa e infantile cavalleria di Nino “nonostante la stazza non indifferente e la pelliccia leonina color caffellatte, rassomiglia a quegli adulti di cui si dice che non sono mai cresciuti, quelli sempre pronti a giocare…”
E in effetti, i cambiamenti della crescita si notano pagina dopo pagina, cadenzati dai mutamenti del trascorrere delle ore. Le lunghe ore dedicate agli appostamenti “prima la caccia, poi la filosofia”, ai sonnellini goduti negli anfratti più originali, alle conservatrici abitudini così scarsamente comprese, a volte, dagli umani, agli irresistibili teppismi che strappano risa (e talvolta sgridate senza successo) per l’inesatto paragone tra oggetti di casa ed elementi della natura, all’intersezione fra mani e zampe, entrambi mezzi vitali per il benessere reciproco di bipedi e quadrupedi.
Così racconta Alessandra fra scatti e parole il suo amore per i gatti. E convince!
Nell’intimità del calore della casa e negli abitudinari gesti del quotidiano questi gomitoli di pelo sostano, dormono, girovagano, saltano, giocano, amano. E scatenano voglia di coccole.
Se avete voglia di conoscerli potete richiedere Che gatti direttamente ad Alessandra: alessandracicalini@gmail.com
E chissà che insieme al quadrotto non arrivi anche una dedica personalizzata dell’autrice e, perché no, un ‘impronta autografica direttamente dai cuscinetti delle zampe dei due protagonisti!
TartaRugosa ha letto e scritto di: Andrea Bajani (2006) Mi spezzo ma non m’impiego Einaudi, Torino
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Andrea Bajani (2006)
Mi spezzo ma non m’impiego
Einaudi, Torino
Da una dichiarazione di Pietro Ichino: “La Lista Monti è più a sinistra del Pd”.
Se guardiamo l’operazione Monti con gli occhi dei giovani, delle donne e degli over 55 esclusi dal mercato del lavoro e di tutti gli outsider – ha detto ancora Ichino – oserei dire che l’agenda Monti è più dalla parte dei deboli e degli ultimi di quanto non sia il programma del Pd.
Siamo a fine anno e già totalmente immersi nella prevedibile, tormentata campagna elettorale. Lo scenario però si è arricchito proprio nel momento in cui sembrava che all’orizzonte si profilassero i due classici blocchi l’uno contro l’altro armato.
Secondo il la mia opinione, il lavoro rappresenta il punto nodale su cui concentrare ogni sforzo per rimotivare gli italiani verso la politica. Mettere in agenda questo punto vuol dire uscire da visioni ormai ammuffite appartenenti a quelli che si definiscono di destra o di sinistra: li primi volti a tutelare gli interessi dei già arrivati, di quelli che se per caso perdono il lavoro ricevono in cambio cifre da sogno; i secondi a credere che debbano essere sì tutelati gli interessi del lavoratore, ma solo di quello dipendente.
Ho conosciuto solo recentemente l’autore Andrea Bajani (vedi Cordiali saluti) che affida a “Mi spezzo ma non m’impiego” un’analisi dettagliata, affilata come lama e colorata da un’ironia che rende ancora più tragica la descrizione di che cosa significa la modernità del lavoro d’oggi. In un modo singolare: una collezione di fotografie di vetrine di agenzie di lavoro e un anno di viaggio lungo lo Stivale nel mondo del precariato.
Se la vita per alcuni è la somma di una serie di soggiorni lavorativi, “per un viaggio bisogna prepararsi, non si parte così, improvvisando. Ci sono corsi di formazione, master e quant’altro. Ci sono gli uffici turistici del lavoro. Poi ci sono quelli che si organizzano giorno per giorno i propri viaggi da soli, ma in qualche modo devono partire anche loro. Tutti, in ogni caso, hanno pacchetti di viaggio: contratti a progetto, Partita Iva, contratti di inserimento”.
La formazione
La formazione qualifica, dà quel qualcosa in più a tutti, visto che a diplomarsi e laurearsi son capaci tutti. Fare i master è un buon modo per essere un po’ di più del professionista, e questo nel mondo del lavoro è importante.
“Un master può costare tra i 6.000 e i 12.000 euro all’anno. Ma che sarà mai? .. Se per farlo i figli dovranno spostarsi a Milano o Roma e pagare anche un affitto, che sarà mai? … Tra vitto e camera in affitto, sono 9.000 euro? Vada per 9.000. Più 6.000 che sono quelli del master. Segnamo 15.000 euro all’anno, che per due anni fanno 30.000 euro. … E che sarà mai? Alla fine però diventano professionisti. Ovvero: fanno uno stage gratuito in azienda”.
E la formazione per “vendere” se stessi?
Indispensabile quella di come si scrive il proprio curriculum:”per guadagnarsi un colloquio di lavoro è indispensabile un curriculum fatto a regola d’arte, come sono a regola d’arte le autobiografie solo quando sono scritte a dovere”.
Non meno importante è quella relativa a come sostenere un colloquio di lavoro “Seguire un corso di formazione in cui insegnano, tra l’altro, ad affrontare al meglio il colloquio è un investimento che vale la pena…. Bisogna arrivare in orario, prima di tutto. … E’ molto importante che lo spieghino, al corso, perché qualcuno potrebbe considerarlo un dettaglio trascurabile…. Altro dettaglio da non trascurare è la Postura sulla sedia. Anche questo è una fortuna, che venga specificato. C’è gente che gira la sedia e si siede con la spalliera in mezzo alle gambe”.
Il lavoro atipico
“Alcuni si manifestano per acronimi: co.co.co per Collaborazione Coordinata e Continuativa (ormai in dismissione e destinati all’archeologia del lavoro), co.pro per Collaborazione a Progetto (i collaboratori sono detti stroboscopicamente anche lap, ovvero Lavoratori a Progetto). Altri contratti hanno nomi meno esotici, ma a loro modo singolari: contratto di Lavoro Intermittente (lo vedo, non lo vedo più, lo vedo, non lo vedo più, lo vedo, non lo vedo più, lo vedo?, boh), contratto di Lavoro Ripartito (un po’ per uno, come si dice ai bambini scalmanati di fronte al padellone dei pop corn). Altri ancora hanno nomi da infermeria: contratti di Somministrazione di Lavoro. Altri hanno nomi ossimorici ed esilaranti: contratti di Collaborazione Coordinata e Continuativa occasionale. … Ci si incontra, ci si stringe la mano e ci si dice “sono una Partita IVA”, “sono un co.pro”, e via così. Quando arriva uno che si presenta dicendo “sono un tempo determinato” non si sa bene come reagire”.
La Partita IVA
Molti dei lavoratori dipendenti, quelli che si continuano a lamentare di essere gli unici a pagare le tasse perché appunto essendo dipendenti hanno la busta paga e non possono pertanto evadere, sono assolutamente convinti che chi possiede una Partita Iva sia un ricco borghese professionista che specula proprio sui lavoratori dipendenti. In genere si fa questa affermazione commentando la parcella di un medico specialista, ma ora che i lavoratori atipici stanno diffondendosi “su comando” anche all’interno delle aziende, appare ancora più convinta l’affermazione che l’azienda si preoccupa di affidare tutto alle partite IVA, trascurando gli avanzamenti dei dipendenti. Si commenta inoltre la cifra delle fatture, ignorando che di quel totale esposto, il 50% viene decurtato per ritenute varie e che non esistono compensi per le ferie, né tanto meno per le malattie. “Il mercato dei farmaci d’altra parte ha fatto sufficienti progressi da consentire di portare avanti il progetto aziendale anche con qualche linea di febbre. Ci si alza la mattina, ci si infila il termometro sotto l’ascella, si verifica di avere la febbre, ci si caccia in bocca una pastiglia di Tachipirina e si sale sull’autobus. I farmaci li hanno inventati apposta per questo”. Se qualcuno pensa al prestigio, beh, effettivamente “Grazie alla Partita Iva il collaboratore diventa una Ditta Individuale. Diventare una ditta è un privilegio che una volta avevano in pochi. Diventare addirittura il titolare (Titolare della Ditta Individuale Omonima) nemmeno nei sogni più rosei lo si poteva sperare. Per questo l’azienda insiste tanto che si diventi Partite Iva. E’ un modo per dare una forma di gratificazione ai lavoratori”.
Il cinquantenne che perde lavoro
“Il cinquantenne che comincia a fare vita precaria è una persona molto nervosa…. In cucina, la sera, chiede alla moglie perché mai, dopo aver fatto lo stesso lavoro per tutta la vita, dovrebbe cominciare adesso a farne uno diverso. E non capisce perché, come gli dicono, questa dovrebbe essere un’opportunità. …Nel frattempo anche la moglie ha cominciato a fare lavoretti per raggranellare un po’ di soldi, e alla fine del mese sono sue le entrate maggiori. E’ per questo che il cinquantenne che ha perso il lavoro si inalbera ogni volta che lei tenta di dargli conforto. … Dopo aver rifiutato un paio di chiamate dall’agenzia per lavori considerati poco degni … il cinquantenne decide di accettare il primo lavoro che arriva. … I primi tempi, lo trattano tutti come se fosse un fallito, perché uno che a cinquant’anni comincia a consegnare le pizze col motorino è sicuramente uno a cui qualcosa è andato per storto. … Ma poi le cose cambiano, e insieme alle cose cambiano anche i lavori, qualche volta più lunghi, qualche volta più brevi. .. Il giorno poi, che il cinquantenne si trova a fianci a fianco del figlio a fare lo stesso lavoro, a tutti e due scappa da ridere”.
E poi Bajani nel raccontare il suo viaggio nel mondo del precariato non trascura le mete dei posti di lavoro, gli orari degli spostamenti, l’orario complessivo di una giornata, i compensi, gli stage, la creatività e la varietà del lavoro occasionale. Dentro quindi nei call center, nei supermercati, nelle scuole, nei servizi editoriali, nelle imprese di pulizia, nelle palestre, nelle case con anziani, nelle fabbriche e persino nei teatri passando da radio e animatore turistico.
Si cimenta, nella conclusione, con qualche numero: “Quanti sono i precari in Italia? Sono tanti o sono pochi. Sono milioni, in ogni caso. Il numero esatto, poco importa. Sono milioni di uomini e donne che vivono in una situazione di costante incertezza. E se i milioni sono pochi, vorrà dire che questo libro è stato scritto per una ristretta cerchia di persone”.
Io sono una di quei milioni Della precarietà so che fa parte della vita e da quando sono precaria non me ne faccio spaventare più di tanto. Ma posso dirlo perché gli anni vissuti cominciano ad essere significativi.
Per i giovani di oggi, invece, sento di avere una responsabilità individuale forte nel creare condizioni diverse da quelle attuali. Ecco perché, nel 2013, sceglierò il programma di chi non si limita a considerare il lavoro un diritto inalienabile, ma parallelamente si occuperà di tutelare anche i diritti del lavoro “atipico” perché:
“Quel che è certo è che gli “atipici” sono dappertutto e … quando gli “atipici” cominciano a diventare sufficientemente “tipici”, perché continuare a definirli “atipici”? Detto altrimenti: se quella che sta diventando sempre di più una norma viene considerata una situazione di “eccezione”, non si sta forse sottovalutando, scientemente, il problema?”
TartaRugosa ha letto e scritto di: Andrea Bajani (2005) Cordiali saluti, Einaudi
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Andrea Bajani (2005)
Cordiali saluti, Einaudi
Novembre è un mese triste. I colori sfolgoranti dell’autunno hanno già imboccato la mortifera conversione del disfacimento, le giornate corte non aspirano ancora al debole allungamento che si profila nel gelo invernale, la temperatura più che fredda è umida e pesante da indossare.
Qua sotto, nelle viscere della terra, intuisco questo clima e me ne sto immobile, ad aspettare e pensare a questa mia nuova lettura.
Il libro di Bajani si confà a questa malinconica atmosfera.
Cordiali saluti, infatti, è una forma diffusa di congedo, che si pone al termine delle lettere non indirizzate ad amici. E la malinconica amarezza che trasuda da questo breve testo riguarda per l’appunto una serie di lettere che il protagonista si trova a dover scrivere per licenziare, con delicatezza, i lavoratori in esubero di un’importante azienda.
Tale mansione era prima affidata al direttore vendite: “Se ne faceva un vanto, di confezionare commiati personalizzati, in cui trasparissero l’affezione, la gratitudine, la simpatia, il dispiacere, l’imbarazzo e la profonda solidarietà che non poteva non essere evidente in quella comunicazione all’apparenza, ma solo all’apparenza, così freddamente divorzista”.
Ma quando il direttore diventa ex-direttore, succede che qualcun altro debba seguire questa procedura. Non è cosa da tutti, licenziare il collega con benevolenza. Ci vogliono capacità speciali e attenta valutazione. “Tre giorni fa sono arrivati a me. Mi hanno convocato alla direzione personale e mi hanno sottoposto a un test psicologico per verificare il mio grado di sensibilità, empatia, cordialità, fermezza, attenzione al prossimo…. Il test non era difficile, perché ti guardavano e ti chiedevano se dovessi licenziarti tu cosa ti diresti. Tu dicevi cosa ti saresti detto nel caso avessi deciso di licenziarti, e loro guardandoti negli occhi ti dicevano che cosa vedevano nel tuo sguardo. Se vedevano sensibilità, empatia, cordialità, fermezza, attenzione al prossimo avevi passato il turno, ti sedevi al tavolo e ce la mettevi tutta per passare anche lo scritto”.
Tema molto attuale quello delle lettere di licenziamento. Licenziamento, parola grossa. Non sarebbe certo nelle intenzioni di chi lo pratica, ma, si sa, dati i tempi, la crisi, la concorrenza sleale, la precarietà, il mercato che non tira, le vendite in calo, le tasse che strozzano …. non che uno prenda con leggerezza questa decisione, ma la scelta è praticamente d’obbligo.
Oppure si può accompagnare un processo in modo originale.
“il direttore del personale è in piedi su un palchetto, chiede il silenzio unendo le mani in preghiera, l’auditorium è in silenzio. Ci dice Grazie, per prima cosa. … Dice Siamo una grande azienda, applauso. Dice Se siamo una grande azienda è prima di tutto per merito vostro, ovazione. … Ci guarda tutti insieme, dice Che belli che siete, che tanti che siete. Applauso. … Comincia il suo discorso dicendo che è lieto di comunicarci che l’azienda sta per mettere in atto un grande processo di purificazione. … Come fare? Hoteling. Ogni giorno un ufficio diverso. Ogni mattina, dice, prenderete la vostra piccola scatola e andrete a cercarvi un ufficio nuovo in cui abitare la giornata”.
L’ex-direttore vendite si ammala. Ha una ex-moglie e due bambini che non sa a chi affidare quando dovrà subire l’intervento al fegato e allora non ha potuto fare a meno di rivolgersi a chi ha preso il suo posto nello scrivere lettere. “Mi ha detto di non preoccuparmi per il suo fegato, che tanto di sicuro gliene avrebbero dato uno nuovo al più presto. Ha detto che erano contingenze, un giorno perdi il lavoro, il giorno dopo diventi giallo. Era la congiuntura che era sfavorevole, tutto lì”.
La vita a fianco di due bambini ha tutt’altro sapore. “Abbiamo mangiato in cucina nudi, tutti e tre. Martina mi ha detto che col papà la facevano ogni mese, la cena dei primitivi. … Adesso facciamo la cacca, mi ha detto Federico accucciandoci per terra. Ci siamo messi giù, paralleli come a scuola. Pronti, via. ..Martina che rideva e diceva Che schifo, quello non lo facevano nemmeno i primitivi. …Li ho portati a letto puliti che erano le tre, nel letto grande, si sono addormentati come sassi…. Sono dentro l’armadio e non fanno molto per nasconderlo. Entro nella stanza, sento Federico che ride, Martina gli dice Stai zitto che ci scopre”.
E mentre il loro papà si avvicina alla fine dei suoi giorni, il direttore del personale, tornando dal Brasile, incantato dalla capacità di divertirsi degli abitanti di quello Stato, promuove (dopo l’hoteling) il venerdì del libero vestirsi. “un giorno alla settimana, mi spiega, siamo tutti invitati ad essere noi stessi, il venerdì… Il venerdì mattina uno si alza, guarda il calendario, vede che è venerdì, si veste un po’ come gli pare. E’ una bella novità per valorizzare le persone, dice”.
Quando l’ex direttore delle vendite muore: “Adesso che è morto, dice il direttore del personale, l’azienda non può non prendere posizione di fronte alla scomparsa dell’ex direttore vendite Carlo Simoni… Mi ha ripetuto Capisce, non possiamo non prendere posizione, adesso che è morto. … Mi ci metta il suo pathos, mi raccomando. Bastano poche righe, per commemorare il fu ex direttore vendite al cospetto dei parenti”.
E lui, il Killer, lo scrittore di lettere di licenziamento, diventato ora il nuovo direttore vendite (“Non si spaventi, non capita a tutti i direttori vendite, di lasciarci la pelle in quel modo”) si trova impegnato a scrivere un discorso secondo le istruzioni ricevute: “Il tempo di arrivare, salutare i parenti più prossimi, e dire due parole su quanto era bravo l’ex direttore vendite, su quanto mi è dispiaciuto non averlo più in azienda”.
Un compito semplice per il nostro Killer, così abituato a scrivere missive dense di sentimento e riservarsi le ultime righe al congedo (strepitose le lettere scritte a Massimo Sparacqua, Giacomo Quirino, Ines Citterio e Irma De Mello, tutte chiuse, naturalmente, con cordali saluti).
Nella chiesa il direttore del personale legge il discorso vergato dalla mano sicaria, un’appassionante apologia che, come di consueto, chiude dichiarando la vera natura della mission aziendale: “Mi dispiace, e con questo concludo, avergli detto Mi dispiace di fronte al foglio con il quale lo allontanavo definitivamente dall’azienda, così come mi dispiace, di fronte alla sua accorata richiesta di poter fare ritorno un giorno tra di noi, avergli detto Mi dispiace. Mi dispiace, no”.
Il Killer, anch’egli ormai ex direttore vendite è seduto sulla poltrona di un aereo. “Tutto finiva così, con la faccia attonita del direttore del personale di fronte al proprio dispiacere, gli sguardi tra i banchi di chi ha finalmente capito, la mia faccia ora sulla pista oltre l’oblò”.
Specchio dolente, ma efficace, dello spirito aziendale nel tempo della crisi.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Paolo Barbaro (1995) La casa con le luci, Bollati Boringhieri
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Paolo Barbaro (1995)
La casa con le luci, Bollati Boringhieri
Quest’anno l’inverno è calato di colpo. Nemmeno lo spazio necessario per adeguatamente transitare verso il sonno profondo delle giornate più corte
Sul finire di ottobre, infatti, in due soli giorni è successo che dai ventidue gradi del mezzodì, il termometro è sceso a tre gradi, giusto in coincidenza del ritorno dell’ora solare (solare si fa per dire, visto che abbiamo rischiato i primi fiocchi di neve).
Letargo o no, il buio mi porta tristezza. Per questo sono stata attirata dal titolo del libro di Barbaro, la casa con le luci. Un libro, ho scoperto, che parla del tempo visto da due angolature diverse, quella della giovinezza e quella della vecchiaia, quindi con le contraddizioni tipiche di chi per la prima volta incontra i possibili effetti dello scorrere dell’orologio su di sé o sugli altri.
In fondo la storia di Roberto non è così distante da quella di tanti giovani dei nostri giorni, tenute in debito conto le differenze dettate semplicemente dal quasi ventennio trascorso dai tempi narrati, quando esistevano ancora la lira, il servizio militare, il servizio civile di obiezione di coscienza. “Ho preso questo lavoro alla Cooperativa per disperazione, per guadagnare qualcosa, e per dribblare il militare”, spiega Roberto a Christa, anziana signora residente alle Due Torri, casa di riposo che oggi susciterebbe molti controlli da parte delle autorità competenti, stando alle norme igieniche e di sicurezza descritte.
Ma non è la denuncia di un ambiente inidoneo che interessa Barbaro. E’ piuttosto il cambiamento formativo compiuto da Roberto durante la costruzione di un rapporto, con Christa innanzi tutto e gli altri inquilini della casa con le luci, che passa attraverso repulsione e solidarietà, voglia di fuga e attrazione, pietà e amore.
“Perché sei qui”? gli chiede Christa, “Perché non ho trovato altro, e ho bisogno di soldi”. “Solo questo”? Poi c’è la storia del militare. Racconto che ho fatto la domanda di obiettore. “E poi” – dico – “non so, non ho più voglia di studiare”. .. “Insomma – sospira – un po’ non studi, e un po’ non lavori”. “Ma né l’uno né l’altro – dico – mi va bene, non so cosa mi va bene”. “Non ti va bene perché né l’uno né l’altro – mi fa il verso – è un vero lavoro, o un vero studio … Così’ – cerca le parole – così non ci si misura, questo è il punto”.
Già. Questo è il punto. Anche l’amore ha le sue ambiguità, una parte con Mara, l’altra con Deborah, le parti scisse di un ragazzo che vive una realtà divisa in due, quella fuori del mondo esterno e quella che si svolge dentro le mura delle Due Torri.
Una realtà che al momento è conosciuta solo da lui, mentre in una giornata di vacanza concessa da Christa, emergono mille pensieri sul senso della vita, da cui Mara è esclusa. “”vorrei dirtelo io, ma come fare a spiegartelo, caschiamo sempre lì: tu non hai cominciato neanche a mettere il naso nel giro che ci aspetta, neanche una volta sei voluta venire da quelle parti – le mie parti ormai da un paio di mesi, da non so più quanto -; neanche un’occhiata … se mi ripenso sul serio lì dentro, allora tutto, anche questa pizzeria scalcinata, la discoteca chiusa, il tuo umore buono o cattivo … tutto improvvisamente cambia, tutto mi pare così bello qui attorno … Ma … la felicità è da tutt’altra parte. Sarà che non c’è la discoteca, che non ci sono gli amici, che non è sabato sera, che è mercoledì, che non abbiamo una lira, che io da qualche tempo sono proprio dimezzato, diviso in due parti, difficile rimetterle insieme …Niente, la felicità non è qui. Ma dov’è allora, dov’è. Proprio la nostra, diceva Christa ieri sera, sarebbe l’età giusta”.
Alla ricerca della sua identità, Roberto si sente sempre più attratto dalle altrui ben più drammatiche incertezze, dove scopre umori, paure e interrogativi che appartengono a tutti i viventi. Via via raccoglie su foglietti le annotazioni che osserva, un mondo solo superficialmente muto e nascosto, che lancia messaggi continui in attesa di qualcuno che li raccolga.
“Ti racconto, fermati un momento”. La voglia di parlare, repressa, che ha ‘sta gente. …Sarà la mia presenza che li attira, li stana. Provo con questo vecchietto distinto, carino: tutto in ordine, cravattina grigio-perla. Però puzza di vomito….Soprattutto mi resta quella puzza di vomito. Saremo così anche noi – mi fa il portiere – Eh no – dico – no, perdio. Corro a casa, e giù una bella doccia, saponi, acqua calda, fredda, resti di bagnoschiuma di mia madre che non adopero mai”.
“.. ogni volta che entro qui dentro, mi pare proprio di scompormi, di spaccarmi in due. Una parte di me va avanti, entra nelle Torri, guarda, parla, ripete, risponde … L’altra si ferma fuori, stacca, non vuole entrare: mi aspetta lì per i campi da qualche parte. .. Una sola cosa mi è chiara: questa che sta capitando a loro qui dentro, questa vita disgraziata tra dolori e paure, a me non capiterà. Di sicuro, a me no. Qui io non ci vengo, alla loro età; non ci verrò mai. Starò bene alla larga, taglierò la corda, mi butterò in mare …”
“Il vecchiotto al tavolo accanto mangia come se succhiasse; l’altro sputa; il terzo gli casca tutto, bicchiere, forchetta, spande il brodo – che guerra, questa sì, che è una guerra. Al tavolo verso la cucina … guardo bene: cinque cadaveri che masticano, con lo stesso ritmo”.
Ma se accanto allo sguardo si attiva anche l’ascolto attento si ritrovano le anime che abitano quei corpi giunti all’orlo del limite come Ognibene, quello della stanza 201, con la foto sulla credenza. “La foto d’uno splendido giovane che sulla barca sta remando. Una ragazza in costume da bagno, niente male, lo guarda. Guarda un po’ qui – mi mostra la foto – da vergognarsi…. E’ cominciato con un braccio, qui al gomito: da allora non lo muovo più: un braccio stecchito da un’ora all’altra. Poi pian piano gli occhi, uno più e uno meno; poi è saltato il piede, il sinistro. Poi la pancia. Mi mostra: davanti e dietro. L’orecchio destro no, il sinistro: non ci sento più. Il collo da questa parte non vuole muoversi. Mi resta la bocca: però col ghigno. .. Oggi le mani, quelle lì che tenevano il remo nella foto”.
Tale è il passaggio che la vita gli ha riservato.
Nelle Due Torri Roberto trova anche il suo maestro che periodicamente viene a fare visita a Christa e che confessa la sua paura più profonda, ovvero il terrore per l’incontinenza, vero motivo per cui si viene cacciati via dalle Due Torri. “Via dove? Al Verdana, non l’hai visto? Lì abita l’incontinenza di mezza umanità. Parla del Verdana come di un incubo sempre pronto, una bestia che azzanna”. Ritorna allora il ricordo di Ognibene e del suo gesto in ascensore … “Finché di colpo si è girato e fischiando, ps-ps, si è pisciato addosso nelle braghe. … E’ diventato rosso, mi ha messo una mano sul braccio, mi ha dato duemila lire : non dirlo; non dirlo a nessuno. Se no mi buttano fuori, ho paura, mi buttano fuori…Se non ti viene un colpo, amico mio, c’è tutto un crescendo di pezzi che saltano, e anche tutto un calando: non respiri, non ti muovi, non digerisci … poi la febbre, il cuore, poi non so con che cosa vai avanti, cosa resta, dipende”.
Povero Maestro, che non ha voluto aspettare di vedere come andava a finire. “Stiamo cercandolo, non si sa dov’è. Ma chi – dico. Il maestro. Si è buttato giù dalla finestra. Stanotte, proprio stanotte. Mi viene in mente che ieri sera misurava le finestre, parlava dell’isola che lo attirava …”
Arriva la lettera dal Ministero “Niente, non è arrivato il permesso, non sei esente. Devo andare sotto le armi”.
Nei pochi mesi passati tante sono le cose cambiate.
“Ci sono infinite cose alle Torri, coi vecchi, oltre a quell’andare avanti e indietro nel tempo e oltre all’infinito disgusto che gli corre sotto le parole … Mi capita – dico – di cambiare le parole, dico spesso una parola al posto di un’altra e ripeto. Cambio la parola, riprovo … Blatero come loro, a salti … Bisogna ri-pe-te-re con loro; ma finisce che ripeto anche con me”.
Grazie a Christa e alla sua età senza età “gira l’idea che il tempo segnato dal mio Swatch … il tempo che in qualche modo inseguiamo durante la giornata, blocchiamo, scarabocchiamo, confrontiamo con le distanze, gli orari, le cose da fare non basta, non basta più: viene l’idea che ci sia qualche altro orologio lassù sopra i tetti, chissà che quadrante oltre gli arconi. Forse l’ultimo piano invisibile – questo riesco a dirlo – mette a punto tutti i meccanismi, non ne lascia perdere uno. …Ma è il nostro sogno di ogni sera – riprende lei dal cuscino -, che ci sia qualcos’altro che aspetta. Non si sa cosa, però ogni sera si riprova qui dentro; stasera anche tu.…”
Forse è il tempo della festa che si attende, quella festa che riunisce tutti: “la Zaira balla col Generale, balla contenta. Però ogni tanto guarda me. E io guardo lei; ballo con la Christa, ma al solito vorrei anche l’altra. E la Christa lo stesso: si guarda in giro con quell’occhietto vispo. La Menin intanto attacca col maestro, la tettona balla col dottore, il tranviere si scatena con la cuciniera in minigonna. … Tutti coi fazzoletti in mano, o forse con quei foglietti bianchi … i fogli che ho riempito come un matto per non so più di quanti mesi … in aria, in giro, nel vento, fanno segno di addio”.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Serena Zoli (2011) HO CAMBIATO VITA. Storie di chi ce l’ha fatta Edizioni San Paolo, Milano
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Serena Zoli (2011)
HO CAMBIATO VITA. Storie di chi ce l’ha fatta
Edizioni San Paolo, Milano
E’ sempre interessante conoscere le altrui storie, nonché le inquietudini che portano a scegliere fondamentali svolte. Ne so bene qualcosa, visto che per sopravvivere trascorro metà dell’esistenza sotto terra. Chissà in quale categoria mi inserirebbe Serena Zoli …
Già. L’autrice di questo testo opera una distinzione tra le diverse opzioni che, prima o poi (oppure mai) inducono a dire basta con lo stile condotto fino a quel momento per lanciarsi in nuove sfide. Vediamole.
1) Cambiare perché si vuole cambiare: “Spesso l’età del mutamento si aggira sui quarant’anni”, quella metà del cammino dove lo sguardo si rivolge all’interiorità e “da questa identità più profonda può spuntare fuori e imporsi qualche nuova passione: mollo tutto e faccio quest’altra cosa che mi piace tanto”.
2) La scelta del non-profit. Se il lavoro abituale ha perso l’anima si può scegliere di aderire al lavoro non-profit: “paghe minori rispetto alle imprese profit, ma pienezza di senso. Quello che fai aiuta davvero qualcuno, fa davvero la differenza per tante persone in difficoltà … lavorare nel non-profit significa tornare a sentirsi protagonisti, riprendersi la vita in un altro modo”
3) Ripartire a sessant’anni. Ci si riferisce a coloro che la stessa Zoli classifica come generazione fortunata, ovvero i nati tra il 1935 e il 1955, che possono contare sulla pensione e che vedono di fronte a sé circa un ventennio in piena salute prima della vera vecchiaia. “C’è chi si imbarca in una nuova carriera, chi cambia non solo città ma continente, chi si impegna nel volontariato, chi rende affare quello che prima era solo una passione”.
4) Abbandonare l’Italia. “La Fondazione Migrantes, dei quasi quattro milioni di emigranti, indica che la metà è sotto i trentacinque anni … Milano è in testa con 46.000 persone contro le 34.000 di Napoli. Non più il Sud, non più la mera necessità a spingere questi espatri”. Da un sondaggio de La Repubblica (22.10.10) le motivazioni dichiarate da chi sceglie di vivere all’estero riguardano “disgusto per la politica, corruzione che fa rima con raccomandazione, orizzonti claustrofobici, incertezza dei diritti”. Singolare che di questi protestatari, molti siano disposti a riciclarsi in mestieri umili decisamente snobbati in Italia.
5) Scalare una marcia (in inglese downshifter): “oggi che dal lavoro tantissimi si sentono derubati piuttosto che appagati, si fa strada il sogno di lavorare meno, di avere meno stress da competizione quotidiana, di raggiungere minori vette di risultati e di professionalità e va benissimo, allora, che gli introiti siano inferiori, a volte che sparisca lo stipendio certo, e che i benefit si dissolvano: in cambio si aspettano, tout court, di vivere”.
A supporto di questi filoni, Serena Zoli racconta piccole storie di persone che si sono date una seconda opportunità esistenziale.
Camilla e Franco, entrambi con professioni ben remunerate e ben avviate, ma insoddisfatti della qualità di vita che si respira a Milano e in generale in Italia, si fanno contagiare dal mal d’Australia e decidono di trasferirsi nel quinto continente per aprire una gelateria. A volte però il desiderio di cambiare luogo andrebbe valutato con un miglior ascolto del proprio scontento interiore. Dopo varie vicissitudini, Camilla e Franco – che pure considerano positivamente la loro scelta nonostante gli australiani ritengano il gelato cibo-spazzatura e preferiscano il McDonald’s – nel raccontare le difficoltà per trovare risorse e personale confessano: “Da quando ci siamo trasferiti qui abbiamo scoperto tutta la nostra italianità, ci sentiamo italiani a 360 gradi. Però quando torniamo in Italia, ogni anno, dopo dieci giorni non ne possiamo più del traffico, del modo di vivere convulso, dell’aggressività. Insomma, vogliamo tornare a casa. Ma una volta qui, a Caloundra, vediamo tutti i difetti del posto e ci lamentiamo. Chi vuole espatriare, sappia che non si sentirà più completamente a casa in nessun posto”.
Dal mal d’Australia al mal d’Africa con due storie completamente diverse.
Riccardo Orizio, al culmine di un’invidiata carriera di giornalista, a 41 anni abbandona tutto e si trasferisce in Kenya, dove apre il primo lodge composto da sei grandi cottage. Il turismo che qui propone è di gran lusso: 500 euro al giorno (esclusi voli internazionali e interni). Ma vuoi mettere? “dopo una giornata a piedi o in Land Rover nella savana, si può cenare sulla veranda a lume di candela con piatti di una cucina gourmet mentre qualche animale selvatico guarda dai bordi del campo … mentre i masai responsabili della sicurezza vigilano dotati di lancia e torcia”.
Dietro a un turismo d’élite, però, ci sta un’altra motivazione: “i turisti devono sapere che venendo in safari aiutano la conservazione della savana e degli animali. Il Masai Mara ha bisogno di turisti: i nuovi lodge e campi tendati che sono stati creati avendo in mente l’interesse della comunità masai e della natura sono gli strumenti migliori per far sì che tutto ciò di cui io e molti altri ci siamo innamorati sia trasmesso alle generazioni future. Col suo fascino intatto”.
Il caso di Vanna, invece, va in tutt’altra direzione. Il primo passo è l’innamoramento del paesaggio senegalese che spinge Vanna e marito alla radicale scelta di lì trasferirsi, vendendo tutto ciò che avevano in Italia. La morte del marito in un incidente e della madre ultranovantenne che si era portata appresso perché sola e anziana, inducono Vanna a pensare se fare rientro in Italia o rimanere a Thiès. Non potendo più contare sulle rendite economiche pensionistiche, Vanna decide di aprire un bed&breakfast con due tipi di vacanza per gli ospiti: una tutta riposo con piscina, sole, mare, casa e una più finalizzata a conoscere il vero Senegal con gite di un giorno ciascuno. Pubblicità attraverso Internet curato dal figlio trentasettenne, trasferitosi pure lui in Senegal.
C’è poi chi non va molto lontano.
Simone scegli Val di Lara, tra le Cinque Terre e La Spezia per fare downshifter. Manager con notevoli riconoscimenti e guadagni, a 41 anni chiude tutto. “Chissà che stipendio avrei oggi, ma di sicuro sto meglio come sono ora. Per fare questa scelta ho ridotto tutto: mi bastano 700 euro al mese per vivere. E sono pronto a dimostrarlo a chiunque non mi creda. Il problema, infatti, non è quanto guadagni. Il punto è quanto spendi”. Gli introiti se li procura scrivendo, facendo lo skipper in conto terzi e lavando e rimettendo in sesto le barche. “Io la crisi non la sento, perché mi ero già messo in crisi prima, non compro mai niente, abbiamo già così tanto di tutto. Ma se non si riflette a fondo su che cosa davvero dà o no dà ben-essere e non ci si mette in discussione, la crisi c’è eccome, e senza più quel rassicurante orizzonte economico lì sei perso. Altrimenti smontare il gioco è semplice. Diabolicamente semplice”.
Altre piccole storie avvalorano questo principio del guardarsi dentro per capire che cosa vuoi veramente. Molte sono le testimonianze di scelte di uso dei soldi per finanziare progetti a tutela dei soggetti deboli (bambini di strada a rischio di pedofilia, costruzione di scuole, centri d’accoglienza e ambulatori) nei diversi paesi del mondo.
Ma non mancano scelte di vita diverse legate alla scoperta della propria individuazione, come nel caso di Liliana Segre che a sessant’anni ha deciso di diventare una testimone pubblica della shoah, oppure del magistrato Giuliano Turone che alla soglia dei cinquant’anni scopre la passione per il teatro indipendente e decide di studiare presso il Centro Teatro Attivo e diventare attore.
Una lettura adatta per chi, nelle sue incursioni nel profondo, trova materia per dire: “cambio vita”.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Pierre Bayard (2012), Come parlare di luoghi senza esserci mai stati. Traduzione di Riccardo Bentsik, Excelsior 1881, Milano
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Pierre Bayard (2012)
Come parlare di luoghi senza esserci mai stati
Traduzione di Riccardo Bentsik
Excelsior 1881, Milano
Ecco un motto molto accattivante : “Il miglior modo per parlare di un posto è di restarsene a casa”, che – per una tartaruga – calza alla perfezione.
Di nuovo Bayard, già incontrato con “Come parlare di un libro senza averlo mai letto”, che questa volta ci prova con i luoghi, dimostrando che l’ignoranza rispetto ad un argomento non sempre è un ostacolo per poterne parlare con competenza e che molti scrittori e pensatori preferiscono restare al proprio scrittoio piuttosto che affrontare i posti di cui desiderano parlare.
Fra i molti citati, ne scelgo alcuni.
Chi non conosce, almeno di nome, Marco Polo che, dopo aver soggiornato diciassette anni in Cina, scrive con dovizia e rigore dettagliate informazioni sulla vita quotidiana che lì si svolge, dall’amministrazione, alle pratiche religiose, gusti alimentari, costumi amorosi, flora e fauna. Curioso tuttavia che gli archivi imperiali consultati negli anni successivi non rechino alcuna testimonianza del suo passaggio e delle cariche importanti da Polo rivestite, come minuziosamente da lui descritto. E altrettanto singolare è che Polo non nomina mai le migliaia di chilometri della Grande Muraglia “che pure deve aver attraversato a più riprese durante le sue peregrinazioni”. Che tali dimenticanze confermino l’ipotesi di alcuni autori secondo i quali “il veneziano non si sarebbe mai spinto oltre Costantinopoli, dove la sua famiglia aveva un’impresa commerciale per la quale transitava un gran numero di viaggiatori in grado, con i loro racconti, di alimentare la sua fantasiosa creatività?”
Che dire di Edouard Glissant, che sceglie di scrivere un libro sull’Isola di Pasqua senza poterci andare, perché troppo stanco e malato? Il metodo è semplice, basta poter contare su un informatore fidato, come nel caso di Sylvie Séma, moglie di Glissant.
A distanza, senza muoversi da casa, grazie alla documentazione fotografica, disegni e aneddoti inviati dalla moglie e grazie alla lettura di altri autori come Melville, Neruda, Borer, Métraux, Glissant potrà tradurre le molteplici fonti in “descrizioni ricche e di grande rilievo, a testimonianza della profonda conoscenza dei luoghi da lui acquisita, di certo assai più puntuale di quella che avrebbe potuto ricavare da una permanenza fisica, sia pure prolungata, sul luogo, che non gli avrebbe necessariamente fornito una visione d’insieme”. In questo caso Bayard parla di dévoyage, ovvero l’assunzione del punto di vista dell’altro per farlo proprio affinché diventi “del tutto lecito per lui affermare di conoscere il posto, e forse ancor meglio di uno qualunque dei suoi abitanti, troppo vicino all’oggetto della propria percezione perché gli sia concesso di parlarne con il dovuto distacco”.
Interessante pure l’analisi del luogo condotta dagli antropologi che, per ragioni di studio, devono restare il più lungo possibile nelle terre scelte per osservare i costumi di coloro che le abitano. Bayard sceglie Margaret Mead e qui la mia corazza ha un sussulto, perché è proprio lei il trait-d’union dell’inizio della mia relazione amorosa con TartaRugoso, e spero non per i motivi che qui riporto. Mead concentra la sua ricerca sulle abitudini di vita dei Samoani e la parte che maggiormente ha attirato l’attenzione è stata quella relativa ai costumi sessuali: “La tesi centrale dell’opera, che ne ha decretato il successo mondiale, è che la sessualità samoana è molto più libera di quella degli Occidentali e soprattutto di quella dei nordamericani, i cui comportamenti sono repressi da proibizioni ormai interiorizzate”.
In questo caso il luogo è veramente esperito dalla viaggiatrice, non esistono quindi finzioni o rappresentazioni immaginarie e tuttavia vi può essere ugualmente la scrittura di una conoscenza falsata. A Mead, infatti, vengono contestate molte osservazioni che, secondo alcuni critici, derivano da una visione parziale, ideologica e condizionata da racconti impropri. In particolare: 1) Mead “avrebbe selezionato i fatti e piegato la loro lettura in favore della teoria che voleva difendere”; 2) l’antropologa “per ragioni di comodità personale, decise di andare a stare vicino a una famiglia americana … e si privò delle possibilità di osservazione diretta che le avrebbero permesso di verificarle proprie tesi. La sua ignoranza della lingua samoana …aumentava la distanza con i soggetti che intendeva studiare”; 3) poiché possedeva solo alcuni rudimenti della lingua, “Mead fu costretta a fidarsi delle testimonianze delle sue giovani informatrici che andavano regolarmente a farle visita … e che le avrebbero delineato un mondo dai costumi aperti, con una gioia liberatrice accresciuta dal fatto che vivevano in un universo dai costumi particolarmente oppressivi”.
Siamo perciò anche in questo caso di fronte a un paese immaginario dove viene inventato (o proiettato) qualcosa che non esiste nella realtà, fatto che mette in discussione uno dei fondamenti dell’antropologia e della sociologia, ovvero l’osservazione partecipante. Qui Bayard fa riferimento al testo di Perec ”La vita, istruzioni per l’uso” dove “si parla di un antropologo che segue le tracce della tribù Kubu e si interroga sulle misteriose ragioni dei continui spostamenti degli indigeni, prima di capire che costoro si comportavano così a causa della sua presenza e non facevano altro che cercare di sfuggirgli”.
Certo però che lo studio di Mead è servito a dare un contributo al dibattito sull’educazione degli adolescenti americani, nonché a fornire a TartaRugosa il pretesto di restituire il libro a TartaRugoso…
Sulla possibilità di parlare di luoghi usando solo l’immaginazione, Bayard cita l’esempio di Psalmanazar che, nel XVIII secolo a Londra, fece notevole scalpore per le sue descrizioni di Formosa, isola natale della quale rivelò informazioni che “sconvolgevano le comuni conoscenze in materia” fra cui anche la lingua che “suscitò grande interesse in molti intellettuali, fra cui Leibniz, e continuò a essere studiata dai linguisti in virtù del suo rigore”.
Peccato che Psalmanazar non arrivasse da Formosa, ma dalla Francia e avesse scelto quella falsa identità per poter circolare in Europa più liberamente.
La sua potente immaginazione gli aveva permesso di ricreare se stesso: “senza una potente immaginazione non si può pretendere di parlare in modo convincente di luoghi in cui non si è mai stati. La capacità di sognare e far sognare è essenziale per chi intenda descrivere un paese a sé sconosciuto e speri di trascinarvi con il pensiero i propri auditori o i propri lettori”.
Fatto che succede anche con Blaise Cendrars che esemplifica come si possa prendere il treno più famoso del mondo, la Transiberiana, senza muoversi dalla stazione.
Incalza Bayard “che l’essenziale, per uno scrittore, è di far viaggiare il lettore … Infatti non è il luogo … ma una dimensione altra, che potremmo chiamare spirito del luogo, ciò a cui deve guardare lo scrittore…. Lo spirito del luogo richiede un processo di idealizzazione … le sue caratteristiche principali devono essere semplificate e rese universali, affinché, tramite la forza dell’invenzione della scrittura, possa divenire, tanto nel presente quanto nel futuro, proprietà immaginaria di tutti”.
Anche in questo libro ritorna un tema caro a Bayard, ovvero la capacità creativa e immaginativa che consente di oltrepassare la frontiera che separa la realtà dalla finzione: “Qualsiasi sia il contesto di parola e di scrittura, l’invenzione del luogo adatto sarà dunque tanto più credibile quanto più vero sarà il soggetto che lo crea. Prima di ogni altra cosa è se stessi che si tratta di ascoltare, ed è alla scrittura e alla ricostruzione di sé che bisogna lasciarsi andare, se si vuole attirare l’altro da sé verso il proprio paese interiore, per il tramite di un’esperienza universale”.
Un buon viatico per il mio prossimo immobile letargo, che si configura di gran movimento!

TartaRugosa ha letto e scritto di: Luciana Quaia (2012) Intime erranze. Il familiare curante, l’Alzheimer, la resilienza autobiografica. Nodolibri, Como
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Luciana Quaia (2012)
Intime erranze. Il familiare curante, l’Alzheimer, la resilienza autobiografica.
Anche le tartarughe sono resilienti.
E’ il mio guscio la prima fonte di resilienza, il riparo dove proteggermi quando avverto un pericolo, la casa che mi ospita in tutti i mesi dell’anno, grata al fatto che di lei mi faccio carico portandomela sempre appresso.
Quanto all’intimità dell’erranza, chi meglio di me può testimoniare l’errare meditabondo da cui mi faccio travolgere quando tutto il resto del mondo crede io stia dormendo sotto strati di terra?
Ecco, una cosa che credo non aver ancora sperimentato è quella della perdita di memoria, visto che, per quanto riguarda il familiare curante, penso di poter affermare che ne dispongo, nonostante non mostri rilevanti bisogni di assistenza.
In questo finire di un torrido luglio è stato bello affidarsi alla lettura di un libro che affronta un tema spinoso in una versione ariosa e per certi versi poetica.
Perché già a partire dall’indice si intuisce che quell’erranza prospettata nel titolo percorre tutte le pagine del testo, inseguendo un cerchio che inizia nella fase drammatica della comunicazione di una diagnosi devastante (l’Alzheimer, appunto) e si conclude in una visione di maggior fiducia in se stessi, perché le esperienze negative che accadono nella vita possono insegnare che è possibile rialzarsi in piedi dopo una caduta.
Di per sé il tema potrebbe sembrare strettamente psicologico e di pertinenza riservata ai professionisti della cura, ma la piacevole sorpresa che la lettura dona è legata alla struttura del testo, articolata intorno all’idea di un viaggio che trae spunto dall’opera di Joseph Campbell “L’eroe dai mille volti” e che offre una prospettiva di cammino denotata da tappe specifiche in cui succede qualcosa.
E’ possibile così capire che per costruire un percorso di aiuto a un familiare improvvisamente piombato nel mondo della malattia di un proprio caro non è sufficiente avere solo risorse personali, ma bisogna anche contare sull’appoggio di un aiuto esterno. In un libro che parla di storie trova quindi spazio anche la storia del “tutore di resilienza” che in questo caso è un’associazione di volontariato della città dell’autrice, il cui nome, Donatori del Tempo è già promessa solidale e accogliente. E’ da qui che inizia lo “start” propulsivo dell’azione di soccorso esercitata in primo luogo dal Graal che, fedele all’approccio mitologico seguito nel testo, sta a significare Gruppo di reciproco aiuto per la malattia di Alzheimer.
La particolarità del volume è che lascia trasparire anche aspetti della biografia professionale e personale dell’autrice: sono molti infatti i passaggi in cui emerge il vissuto della psicologa a contatto con le storie di persone che incontrano il disagio e la sofferenza, svelando quindi anche che cosa prova chi si occupa di altri. E pure nella scelta degli strumenti da utilizzare come rimedio di “autocura” nel laboratorio di scrittura risaltano i gusti di Luciana per la mitologia, la letteratura, la fotografia, l’oggettistica, il cinema …
Perché quando si sta nel “ventre della balena”, il momento peggiore di crisi esistenziale, occorre attrezzarsi di simboli forti per scavare nella memoria e recuperare le sfide che già si sono vinte.
Gli esercizi proposti per scrivere di sé sono accattivanti e supportati da spiegazioni che mescolano il sapere teorico con poesie, brani letterari, personaggi mitologici, mandala, fotografie, finalizzati a rendere le pagine scritte una piacevole evasione immaginifica e benefica per l’interiorità più profonda.
Naturalmente, spiega l’autrice, un percorso di resilienza non si esaurisce all’interno di un’esperienza di scrittura autobiografica. Sarebbe troppo facile! Delle piccole ma intense storie che vengono presentate non si riesce a seguirne l’evoluzione fino alla fine. Si intuisce però come, in un arco di tempo più prolungato, altre testimonianze abbiano messo in rilievo apprendimenti e accrescimenti che solo l’attraversamento del dolore può provocare.
Per aiutare il familiare curante a riflettere su un futuro ancora ignoto del proprio malato, viene proposta l’analisi di tre film considerati validi strumenti identificatori per favorire la lettura ed eventualmente la scrittura dei propri stati d’animo.
Di questi film non viene data solo la trama, ma si entra nello specifico a sottolineare i passaggi resilienti che quelle famiglie, sia pure sullo schermo, compiono.
Il capitolo ultimo, che nel “viaggio dell’eroe” è denominato Il dono finale, racchiude la sintesi di un’esperienza, quella del familiare curante, che comprende sia la valutazione del percorso di sostegno nel gruppo di auto aiuto, sia la testimonianza dell’accompagnamento di una malattia così ingrata. E alla domanda dell’autrice “Si può parlare di dono parlando di Alzheimer?” si scopre che la risposta può essere positiva, perché sono le parole stesse dei familiari (e anche di poeti) che lo dimostrano.
C’è anche il dono della celebrazione della storia di ben 35 anni di attività del centro di volontariato che, forse, seguendo le parole scritte, è arrivato a un punto di svolta segnato da un’età dei soci troppo avanzata per poter tenere ancora il passo.
Il cerchio si chiude. Il viaggio ha incontrato le seguenti soste: Chiamata all’avventura; Rifiuto della chiamata; Attraversamento della prima soglia; Abitare il ventre della balena, La strada delle prove; L’incontro con gli alleati,i mentori e i messaggeri: L’attraversamento della soglia del ritorno; Il dono finale.
Sono intervenuti Sisifo, Pandora, Penelope, Ermes, il Genius Loci, Arianna.
I tre film analizzati sono:La strada per Galveston, Lontano da lei e Una sconfinata giovinezza.
Degne di attenzione la bibliografia “raccontata” e la filmografia, scrigni preziosi dove attingere bellezza e conoscenza: non è casuale che nei ringraziamenti al primo posto ci stiano proprio i libri, con “il loro corpo frusciante di pagine scritte”
Infine divertente l’idea di iniziare con un capitolo Zero (per orientare il lettore) e finirlo con il capitolo Undici,adducendo alla metafora dell’orologio e alla sua circolarità pari a quella del viaggio dell’eroe.
Nonostante la corposità, si legge tutto d’un fiato e viene proprio voglia di cimentarsi a scrivere di sé, guscio permettendo.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Raymond Queneau (1983), Esercizi di stile, Einaudi, traduzione di Umberto Eco
TartaRugosa ha letto e scritto di: Raymond Queneau (1983) Esercizi di stile, Einaudi Traduzione di Umberto Eco
Un gioco di bravura irresistibile: “Queneau usa le figure retoriche per ottenere effetti comici ma nel contempo fa del comico anche sulla retorica … La retorica non si limita alle sole figure e cioè alla sola elocutio. C’è l’inventio e c’è la dispositivo, c’è la memoria, c’è la pronuntiatio, ci sono i generi oratori, le varie forme di narratio, ci sono le tecniche argomentative, le regole di compositio, e nei manuali classici sta anche la poetica, con tutta la tipologia dei generi letterari e dei caratteri …”
Ci voleva Umberto Eco ad azzardare la traduzione dei 99 esercizi di stile di Raymond Queneau, animatore dell’esperimento dell’Oulipo, nel cui ambito anche Georges Perec ha dato il suo notevole contributo. Perché gli Exercices di Queneau sono una “scommessa metalinguistica” che si basa su tutte le variazioni pensabili di un brevissimo testo, da cui le 98 variazioni che seguono sortiscono, nel loro insieme, un effetto comico globale: “mentre si ride su uno scambio meccanico di lettere alfabetiche, si ride nel contempo sulla scommessa dell’autore, sugli equilibrismi che egli mette in opera per vincerla, e sulla natura sia di una lingua data che della facoltà del linguaggio nel suo insieme”. E perché pochi come Eco avrebbero saputo allineare così fruttuosamente le conversioni dal francese all’italiano, permettendosi di giocare con altrettanto perfezionismo e, pur nella scelta di alcune licenze di tipo linguistico-culturale, mantenere un assoluto spirito di fedeltà al testo originale.
Non rinuncia, Eco, di sottolineare di aver dovuto reprimere molte tentazioni: “avrei voluto provare l’eufemismo, la metalessi, l’ipallage, ero tentato di parodiare il linguaggio avvocatesco, quello degli architetti o dei creatori di moda, il sinistrese, o di raccontare la storia alla Hemingway, alla Robbe-Gullet, alla Moravia …”
E continua: “Exercices de style è come l’uovo di Colombo, una volta che qualcuno ha avuto l’idea è assai facile andare avanti ad libitum …”
Trovo così vere queste parole che, presa dall’entusiasmo della lettura di queste splendide 99 variazioni, mi sono divertita pure io a scegliere 9 titoli dai 99 proposti, partendo da un iniziale “Notazioni” (di mia pura invenzione) e da lì liberare la mia tartarughesca creatività.
NOTAZIONI Pomeriggio d’estate. Sulla stretta strada che costeggia il lago, un autobus e un camion provenienti da direzioni opposte, bloccano il traffico. Riescono solo a passare pedoni, ciclisti e motociclisti. Una donna incinta seduta vicino al guidatore della corriera sviene.
RETROGRADO Gravida accomodata al fianco del conducente del mezzo pubblico perde i sensi. Sulla strada transitano camminanti, bicicli e centauri. Le automobili invece stazionano dietro la corriera e il camion bloccati nella strettoia asfaltata. Il sole è ancora alto nel cielo e illumina il lago.
SORPRESE Incredibile! Chi avrebbe mai detto che in un pomeriggio simile – mai stato così caldo! – sarebbe svenuta solo una donna, per giunta con un pancione enorme per essere incinta di soli 5 mesi? E la colpa di chi? Non certo di quel gruppo di ciclisti che sogna di raggiungere l’acqua del lago. L’avreste mai detto? Una betoniera immensa che a dir poco sfiora il muso dell’autobus di linea! I due colossi si incrociano e sapete che cosa fanno le altre vetture? Mica prestano soccorso alla sventurata. Macchè! Se ne stanno lì boccheggiando e sudando.
INSISTENZA Faceva caldo quel giorno. Era un pomeriggio molto caldo. Erano le ore più calde di quel giorno estivo che cade nel mese centrale dell’estate, ovvero fine luglio, un periodo caldissimo dell’anno. Pure la strada era calda. L’asfalto bolliva e il luccichio del lago spargeva calore. Sulla calda strada asfaltata, uno da nord, l’altro da sud, giungevano un autobus e un camion. La strada era calda e pure stretta. I due giganti mezzi se ne stavano uno in fronte all’altro, provenienti da due direzioni opposte, e siccome uno occupava il lato destro della strada calda e l’altro il lato sinistro della stessa strada calda, nessuno riusciva a passare, essendo le corsie asfaltate riempite da questi due automezzi fuori misura. Nel pertugio lasciato a margine dell’autobus e dal camion, uno a destra e l’altro a sinistra, potevano intrufolarsi pochi fortunati: camminatori, pedalatori, motociclisti. Fortunati anche perché potevano stare all’aria aperta di quella giornata talmente calda che sia i viaggiatori dell’autobus, sia gli occupanti del camion grondavano sudore sotto un sole spietato. Probabilmente se l’autobus proveniente da nord fosse partito prima, non avrebbe incrociato il camion proveniente da sud in quel punto così stretto della strada, che nelle ore bollenti del pomeriggio di un’estate torrida, sembrava un girone dell’inferno. Dentro l’autobus tutti avevano molto caldo, perché stando fermi bloccati dal camion, non potevano sentire nemmeno un filo d’aria, come invece succedeva ai pedoni, ai ciclisti e ai motociclisti che, per caldo facesse, almeno erano fuori all’aperto. La signora incinta, seduta vicino al conducente dell’autobus che arrivava da nord, a un certo punto, a causa del calore estivo insopportabile, scivolò svenuta. Era proprio svenuta svenuta come quando si perdono i sensi. DUNQUE, CIOE’ Cioè faceva caldo, dunque con quel sole, ecco, cioè, la corriera, cioè alla curva stretta, non prima, cioè quando ha visto arrivare il camion … Cioè tutti avevano capito che sì, cioè, non poteva farcela a passare. Dunque le moto, sì, cioè, anche le biciclette, cioè, voglio dire, dunque, quelle che passavano, cioè non si fermavano, dunque, potevano sorpassare. Cioè, l’autobus era fermo, dunque, con tutti i viaggiatori dentro che, cioè, ci faceva un gran caldo! Dunque la donna, cioè, quella incinta, cioè quella seduta vicino alla guida, dunque, quasi ci lascia la pelle, cioè sviene. VERO? Vero che caldo? Vero come sono strette, vero, le strade del lago? Vero che non dovrebbero passare, vero, quei camion così grossi, vero? Vero che anche i ciclisti, vero, quando stanno tutti vicini, vero, bloccano il traffico, vero? Vero che le donne, vero, quelle gravide, vero, dovrebbero stare più riguardate, vero? Perché col caldo, vero, se prendi un autobus e se l’autobus si incrocia, vero, con un camion, vero, poi sull’autobus, adesso che siamo in estate, vero, viene molto caldo, vero? E, vero, la donna col pancione, vero, poi sviene, vero?
INTERROGATORIO – Quando è successo? – Alle 16.30 – Dove vi trovavate? – Sulla strada per Briz – Sia più preciso, per favore, lei è testimone oculare. Mi indichi in quale punto della strada per Briz è successo – Prima della farmacia del paese – Saprebbe descrivermi la dinamica dell’incidente? – L’autobus e il camion si sono incrociati nella strettoia e nessuno dei due riusciva a fare retromarcia perché le automobili al seguito non avevano lasciato distanza di sicurezza – Ritiene che l’autobus non abbia rispettato il segnale di precedenza? – Non saprei: ho solo sentito dire che una donna incinta era svenuta – Lei conosce la donna gravida? – No – Allora le sue sono solo supposizioni – Due ciclisti che passavano mi hanno detto di chiedere aiuto a qualcuno e così ho fatto – Allora c’è un concorso di colpa. Lei conosce questi due ciclisti? – No, io sono un passante che ha chiesto aiuto perché una donna in stato interessante aveva bisogno di soccorso – Quanto lei sta dicendo sarà messo agli atti. Si tenga a disposizione per ulteriori accertamenti
OLFATTIVO Sulla strada ostruita dal traffico, tubi di scappamento esalavano asfissiante gas azzurrino. L’aria calda e afosa sollevava dalle acque del lago il tipico odore lacustre, dal sentore di pesce e alga marcita. Nelle autovetture in coda con i finestrini abbassati, le bottigliette di aranciata e pepsi cola a portata di bocca spargevano il loro aroma mescolato all’acre sudore olezzante di rabbia e calura degli occupanti seduti negli abitacoli surriscaldati. Dalla cabina dell’autotreno un acuto effluvio di pane e mortadella, unito a tanfi di rutti aromatizzati al barbera, dirompeva fra gli insulti di un nerboruto guidatore, che non riusciva a sbloccarsi da quel fetido passaggio in cui aveva incrociato la corriera del paese. Lì, inermi passeggeri aggrappati alle maniglie di sostegno, lasciavano sgorgare dalle ascelle gocce perlate, un miscuglio di profumi, saponi e odore corporeo, volgarmente: puzza. E quel vortice di afrori incontrollati, salendo lungo le nari della donna incinta, forse raggiunse anche il feto protetto nel grembo materno. Il quale scalciò considerando: “Questo è troppo!”. E la mamma, per proteggerlo, pensò bene di svenire.
TELEGRAFICO Segnalato intoppo stradale riva destra del lago. Stop. Autobus e TIR altezza farmacia Briz. Stop. Lunghe file di veicoli. Stop. Malore donna incinta. Stop.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Raffaele Simone (2012), Presi nella rete, Garzanti
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Raffaele Simone (2012)
Presi nella rete, Garzanti
Dove scopro come il cervello preistorico di TartaRugosa funziona …
L’interrogativo posto è sicuramente accattivante: la rete altera i nostri processi cognitivi?
Simone inizia la sua indagine con la definizione di ESATTAMENTO: funzioni e bisogni inesistenti emergono e diventano urgenti appena viene offerto un mezzo tecnico capace di soddisfarli: “l’ubiquità dei media è talmente capillare da dar luogo, nei loro utilizzatori, a una gigantesca catena di esattamenti” (spedire sms, youtube, face-book, ecc. ecc.).
tratto dalla intervista di Igor Guida in:
http://www.salonelibro.it/it/multimedia/video/11854-bookswebtv-raffaele-simone.html
Molti degli oggetti fisici e tecnologici che ci circondano hanno trasformato nel passato la nostra vita e la visione delle cose. Oggi tale ruolo è rivestito dalla MEDIASFERA (media elettronici e telematici) che stravolge completamente il nostro tempo, costellandolo di interruzioni e frammenti: incollati al telefonino, allo schermo di un computer, di un e-reader, di un I-pad.
Ruolo centrale di questo libro è verificare come la rete ha cambiato – o sta cambiando – la nostra mente e la nostra intelligenza e come come cambia il SAPERE, ovvero tutte le forme di conoscenza diffusa di cui disponiamo e di cui ci serviamo nella vita di tutti i giorni.
Simone distingue nella storia dell’uomo tre fasi:
a) la PRIMA FASE coincidente con l’invenzione della scrittura
b) la SECONDA FASE coincidente con l’invenzione della stampa
c) la TERZA FASE caratterizzata dall’informatica e dalla telematica a partire dagli ultimi vent’anni del XX secolo
Mentre le prime due fasi hanno entrambe a che fare con leggere e scrivere testi, nella terza fase la nostra conoscenza non è più basata sul libro, ma si avvale di altre forme sempre più in aumento (computer, telefono, televisioni connessi alla rete) che modificano pure l’idea stessa di “conoscenza”.
Per dimostrare l’alterazione dei processi cognitivi, Simone parte da una gerarchia di importanza degli organi di senso, dove le vie principali della conoscenza sono VISTA e UDITO. Già a suo tempo l’invenzione della scrittura ha contribuito a trasformare la profondità della percezione visiva, facendone emergere il tratto della VISIONE ALFABETICA (serie lineare di simboli visivi ordinati l’uno dopo l’altro).
Per lungo tempo acquisire conoscenza ha usufruito di:
– ascolto lineare (segue lo svolgimento del segnale sonoro)
– visione non-alfabetica (si vedono oggetti e varietà di stimoli visivi)
– visione alfabetica (linearità della scrittura)
La grande rivoluzione avvenuta sul finire del XX secolo è che sta tornando una dominanza dell’orecchio sull’occhio. I nuovi media infatti lavorano più insistentemente sull’ascolto e, per quanto riguarda la vista, si privilegia la visione non-alfabetica, la capacità cioè di elaborare simultaneamente più stimoli (guardare anziché leggere).
Questa affermazione può essere meglio compresa se distinguiamo due forme di intelligenza:
1) intelligenza sequenziale, favorita dalla lettura e dall’uso di codici alfabetici (scrittura)
2) intelligenza simultanea, favorita dall’uso di codici iconici, basati cioè sull’immagine.
Un esempio chiarificatore: “non ho letto il libro (lettura), ma ho visto il film (visione)”.
A questo punto occorre dettagliare come lettura e visione comportino due modi diversi di recepire ed elaborare l’informazione. Simone ne analizza 7 fattori:
1) ritmo: lento per la lettura, veloce per la visione
2) correggibilità: il lettore può inserire delle pause per domandarsi il significato di ciò che legge o per approfondire il testo, mentre chi guarda è etero-trainato e quindi non si sforza di controllare il suo ragionamento
3) richiami enciclopedici: richiamo a nostre conoscenze precedenti, impossibile nella visione per mancanza di tempo
4) convivialità: poco conviviale la lettura che richiede solitudine e silenzio, molto conviviale la visione (cinema, televisione, piazza del paese)
5) multisensorialità: la visione coinvolge più sensi contemporaneamente, la lettura è monosensoriale
6) grado di iconicità: la parola scritta non rivela la natura del suo soggetto, l’immagine sì
7) citabilità: la visione, rispetto al testo, si presta poco a essere citata per la difficoltà di tradurre le immagini in parole
Tutto questo porta a dire che la “fatica di leggere” non compete con la “facilità di guardare”.
Diventa interessante – e anche mitigante rispetto alle considerazioni condotte sull’impatto della mediasfera – la ricostruzione fatta a proposito delle reazioni all’invenzione della scrittura.
Platone considerava la scrittura come strumento che avrebbe favorito l’oblio, poiché leggendo l’uditore non avrebbe più beneficiato della spiegazione orale di chi trasmetteva verbalmente la conoscenza e, inoltre, perché attraverso la scrittura l’autore consegnava al lettore un testo stabile, quindi senza più avere la possibilità di correggerlo, difenderlo, commentarlo, chiarirlo.
Perciò per Platone lo stabilizzarsi di un testo costituiva pericolo, non conquista.
Per fortuna Simone riconosce che l’analisi platonica “scrittura equivalente a incitamento alla dimenticanza” oggi è stata completamente sovvertita: “il deposito della conoscenza passata si sposta dalla mente dell’uomo agli archivi e alle biblioteche e, in epoca moderna, ai data base”.
TartaRugosa invece pensa: a meno che non si debba recuperare Platone (ad essere proprio pignoli il filosofo non aveva tutti i torti se pensiamo ai danni che possono fare critici o interpreti alle opere consegnateci dal tempo, quando ormai i loro produttori giacciono nelle tombe e magari si rivoltano ascoltandone lo scempio dei suddetti), si può ipotizzare che, come avvenne per la scrittura, anche per la Terza Fase si debba dare tempo al tempo. Probabilmente essa sta ancora vivendo nell’epoca della transizione e come ogni avvio mostra le sue imperfezioni. Ciò non impedisce di difenderne comunque l’incredibile capacità di mettere a disposizione infiniti scrigni di conoscenze.
Ma anche su questo punto Simone ha le sue remore.
La produzione di un testo può assumere varie forme: PARLATO, SCRITTO e DIGITALE,
Sul testo digitale muove alcune puntuali osservazioni:
a) enfatizzazione della fase processuale: ogni volta che il testo è stato chiuso, lo si può riaprire senza limite senza lasciare traccia della “storia” che ha condotto al prodotto finale. Il testo digitale quindi è perennemente instabile
b) immaterialità: non ha volume, massa, pagina su cui depositarsi; non ha tracce fisiche della persona che lo ha scritto e del luogo in cui è stato prodotto
c) delocalizzazione e adespotia: una volta scritto, il testo può essere spedito immaterialmente a un numero illimitato di destinatari, ognuno dei quali può a sua volta riaprirlo e farlo circolare a chi desidera.
Queste caratteristiche, rispetto al testo scritto su carta, conducono a un rischio: la scomparsa dell’autore. “Si dissolve così la membrana protettiva che il testo scritto ha da secoli … il testo perde quella sorta di habeas corpus che permetteva di riconoscerne l’autore, l’originalità, la responsabilità. In numerosi testi digitali, l’autore non esiste semplicemente più”.
E oltre a dissolversi l’autore, si dissolve anche l’ospite del libro, il testo, che diventa manipolabile e interpolabile.
Simone si sofferma poi sulle forme del sapere e su come la modernità digitale abbia profondamente modificato la formazione e la trasmissione di conoscenze.
Nella società tradizionale le conoscenze si formano in luoghi precisi, siano esse di tipo evoluto, sia di tipo pratico e operativo.
La “struttura interna” del sapere segue una particolare organizzazione architettonica: pensiamo alle materie scolastiche e al loro sistema di correlazione. Una charpante simile a un vasto ipertesto, dove un certo settore rimanda ad un altro, dalla matematica alla fisica, dalla letteratura all’arte, e così via.
Sempre nell’ambito scolastico, inoltre, la conoscenza viene presentata sotto forma di ciclo che segue un arricchimento graduale man mano che si sale il livello della scolarità.
La mediasfera invece, sostiene Simone, “ha alterato alla radice questo modello … dando luogo a un paradigma del tutto diverso per quanto riguarda la struttura organizzativa della conoscenza”:
a) moltiplicazione delle fonti e dei luoghi: nella rete si trova di tutto e le informazioni sono reperibili in qualsiasi istante e luogo del pianeta. Di molte cose che troviamo però non sapremo dire se la fonte è unica o multipla, se di buona o scadente qualità, se controllata da qualche autorità o abbandonata a se stessa;
b) disarticolazione: la navigazione in rete è simile a un collage prodotto per caso, un modo di perdersi nello spazio telematico lasciandosi andare alla deriva. Navigando si possono scrivere tesi di laurea, articoli di giornale, ecc.;
c) soppressione degli intermediari e dei garanti: la mediasfera non consente controlli, indebolendo l’autorità che emana le informazioni e la validità che tali informazioni contengono (vedi wikipedia o il self-publishing che elimina l’editore e la sua possibilità di valutare, scegliere o eliminare prodotti di scarsa qualità);
d) frammentazione del corpo dei saperi ed erosione dei confini: i frammenti raccolti qui e là si accumulano facendo massa e il contenuto di un contenitore qualsiasi può essere trasferito in altri;
e) interposizione del software: la conoscenza non è propriamente accessibile come si crede poiché bisogna superare lo sbarramento di un software sempre più complicato, che richiede costante aggiornamento;
f) vittime: il testo, l’autore, la fonte delle informazioni
E in più la mediasfera altera anche il ritmo della trasmissione del sapere.
Da sempre acquisire conoscenza ha richiesto fatica, attenzione, concentrazione, pazienza.
In che cosa si differenzieranno i nativi della Terza Fase da coloro che appartengono alla Seconda? “La ritmica della cultura digitale è rappresentata alla perfezione dal computer e in generale dagli apparati e gadget della mediasfera: macchine la cui intelligenza consiste nel conservare, classificare, elaborare e ritrovare in modo veloce … l’attesa di minuti, o peggio di ore e giorni, che è stata indispensabile per secoli per acquisire qualsivoglia informazione, sarebbe oggi insopportabile. … Tutto quel che, nell’imparare, si associa alla lentezza ha perso mordente e appare estenuato, poco interessante, senza vita… La lentezza e la pena che sono state associate per millenni all’apprendimento complesso sono sostituite dalla rapidità e dal fun”.
Di fronte a questi mutamenti, la scuola, sinora luogo in cui si distribuisce la conoscenza, resta incapace di competere con la velocità dell’accrescimento delle informazioni fornite dalla mediasfera.
E allora come, a questo punto, si trasmette la cultura da generazione in generazione?
Che “il sapere si erediti dalle generazioni precedenti è un concetto che sta perdendo legittimità: sono troppe le cose che i vecchi non sanno, non sanno fare o non capiscono”.
La cultura digitale non usa più tramandare la memoria attraverso processi mentali. Essa sta piuttosto esaltando una memoria “esterna” costituita da un supporto inanimato, come per esempio la calcolatrice che sta annullando la nostra capacità di fare i calcoli a memoria.
Simone, pur ampiamente descrittivo e preciso nella sua analisi, presenta però un quadro visto con gli occhi del Senex, francamente cupo e pessimistico. Cita a suo rinforzo la frase di Hannah Arendt: “dimenticare è diventato un dovere sacro, la mancanza di esperienza un privilegio e l’ignoranza una garanzia di successo”.
Nella riflessione sul binomio lentezza-velocità – fatica, ripetizione, consultazione di testi nella prima; insopportabilità delle pause nella seconda – non si può non condividere le sue osservazioni. Occorre però limitarne i confini del catastrofismo, essendo ogni processo di cambiamento portatore di incertezza e resistenza.
Si può sicuramente affermare che il peso del virtuale stia capillarmente penetrando nella vita di ognuno, ma persino una TartaRugosa come me, ferocemente abbarbicata alla tradizione del sapere della Seconda fase, deve riconoscere che, almeno per il momento, le capacità cognitive classiche non sono state scalzate dal mondo digitale.
Se invece l’obnubilamento della memoria diventerà realtà, perché non guardare al fenomeno con occhi più positivo?
Forse in quell’occasione la scienza potrà dichiarare conosciute le zone del cervello oggi ancora inesplorate (tutti sono concordi nel dire che la nostra materia grigia ha potenzialità inaudite) e rivedere le proprie posizioni, esattamente come è avvenuto con la scoperta della plasticità cerebrale e il funzionamento dei neuroni a specchio.
L’essere umano ha capacità incredibili di adattamento e la storia lo dimostra. Così come la storia dimostra che i pro e i contro hanno costituito l’essenza del progresso.
In entrambi gli schieramenti, di fatto, il punto d’incontro vincente è sempre e comunque la ricerca del “divenire altro”.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Pierre Bayard (2007), Come parlare di un libro senza averlo mai letto, Excelsior 1881, Milano (traduzione di Anita Maria Mazzoli)
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Pierre Bayard (2007)
Come parlare di un libro senza averlo mai letto
Excelsior 1881, Milano
(traduzione di Anita Maria Mazzoli)
Non leggo mai libri che devo recensire; non vorrei rimanerne influenzato (Oscar Wilde)
E’ stata una frase che mi ha fatto sobbalzare, guscio compreso.
Che vengo qui a fare, se non per raccontare a modo mio quel che leggo? Per una tartaruga lenta come me, c’è voluto un po’ di tempo per capire come si fa a parlare di qualcosa che non si conosce in maniera erudita, appropriata e soprattutto convincente per chi ascolta. Bayard non mi ha convinto del tutto, ma in alcune parti del suo ragionamento sì, eccome.
Ecco gli assiomi della non-lettura, secondo l’autore:
1) Avere una visione d’insieme
principio fondamentale perché “leggere un libro intero è una perdita di tempo … e l’interesse troppo vivo per un libro porta ad escludere tutti gli altri”. Questo assioma è molto rassicurante per un’ossessiva come me, che quando si trova a tu per tu con un libro non perde una riga, note comprese (il che rallenta ulteriormente il mio tempo). Oltretutto l’impresa è a dir poco gigantesca. Pur leggendo poco, un numero sempre maggiore di persone scrive, e inseguire il ritmo non è facile, soprattutto quando la pila di libri si accatasta, l’altezza diventa vertiginosa e il rischio del crollo rasenta la mia sicurezza. A quel punto, inspiegabilmente, TartaRugoso provvede a ristabilire livelli di accettabilità e, per il motto “Occhio non vede, cuore non duole” posso finalmente riprendere la mia abitudine di dedicarmi ad un unico testo, senza troppo soffrire per la perdita. Devo cambiare però abitudine, perché Bayard sostiene che la cultura è soprattutto una questione di orientamento: “non aver letto un libro non ha alcuna importanza per la persona colta … perché è spesso in grado di conoscerne la collocazione, vale a dire il modo in cui si situa rispetto agli altri libri”.
La non-lettura diventa quindi “una vera e propria attività, che consente nell’organizzarsi in proporzione alla vastità dei libri, al fine di non lasciarsi sommergere da essi”. Conoscere la relazione che un libro ha con altri libri significa saperne di più che averlo letto.
2) Orientarsi rapidamente all’interno di un libro
Secondo l’autore, sfogliare i libri senza leggerli evita di perdersi nei dettagli e “qualsiasi lettura troppo attenta, se non addirittura qualunque lettura, è un impedimento al possesso approfondito del suo oggetto”. A questo punto suggerisce due tecniche per lo sfogliare:
– lineare: si parte dall’inizio, si saltano righe e pagine e ci si dirige verso la fine
– circolare: lo sfogliare è disordinato, si saltella da una parte all’altra del libro e non se ne conclude la lettura
Questi modi di procedere sono molto più efficaci di chi passa magari ore infinite su un libro, decidendo poi di non concluderne la lettura
3) Sentire cosa gli altri ne dicono
“Moltissimi libri di cui siamo portati a parlare non sono mai passati effettivamente per le nostre mani, ma il modo in cui gli altri ce ne parlano, ci permette di farci un’idea di ciò che contengono”.
Passato il primo momento di sbigottimento, devo ammettere che alcune osservazioni sono valide, in quanto le ho potuto direttamente verificare su TartaRugoso, che si è molto rinforzato nel suo stile dopo questa lettura. In effetti per lui questi tre assiomi funzionano alla grande. Nella visione d’insieme delle librerie, lui sa sempre al primo colpo dove si colloca un testo, quali gli stanno accanto, l’argomento che tratta, nonché, spesso, la casa editrice e l’anno di pubblicazione.
Per il secondo punto, basta che io prenda un libro precedentemente letto (non letto??) da lui per notare quanto segue: sottolineature, parole chiave a margine, asterischi nelle prime pagine, poi il testo torna ad essere intonso per rivivacizzarsi alla fine. Elementi più che sufficienti per parlare del contenuto per ore.
Quanto al terzo assioma, ho ancora nelle orecchie una sua brillante recensione di un libro corposo assolutamente non letto, ma di cui mi ero premurata io a fargli notare alcuni passaggi interessanti.
Bayard ha evidentemente ragione. Però, aggiungo io, se si tratta di un romanzo giallo, questo sistema di non leggere fa perdere tutto il fascino della scoperta dell’indizio, salvo accontentarsi di andare subito alla fine e, attraverso la quarta di copertina, assemblare sufficienti informazioni per raccontare la vicenda a chi non la conosce.
Un’altra disquisizione importante fatta da Bayard riguarda il caso della dimenticanza. Un libro può essere letto con estrema attenzione e poi dimenticato. “Non conserviamo nella nostra memoria dei libri omogenei, ma dei frammenti strappati a letture parziali, spesso mescolati gli uni agli altri, e per di più rielaborati dai nostri personali fantasmi”. Afferma, citando Montaigne, che noi dimentichiamo una percentuale altissima dei libri che abbiamo letto per davvero e in forma completa, anzi di essi ci formiamo una specie di immagine interiore costituita non tanto di quello che vi era veramente scritto, bensì di cosa ci ha suscitato nella mente.. Ecco quindi il fenomeno della de-lettura: “un movimento fatto al tempo stesso di scomparsa e di offuscamento dei riferimenti, che trasforma i libri, spesso ridotti al solo titolo o a qualche pagina approssimativa, in vaghe ombre che scivolano sulla superficie della nostra coscienza”. E anche in questo caso devo dargli ragione. L’evanescenza della memoria, dopo un po’ di anni, fa sì che nel riprendere in mano un libro si abbia la sensazione di non averlo letto, se non in alcuni passaggi che ci hanno particolarmente emozionato.
L’autore prosegue dando pure indicazioni di situazioni in cui il non-lettore deve parlare di libri che non ha letto. Quella più divertente è quando questo evento accade davanti alla persona che è autrice del libro stesso.
Molto diplomaticamente Bayard suggerisce: “parlarne bene senza entrare nei dettagli. L’autore non si aspetta affatto un riassunto o un commento argomentato dal suo libro: egli si aspetta solamente che gli si dica di avere apprezzato ciò che ha scritto”. Sarebbe comunque interessante che qualcuno si prendesse la briga di fare un elenco dei libri che per davvero vale la pena di non leggere, neppure secondo i criteri sin qui evidenziati.
Verso la fine (e questo, se uno avesse seguito le istruzioni date, avrebbe veramente risparmiato un bel po’ di tempo) si capisce la vera natura di Bayard, che oltre ad essere professore di letteratura francese, è anche psicanalista.
“Non è tanto il libro come tale ad esistere, ma l’insieme di una situazione di comunicazione in cui esso circola e si modifica … è un oggetto mobile … che subisce variazioni sensibili in funzione degli scambi che si producono riguardo ad esso”.
Secondo Bayard “i libri di cui parliamo non sono solo i libri reali che un’immaginaria lettura integrale ritroverebbe nella loro materialità oggettiva, ma anche dei libri-fantasma che sorgono all’incrocio delle virtualità inespresse di ogni libro e del nostro inconscio”.
Questo significa che in ogni libro che leggiamo sarà maggiore la forza espressa dall’inconscio, piuttosto che la precisione della lettura.
“Un buon lettore fa una traversata di libri, dato che sa che ciascuno di essi è portatore di una parte di se stesso e può aprirgli una strada … L’invenzione del libro di cui ci si è appropriati, in qualsiasi contesto di parola e scrittura, sarà tanto più credibile quanto più sarà condotto dalla verità del soggetto e inscritto nel prolungamento del suo universo interiore”.
Quindi una nuova forma per sviluppare creatività e immaginazione sarebbe quella di insegnare che un libro si reinventa a ogni lettura e che in ogni libro il lettore debba metterci innanzi tutto del suo.
Nessuna paura dunque a parlare con convinzione di qualcosa che “immaginiamo”: sarà la nostra abilità a renderla coerente con il contenuto che si suppone che quel testo abbia e il gioco è fatto. Ammesso che i professori-educatori possiedano la stessa tolleranza di Bayard.
Il quale, a supporto di quanto afferma, cita opere letterarie di Musil, Valéry, Eco, Montaigne, Greene, Siniac, Murray, Lodge, Balzac, Soseki, Wilde, in una forma così dettagliata e minuziosa da contraddire se stesso.
TartaRugosa ha letto e scritto di: GEORGES PEREC (2011), Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, Libri Piccoli Voland, A cura di Alberto Lecaldano
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Georges Perec (2011)
Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, Libri Piccoli Voland
a cura di Alberto Lecaldano
Il progetto avrebbe dovuto durare dodici anni, ma non si concluse.
L’idea, secondo Perec, era di osservare piazza Saint-Sulpice in diversi momenti della giornata e di prendere nota di tutto quello che vedeva.
O meglio “…quello che generalmente non si nota, quello che non si osserva, quello che non ha importanza: quello che succede quando non succede nulla, se non lo scorrere del tempo, delle persone, delle auto e delle nuvole”.
Il tentativo dura tre giorni.
Questa idea è entusiasmante. Finalmente un punto di connessione tra uomo e rettile.
Anch’io passo lunghe ore ad osservare ciò che accade, ma, a differenza di Perec, il tentativo non si esaurisce in tre giorni. Per me dura almeno sei mesi all’anno.
Alterno le visioni di Georges con le mie.
Place Saint-Sulpice
6° Arrondissement, Parigi
18, 19, 20 ottobre 1974
Largo del Ciliegio
Alla sommità della prima proda dell’orto
La prima settimana di primavera 2012
18 ottobre
Patate all’ingrosso
Da un pullman di turisti un giapponese sembra che mi faccia una fotografia. Un anziano signore con la sua mezza baguette, una signora con un pacchetto di dolci a forma di piccola piramide
L’86 va a Saint-Mandé (non gira in Rue Bonaparte, ma prende Rue di Vieux-Colombier)
Il 63 va a Porte dela Muette
21 marzo
Foglie secche
Formiche indaffarate raccolgono briciole
Sul tavolino sotto il ciliegio siedono un uomo e una donna
Zampe bianche e nere
Un miagolio e un lembo di bresaola cade vicino al gatto
Un merlo scava nella terra smossa
Alcuni inciampano. Microincidenti.
Un 96 passa. Un 70 passa.
E’ l’una e venti
Ritorno (probabile) di persone già viste: un ragazzo con un giaccone blu marina che porta in mano una busta di plastica passa di nuovo davanti al caffè
Un 86 passa. Un 86 passa. Un 63 passa.
Il caffè è pieno
Un bambino fa correre il suo cane (tipo Milou) sullo sterrato
E’ l’una e trenta
Sulla sedia sono appoggiati un gilet di panno rosso e un maglione (di cotone) turchese. Penzolano anche un paio di calzettoni (di lana) a righe colorate.
C’è il sole.
Il ciliegio inizia a fiorire.
Zampe marroni. Un piccolo ragno si arrampica sul telo che copre la proda dell’orto
Una buccia di mela golden e un torsolo di pera kaiser. Per me.
Striscia un verme rosa. Probabilmente un lombrico.
Il vento fa muovere le foglie degli alberi
Un 70.
Sono le tredici e cinquanta.
Trasporti SNCF
Le persone del funerale sono entrate nella chiesa
Sono le due e quaranta. Un uomo con il secchio pieno di terra.
Una donna che scopa la piattaforma di pietra e raccoglie le foglie.
Un gatto che dorme con il muso appoggiato fra le zampe anteriori.
Due formiche si contendono una briciola.
Cinguettii di pettirosso che arrivano da lontano.
Calore del sole alto in mezzo al cielo. Sonnecchio.
Ho visto ancora autobus, taxi, auto private, pullman turistici, camion e camioncini, biciclette, motorini, vespe, moto, un triciclo delle poste, una moto-scuola, un’auto-scuola, donne eleganti, vecchi belli, vecchie coppie, gruppi di bambini, persone con borse, con borselli, con valige, con cani, con pipe, con ombrelli, con la pancia, vecchie rugose, vecchi cretini, giovani cretini, dei bighelloni, dei fattorini, degli imbronciati, dei chiacchieroni.
Ritorna l’uomo con un altro secchio pieno di terra.
Passano, in ordine di apparizione, formiche, moscerini, una larva che fuoriesce dalla terra, un merlo che cerca la larva.
Mi sposto di circa dieci centimetri per gustare la buccia della mela.
Ritorna l’uomo con un secchio pieno di terra. E’ il terzo giro.
La donna si riposa sulla sedia e scrive su un grosso quaderno.
Il gatto se n’è andato all’ombra.
19 ottobre
Molte cose non sono cambiate, apparentemente non si sono mosse (le lettere, i simboli, la fontana, lo sterrato, le panchine, la chiesa, ecc.); io stesso mi sono seduto alla stessa tavola.
24 marzo
Sempre sotto il ciliegio, ma sulla pietra.
Una vanga, un rastrello, un secchio di plastica di colore rosso.
Teli di plastica grigia sulle prode.
Dalle pietre spuntano ciuffi di erba. Passano le solite formiche, ma non ci sono più le briciole.
Una donna sposta vasi di cotto con dentro alcune piante grasse.
Un cumulo di erba sradicata.
Ieri, c’era sul marciapiede, proprio davanti al mio tavolino, un biglietto della metropolitana; oggi, ma non è detto che sia nello stesso posto, c’è l’involucro di una caramella (cellophane) e un pezzo di carta difficilmente riconoscibile (più o meno grande come una scatola di “Parisiennes” ma di un blu molto più chiaro).
Sotto il tavolino tre pigne, una scatola contenente concime. Fito Universale. Liquido. Una lucertola senza coda.
Sono le tre. Il cielo è sereno e il sole caldo.
Sul tavolino una macchina fotografica, una bottiglia da 50 ml di plastica. Vuota.
I piccioni sono quasi immobili. E’ piuttosto difficile contarli (200 forse); parecchi sono accovacciati, le zampe ripiegate. E’ l’ora delle pulizie (con il becco, si spulciano il gozzo e le ali); alcuni sono appollaiati sul bordo della terza vasca della fontana. Alcuni persone escono dalla chiesa.
Due gatti sono distesi a 30 cm di distanza. Uno si lecca le zampe. L’altra si passa la zampa destra dietro l’orecchio destro.
Uno sbadiglia. L’altra punta una lucertola con la coda.
E ancora: perché due suore sono più interessanti di due altri passanti qualsiasi?
Dove sono finiti l’uomo e la donna che lavorano la terra?
Un pullman. Giapponesi.
Alcuni individui si riuniscono davanti a Saint-Sulpice.
Intravedo in alto sulle scale un uomo che scopa (è il sagrestano?).
Passa un uomo con un barattolo di Ripolin
Persone persone automobili
Una anziana signora con un bel soprabito impermeabile tipo Sherlock Holmes
La folla è compatta, non c’è quasi più un attimo di calma
Arriva una donna con un contenitore di plastica verde.
Lo vuota.
Bucce di arancia, foglie di carciofi, gambi di insalata. Foglie marce di catalogna. Bucce di patate. Buccia annerita di banana.
Buccia di mela Golden con torsolo annesso. Per me. (Finalmente)
Arriva un uomo con il solito secchio pieno di terra. A questo punto ho perso il conto dei viaggi.
20 ottobre
Passa una signora elegante che tiene, con gli steli in alto, un grande mazzo di fiori.
Passa un 63
Passa una ragazzina che porta due grandi sacchetti della spesa
Un uccello viene a posarsi in cima a un lampione
E’ mezzogiorno
Temporale
Passa un 63
25 marzo
Sul corridoio che porta verso l’orto.
Sono le tredici. In realtà sarebbe mezzogiorno.
Nuvoloso. Sole nascosto e aria un po’ fredda.
Rosmarino. Cespuglio di rose. Lavanda potata. Rosmarino. Cespuglio di rose.
Piccola montagnetta.
Ciuffi di erba. Foglie di tarassaco. Buone.
Progetto di una classificazione di ombrelli secondo le loro forme, i loro modi di funzionare, i loro colori, i loro materiali …
Da una sporta escono delle verdure
Passa un 96
Progetto di lauto pranzo per il mese prossimo: trifoglio, fiori di tarassaco, foglie di malva.
Magari ci scappa qualche lumachetta.
Il vento fa cadere la pioggia che si era accumulata sulla tenda del caffè: scrosci d’acqua
Il cielo è nuvoloso. Scende qualche goccia sparsa.
Forse è giorno di doccia.
Zampe bianche e nere mi sorpassano.
Ha già smesso di piovere.
Un uomo con il braccio sinistro ingessato
Un 63 che eccezionalmente si ferma all’angolo di rue des Canettes per far scendere una coppia di persone anziane
Un taxi DS di colore verde
Sono le diciassette.
E’ tornato il sole.
Un uomo e una donna camminano in fila indiana.
Si fermano davanti al pero. Guardano i fiori bianchi.
Alcune formiche. Due lucertole. Una canna dell’acqua. Tre innaffiatoi.
Il 63
Sono le due meno cinque
I piccioni sono sullo sterrato. Si alzano in volo tutti insieme.
Quattro bambini. Un cane. Un piccolo raggio di sole. Il 96. Sono le due
Sono le diciotto. Sarebbero le diciassette.
Profumo di rosmarino. Un uomo e una donna scendono le scale. Una gatta li segue.
Il ciliegio è tutto fiorito.
E’ ora di andare a dormire. Due lucertole mi tagliano la strada.
L’aria è calda. E’ stata una bella giornata.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Silvio Raffo (2011), Io sono Nessuno, Le Lettere
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Silvio Raffo (2011)
Io sono Nessuno, Le Lettere
“Uneventful” è la parola con cui Silvio Raffo apre la biografia di Emily Dickinson. Ironicamente provocatorio, visto che le pagine scritte per descrivere la vita della poetessa esprimono viaggi interiori e mentali di ricchezza straordinaria.
Raffo racconta con ritmo poetante la storia di Emily, preoccupandosi non tanto dell’ordine cronologico di eventi ed opere, quanto del suo percorso individuativo spirituale/poetico emerso da scritti epistolari e lirici.
L’incontro con le poesie di Ralph Waldo Emerson e gli scritti di Emily Bronte segna l’inizio della vibrante ricerca della Dickinson degli elementi fondamentali dell’umano esistere, quelli che “più che di cose tangibili si trattava di Essenze: il Mistero, la Fede, l’Amore, la Morte. Il Cuore, l’Anima e la Mente ne erano i depositari, i testimoni; la Natura il variegato scenario che perpetuamente li rappresentava”.
E se per “vita priva di eventi” si intende il fatto che Emily nacque, visse e morì nella casa paterna, certo le cose andarono così, Gli spostamenti di Emily furono rarissimi, ma non quelli del pensiero e dell’immaginazione “Tutto quello che aveva sempre confusamente avvertito dinanzi a certi spettacoli naturali, o in momenti particolari di smarrimento, di sofferenza o di ebbrezza, lo riscoprì incarnato nella sostanza dell’espressione poetica”.
“Ma scoprì soprattutto che in certi intensissimi istanti, in certe sere del pensiero la coscienza sembrava morire a se stessa, l’io usciva da sé e in una specie di buio elettrizzante intervallo entrava in contatto con il cosmo, con il nulla e insieme con l’essenza delle cose”.
Insofferente alle regole del collegio femminile cui era stata iscritta, Emily in realtà è troppo “avanti” per l’epoca che le era stata destinata, con lo sguardo che travalica le ristrettezze educative in uso in quel secolo. “Il fatto era che non solo le riuscivano insopportabili le regole e gli orari, i modi e i toni dei ritrovi e delle prediche, ma ardiva mettere in dubbio anche i contenuti del messaggio di fede: certi passi dei testi sacri le apparivano, più che discutibili, criticabili, e non esitava a rilevarlo apertamente”.
I rari trasferimenti compiuti da Emily erano probabilmente legati anche alle sue precarie condizioni di salute, “disturbi fisici che si facevano sentire in corrispondenza dei momenti di maggior sconforto: la sua sofferenza si esprimeva anche somaticamente in modi violenti”.
Nella partecipazione alle vicende sentimentali delle amiche, Emily sapeva, “sentiva” che non avrebbe mai provato l’estati dell’amore fisico. “A lei era destinata un’estasi d’altro genere, … un’Estasi che in modo oscuro aveva relazione con una sorta di Terrore Sacro, ineludibile, e con quei misteriosi episodi di paralisi convulsiva”.
Non che mancassero talune occasioni. Per esempio l’incontro con il Reverendo Charles Wadsworth: “Mentre ascoltava la sua predica sulla remissione del peccato, Emily provò la netta sensazione che quell’uomo stesse parlando a lei sola”. Ma erano passioni al di sopra del Terreno “aveva la folle impressione di essersi trovata di fronte a un’incarnazione del divino. … I loro due spiriti erano tanto affini quanto diversi ed estranei l’uno all’altro erano i loro corpi. Emily si lasciava andare alle fantasticherie, immaginando Charles Wadsworth intento all’adempimento delle sue funzioni. E intanto celebrava la sua Messa: Nel nome dell’Ape, nel nome della Farfalla e della Brezza – Amen”.
Emily trascorre sempre più tempo chiusa nella sua stanza a scrivere. “Non erano più soltanto frasi, né solo poesie scherzose … era il Mondo che si disgregava e si ricomponeva attraverso le Parole”. Una notte, mentre divampa un incendio nel bosco vicino a casa “Capì, in un fulminante riverbero di coscienza, la natura tremenda del proprio dono: seppe di possedere l’Arte del Fuoco, che illumina, purifica e distrugge per ricreare… di quell’unico fuoco sarebbe arsa tutta la vita”. “Era il Terrore, e insieme l’Estasi . ..Quando un improvviso fremito scuoteva i tralci del frutteto o un diverso portamento del vento faceva trasalire le foglie, si sentiva colta dalla paralisi che ormai riconosceva come un’amica, o come se le stessero tagliando la testa – e l’unico modo di porre rimedio a quegli elettrizzanti supplizi era sedersi allo scrittoio e far scorrere la penna da sinistra a destra sulla pagina immacolata”.
Come definire lo stile di questa donna ossessionata dalla poesia? Avanguardista, surrealista, metafisica, trascendente, ermetica. Un critico dell’epoca, Higginson, fu contattato direttamente da Emily, che attratta da un suo articolo, gli inviò una lettera in cui chiedeva un suo commento sui versi da lei scritti: “E’ troppo occupato per dirmi se i miei versi respirano?” Higginson non tardò a risponderle, descrivendo i suoi versi ‘spasmodici’. “La verità era che lo avevano disorientato, per l’uso atipico della sintassi e la trasgressività troppo moderna delle immagini”.
La morte del padre segnò profondamente l’immaginazione di Emily: “Dov’era, adesso, suo padre? Il suo cuore puro e terribile aveva finalmente trovato pace? Cercava d’immaginarlo senza corpo … se lo figurava come un prigioniero incarcerato in una cella di qualità particolare, fluttuante nell’Azzurro e capace di garantire al suo sonno il più morbido giaciglio”. Un anno dopo la madre viene colta da paralisi. Per sette anni Emily, che aveva sempre disdegnato i lavori di casa, le sta accanto con amorevoli cure, scoprendo l’amore proprio nell’imminenza della separazione finale: “Noi figli non avevamo mai avuto intimità con la mamma – ma le miniere dello stesso suolo s’incontrano, quando si scava: e divenuta lei la nostra figliola, venne l’amore”.
Un’altra figura maschile arriva nell’età più matura di Emily.
Otis Phillips Lord, già amico di famiglia, quando rimane vedovo infittisce la corrispondenza con la ritrovata figlia del vecchio amico. Emily verso di lui “stava sperimentando l’innamoramento in un modo certamente nuovo: quell’uomo non suscitava in lei emozioni realmente sublimi, né stati di angoscia o interrogazioni metafisiche … piuttosto una struggente tenerezza, come un traboccare d’entusiasmi a lungo repressi”. Mala Sposadell’Estasi e del Terrore, quando si sentì chiedere se non fosse il caso di pensare al matrimonio, rispose: “Mio diletto, non sai che ‘No’ è l’espressione più appassionata che si possa consegnare al linguaggio?”
Emily Dickinson muore a 56 anni. “Passò l’intero inverno a letto. Il medico non le diceva il nome della sua malattia, – non gliel’aveva mai detto – né a lei interessava saperlo. Dal letto seguiva ogni giorno il corso delle nuvole, del sole e delle stelle. .. A stare in piedi le girava la testa: le recava conforto immaginare di trovarsi in un punto sperduto dell’immensa superficie marina, chiudeva gli occhi e si sentiva cullata dall’oscillare dell’onda: era come giacere in un letto scavato per lei dall’Acqua, e a fluttuarle intorno era l’Eternità”.
All’epoca non ci fu alcun riconoscimento pubblico del suo genio, uneventful, appunto.
Ma che gioia poterlo scrivere con l’avventura infinita della Poesia:
Io sono Nessuno – e tu chi sei?
Sei Nessuno anche tu?
Allora siamo in due – non dirlo,
potrebbero spargere la voce!
Com’è pesante essere Qualcuno!
Così volgare – come una rana
che gracida il tuo nome tutto Giugno
ad un Pantano in estasi di lei!
Emily Dickinson incontra la Tartaruga
Portatemi il tramonto in una coppa –
Calcolate le caraffe del mattino
E ditemi quant’è la Rugiada –
Ditemi fin dove si spinge il mattino –
Ditemi a che ora va a dormire il tessitore
Che filò le vastità d’azzurro!
Scrivetemi quante note ci sono
Nell’estasi del nuovo Pettirosso
Fra gli attoniti rami –
Quanti viaggi fa la Tartaruga –
Quante coppe consuma l’Ape,
La Dissoluta di Rugiade!
Ancora, chi posò i piloni dell’Arcobaleno,
Ancora, chi guida le docili sfere
Con vimini di flessibile azzurro?
Di chi le dita che tendono le stalattiti –
Chi conta le perline della notte
Per vedere che nessuna manchi?
Chi costruì questa piccola Candida Casa
E chiuse così bene le finestre
Da impedire al mio spirito di vedere?
Chi mi farà uscire in qualche giorno di gala
Con strumenti per volare via,
Superando ogni Pomposità?
TartaRugosa ha letto e scritto di Pupi Avati (2010), Una sconfinata giovinezza, Garzanti, Milano
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Pupi Avati (2010)
Una sconfinata giovinezza
Garzanti, Milano
C’è bisogno di un diario nelle situazioni di smarrimento. Chicca, insegnante di Filologia medievale, ha bisogno di registrare il presente e il futuro perché Lino, il critico sportivo cui è sposata da venticinque anni, è malato di Alzheimer e questo cambierà la vita di entrambi.
A tavola, mentre stanno pranzando, già intuiamo i primi segnali di anomia, cui Chicca tenta di intervenire, cercando di aiutare Lino a recuperare la parola che manca. “Come si chiamano queste? Me.. Me …”“melanzane”. “E’ importante che ti sforzi, questo fa bene alla memoria”.
E se Chicca dovrà, giorno per giorno, adattarsi alle amnesie e ai mutanti disturbi di Lino, questi sarà alle prese con le pagine di un diario particolare, quello della memoria del passato che continua ad affiorare nelle nebbie dell’oggi.
Nel malato di Alzheimer ritornano le immagini più remote e Lino costantemente si trova di fronte a ricordi che probabilmente vorrebbe evitare: quello della morte dei genitori avvenuta per incidente di macchina, quello dei ragazzini che non subito lo accolgono bene quando arriva in campagna a casa degli zii, quello dei primi approcci sessuali con una giovane adolescente che “muore” dopo un contatto ravvicinato con lui, quello di doversi separare dal cane Perché quando lascia la campagna e va studiare in città.
Veniamo a conoscenza della sua storia progressivamente, con delle retrospettive narrate che si incastrano nella vita del presente, dove la vita fluisce con imprevisti e colpi di scena.
La famiglia di Chicca è ricca e agiata. Suo fratello, neurologo, si accorge che qualcosa non va, ma rispetta il silenzio della sorella. Durante un pranzo di Natale, mentre soddisfatto per l’elevato numero dei componenti augura una buona continuazione della progenie, Lino mormora: “Vai a fare un culo”. Lui e Chicca non sono riusciti ad avere figli “in una famiglia in cui tutti figliano come conigli”.
Durante una trasmissione sportiva, Lino inizia i suoi commenti ma improvvisamente si blocca, si alza e se ne va. Nello studio dello specialista apprendiamo che: “Nella prima fase la terapia ha dato ottimi risultati, ma ora sta perdendo efficacia”. Ora i problemi iniziano anche presso il giornale con cui Lino collabora. “Lino inizia con la sua bella scrittura, ma poi divaga e parla della sua adolescenza” spiega il caporedattore. Chicca piange:
“Se smette di lavorare è morto. Dagli almeno l’illusione di continuare”.
Mentre si organizza una festa per i 40 anni di lavoro di Lino, succede un evento imbarazzante. Quando Lino, desiderando ringraziare anche Chicca per la sua presenza di moglie premurosa, perde i freni inibitori e approfondisce le sue avances in modo scurrile, la festa degenera e Lino, a casa, aggredisce e picchia Chicca accusandola di essere gelosa. Poi si accorge del suo comportamento e se ne duole, ma ormai è sopraggiunto anche il cognato: “La violenza è una manifestazione della malattia. Deve passare questa fase. Lascia questa casa”. Lasciamo Lino qui, ma tu che sei la sola in pericolo devi venire via con me. Devi anche sapere che farà di tutto per trattenerti, ma tu devi venire via”.
Il distacco è straziante. Lino: “Lo so che cosa ti ho fatto. Ti prego non te ne andare”. Non voglio che vai via”.
Arriva comunque il tempo del ritorno.
Una notte Chicca si sveglia e vede che Lino non è a letto con lei. Si alza e lo cerca. E’ alzato che ripassa le tabelline. Iniziano a dire la tabellina del due. Dopo qualche titubanza Lino risponde correttamente e riceve i complimenti.
Chicca al diario: “Lino sta diventando il bambino che non ho mai avuto. Oggi è mio e devo essere la sua mamma almeno fin quando non sarà scappato via”.
In un negozio di giocattoli compra un gioco semplice per la playstation, per bambini di 6 anni, eppure Lino non riesce a giocarci. “Giochiamo alla pista?” e insieme tirano fuori i tappi di bottiglia. Si divertono tantissimo, giocando per terra rannicchiati dentro la pista. Un gioco che ha accompagnato Lino bambino.
Ancora uno spaccato del passato. Invitato da Ida ad appartarsi in una stanza, Lino teme di averla uccisa perché ad un certo punto si lascia cadere a terra e non risponde più. Lino scende i gradini della scala urlando che Ida è morta e quindi chiama l’amico che dice di essere capace di resuscitare i morti. L’amico accetta ma gli chiede in cambio il cane. Giungono al compromesso che Lino glielo presta. L’amico si chiude in camera con la ragazza e dopo un certo periodo escono insieme.
Questo episodio ha un’importanza centrale nel presente che si svolge.
Perché Chicca, uscendo di casa di malavoglia per andare ad assistere a un concerto del nipote che ha recentemente preso la patente, ha un incidente molto grave e viene portata via con l’autoambulanza – in cui sale anche Lino – a sirene spiegate.
Il grave infortunio di Chicca sconvolgerà ulteriormente la già precaria esistenza di Lino che, per affrontare l’accaduto, tenta disperatamente di porvi l’unico rimedio che la memoria dell’adolescenza gli propone: trovare l’amico che sa resuscitare i morti. Nelle vie tortuose della mente che si dissolve l’ancora di salvezza è la sopravvivenza di Chicca.
Lino parte per il paese dell’infanzia. Il taxista che dalla stazione lo porta davanti ad una casa di campagna reputa corretto intascare la grossa somma che Lino gli dà e mentre si intrattiene con la portinaia, Lino sale le scale.
Nerio è a letto disteso. Lino non lo riconosce, ma l’amico gli fornisce una serie di particolari tali per cui Lino si convince che è lui. Gli chiede del fratello Leo. Il taxista che lo ha raggiunto dice che Lino vuole uno che resuscita i morti. Per tutta risposta, Nerio accompagna Lino al cimitero e si fermano davanti alla tomba di Leo, che nel frattempo è morto.
Gli dice anche che da ragazzo Leo gli aveva fatto lo scherzo con Ida perché voleva il cane. In realtà Ida aveva fatto finta di cadere e di morire.
“Come faccio adesso?, chiede Lino “E il mio cane?”
“E’ morto anche lui. E’ andato sotto un camion”.
“Non è vero. Perché è un cane immortale”.
Se ne va mormorando “mi doveva ridare il cane. Lo vado a cercare”. Il taxista tenta di fermarlo. Fa freddo e fra un po’ diventa buio. Visto che Lino non lo ascolta prende il taxi e se ne va.
Qualche tempo dopo un’altra macchina si ferma davanti alla stessa casa di campagna. C’è Chicca col fratello. Ce l’ha fatta a salvarsi. Ma di Lino con c’è traccia.
In quel tempo senza tempo, dov’è Lino, scaraventato in un passato temporalmente irreale? Ma in quel passato che ritorna bisogna anche occuparsi dell’amato cane Perché.
“Perché. Vieni! Sono io, sono tornato a prenderti. Dai non avere paura. Vieni. E’ quasi notte. Vieni.” Fischia. “Non aver paura. Sono io”.
Il taxista spiega che l’hanno cercato per tre giorni, senza trovarlo. Chicca è sulla macchina. “Aspetta solo un attimo”. Scende e va verso la campagna. Poi torna alla macchina.
“C’è un bambino che scappa e la sua mamma si dispera perché non riesce a trovarlo. Dove vanno i bambini che scappano. Perché è così segreto e irraggiungibile quel luogo? E perché le loro mamme non sanno trovarli?”.
Da questo romanzo l’omonimo film con Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri
TartaRugosa ha letto e scritto di: Sandro Veronesi (2011), La furia dell’agnello tratto da “Baci scagliati altrove”, Fandango
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Sandro Veronesi (2011)
La furia dell’agnello
tratto da “Baci scagliati altrove”, Fandango
Questo racconto ha fatto la comparsa domenica 20 novembre nell’inserto “Domenica” del Sole 24 Ore.
Non ci avrei fatto caso se il titolo indicato non fosse stato “Sorella tartaruga”.
Nel tardo autunno sono già ben nascosta fra le radici del pino, ma non ancora totalmente dormiente. Mi allettava quindi ascoltare un racconto che avesse a che fare con una mia simile. Almeno credevo.
Avrebbero dovuto essere un avvertimento l’altro titolo “Incontrare il Male nel giardino di casa” e l’anticipazione: “Una violenza gratuita, capitata quasi per caso, si trasforma rapidamente in un incubo. Perché, messa in moto, è impossibile fermarla”.
Ma noi tartarughe siamo ostinate e curiose.
I protagonisti: Mète, un bambino di 11 anni, la “pazza” proprietaria del giardino confinante con la casa di Mète, la tartaruga.
I particolari non sono molti. Mète baratta il suo pallone da calcio con una carabina Flobert di un compagno di scuola. La nasconde nel giardino confinante messa a disposizione di una donna definita “pazza” , probabilmente a causa “di una famiglia sgretolata dalla morte del figlio corridore d’automobili, seguita da un’impressionante catena di ulteriori tragedie cui era scampata solo la madre”.
Di questa donna diventa amico, nonostante gli fosse proibito di avvicinarla. Mète ne ha una visione assai diversa dagli altri. La donna gli parla con dolcezza e rammenta un episodio particolare: “di averlo visto piccolo dentro la culla e di avergli persino salvato la vita, quando sua madre glielo aveva affidato per alcune ore, un pomeriggio, e lui stava per morire soffocato da mezzo biscotto Plasmon”.
E poi è una donna generosa, visto che gli mette a completa disposizione il suo giardino.
Che fascino per Mète avere in ogni momento la possibilità di accedere in quel mondo vegetale infestato da ortiche dove pullula una serie infinita di bestie “insetti terricoli, e gatti, ricci, rospi, formiche alate, lombrichi, lumache, topi, ramarri e serpentelli; sui rami degli alberi, lassù, inavvicinabili, ghiri e scoiattoli insieme alla festosa sarabanda di uccelli sempre diversi”.
Per raggiungere il suo regno Mète impara a dire le bugie, a fare della menzogna il principale dialogo con la madre. Nel giardino sa di poter nascondere il fucile, con la benevolenza accogliente della pazza, che assiste alle sue incursioni di caccia e agli spari contro barattoli, tronchi e bottiglie. Ma gli animali, mai. Rispettare gli animali era una delle poche regole accettate fra le mille altre imposte dalla madre.
Arriva il giorno in cui – “proprio sotto il cedro dove tanti anni prima la pazza gli aveva salvato la vita” – trova una tartaruga.
Ne rimane incuriosito, ne osserva il comportamento e vede che in qualsiasi posizione la orienti, lei cerca sempre d’incamminarsi nella stessa direzione (qui sorrido, noi siamo proprio fatte così, se ci mettiamo in testa qualcosa, non c’è verso di farci cambiare idea!).
La pazza guarda Mète concentrarsi sul guscio e si intromette a fare le proprie considerazioni sulla consistenza del carapace, supportandole con azioni non del tutto pregevoli: “ci tirò contro delle zolle .. e poi passò a percuoterla con un sasso”.
“Vedi?, disse la pazza, E’ durissima. Può resistere a tutto, anche ai colpi della tua carabina”. E propose di fare una prova.
E da qui inizia il racconto dell’orrore, non molto dissimile, per inquietante atmosfera, ai tremendi film di Michael Haneke, in cui l’abuso di una violenza gratuita e ingiustificata pervade la scena dall’inizio alla fine.
Come è cinico a volte il destino. Il primo colpo lascia intatta la tartaruga, facendo tirare un sospiro di sollievo a Mète. “era vero, la corazza era impenetrabile”. Ma la pazza non demorde. Trova il proiettile conficcato nella corteccia del cedro, poco più in alto rispetto alla tartaruga, e invita a ritentare.
Non riesco a riportare la descrizione di ciò che accade dopo lo sparo, che questa volta va a buon segno. Dirò che a quello sparo ne seguiranno altri. Ma la tartaruga, ridotta a brandelli, non ne vuol sapere di morire. La vicenda continua col tentativo di un affogamento e, infine, visto che l’acqua non dà risultati, si prova col fuoco.
Ma il fuoco si ferma solo sul carapace. “Rimasero ancora immobili, Mète e la pazza, ad aspettare che la fiamma si estinguesse …ma esterna, troppo esterna alla tartaruga per poterla realmente sopraffare. E infatti, quando ancora una flebile barba di fuoco sopravviveva sulla sommità della corazza, dai buchi tornarono a spuntare le zampe, la coda, e poi il muso, tutte le ferite cauterizzate, sfigurate in un ghigno interminabile.”
La tartaruga, come ogni predente volta, tenta di riprendere il suo cammino verso la stessa direzione, ma la sua lentezza lascia immaginare infinite sofferenze.
Non resta che fare una cosa: seppellirla.
“Con una pala Mète scavò una buca, e la fece profonda, profondissima, da potercisi seppellire lui stesso. La tartaruga, nel frattempo, ne approfittò per incamminarsi nella solita direzione, e quando Mète ebbe finito di scavare dovette andare a recuperarla sotto un cespuglio di ortiche, pungendosi le braccia. La mise dentro la buca e prima di ricoprirla ci gettò dentro la carabina”.
Se il racconto qui terminasse avrei di che stare sveglia a meditare per tutto l’inverno che ancora deve iniziare. Il brivido provato non so come possa influire sulle poche righe finali e sul tentativo, nonostante quanto accaduto, di trovarvi un messaggio positivo.
Ci provo.
“Mète … ebbe bisogno di piangere… Poi piano piano si calmò, smise di piangere, e pregò il Signore di fargli dimenticare presto il male commesso. In cambio rinunciò per sempre al suo giardino, e promise di non disubbidire mai più. .. uscì dal bagno, e tra le braccia della madre gli parve che il Signore avesse ascoltato la sua preghiera, che avesse già cominciato a esaudirla. … Più tardi sentì suonare il campanello di casa, e sua madre andò ad aprire. … Era la pazza, bianca in viso, gli occhi ancora più stravolti … farfugliando parole terribili che tra i singhiozzi Mète capì a stento: E’ ancora viva, è uscita, l’ho vista uscire, è viva ..”
Sorella tartaruga ha resistito e vinto sul Male? A che prezzo, comunque?
Di quella notte seguita alla lettura ricordo un frammento di sogno, peccato sia solo un’immagine: in una landa sperduta, in una strada polverosa battuta dalla sabbia, alcuni banconi esponevano pezzi di carne in vendita e dietro ai banconi vociavano loschi personaggi stranieri, vestiti di lunghe tuniche e capi bardati da turbanti .
I pezzi di carne su cui volavano le mosche erano umani.
- link all’editore Fandango
Lionello Sozzi (2011) Gli spazi dell’anima, Bollati Boringhieri
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Lionello Sozzi (2011)
Gli spazi dell’anima, Bollati Boringhieri
Dove abita la nostra anima? Dove la cerchiamo? Come ce la rappresentiamo?
Immaginando di interloquire con essa, il nostro dialogo interiore è reso maggiormente semplice dall’incontro di particolari spazi esteriori, evocatori di vibrazioni interne e di impressioni intime non sperimentate altrove.
Nella letteratura, l’anima – piuttosto che il tempo – predilige uno spazio per manifestarsi e la ricerca o lo svelamento di questo luogo è un caleidoscopio immenso di immagini, quasi a contrastare la natura effimera e non tangibile che l’anima riveste, per accoglierla e proteggerla in rifugi concreti e visibili.
Nei nostri spazi circostanti, allora, l’anima si apparta e con essa la nostra vita interiore, sia con una spinta ascensionale verso l’infinito universale o con una discesa verso il buio profondo e sconosciuto, o sia in uno spazio aperto o in uno spazio chiuso dove orizzontalità e verticalità si incrociano in una vorticosa danza, specchio delle nostre variegate emozioni.
L’intento – assai riuscito – di Lionello Sozzi è proprio quello di offrirci una pluralità di luoghi scelti dalla letteratura narrativa e poetica, nei quali la polisemia delle voci sia eco di quelle nostre più intime: “la letteratura non è un patrimonio esterno a noi, puramente libresco: essa risolve in armonia e bellezza le nostre voci più intime, poeti e scrittori sanno tradurre in poesia le immagini del mondo perché sanno che corrispondono a realtà presenti in tutti, a valori che l’uomo abitualmente dimentica ma che poi, nei momenti privilegiati della lettura, dell’osservazione o dell’ascolto, grazie cioè al tramite della creazione poetica e artistica, gioiosamente riscopre”.
Dunque un viaggio verso l’interiorità grazie ad esplorazioni negli anfratti o nelle infinità più singolari: caverne e miniere, celle e nascondigli, retrobotteghe, gusci di conchiglia, acqua, fuoco, fiori, foglie.
E per me, TartaRugosa rannicchiata nel suo guscio, è estasiante incontrare in queste pagine esigue dimensioni pullulanti di operosità e progettazione: “alludiamo all’idea di un alveare che diventa simbolo, insieme, di intensa frequentazione e di assidua operosità. … L’alveare: il luogo composto, a sua volta, di minuscole cellette, ciascuna destinata a un pensiero, a un ricordo, a una preghiera, a un progetto, ma anche il luogo in cui si distilla il miele, il luogo cioè in cui l’anima umana ricava, da tutto ciò che ha visto, udito e assorbito nel mondo, i suoi esiti creativi più trasparenti e sostanziosi”.
Ancora, trascorrendo i mesi più freddi protetta dalla terra fra le radici del grande albero, mi riconosco in queste parole: “La scelta di chiudere con un muro invalicabile il proprio spazio interiore è metafora della volontà di non prestarsi all’invadenza del mondo, di negare ogni accesso alla volgarità, di non divulgare e sperperare la propria ricchezza, forse anche di non cedere al fascino di sensazioni troppo vive: esse, dice Bonstetten, cancellano a poco a poco la percezione che abbiamo dell’intimo spazio della nostra chambre obscure e nuocciono, così, alla conoscenza di noi stessi. Per conoscerci a fondo dobbiamo non annullare le sensazioni che ci procurano gli oggetti a noi esterni, ma disporre, tra noi ed essi, se non un muro che finirebbe con l’annullarle, perlomeno la cortina di un protettivo ripensamento”.
Sì, decisamente amo di più le zone anguste e protette. Le estensioni ampie mi intimoriscono, probabilmente perché non riesco ad abbracciarle nello sguardo o a percorrerle col mio lento cammino. Anche una camera può contenere la possibilità di un viaggio interiore: “lo spazio circoscritto, il ristretto orizzonte della camera hanno un po’ la funzione della siepe leopardiana, sono il limite che fa scoprire per necessaria compensazione l’infinito e l’eterno. Fra quattro pareti, infatti, l’io si scopre infinito come gli spazi interminati nella cui dimensione, fra breve, si muoverà l’anima romantica … La vista, dalla finestrella della stanza, di un cielo stellato, o anche solo il volo di un insetto, il profumo dell’aria, una sorta di indefinibile incanto sembra che contengano e traducano un’idea inesplicabile di immortalità”.
E poi io sono creatura di terra, più incline quindi alle pratiche terrene che agli umori spirituali. Ben vengano quindi le parole di Montaigne sulla sua idea laica dell’intimo retrobottega: “bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà”.
Il fascino dei retrobottega appartiene alla mia infanzia. Vivevo in una portineria di un palazzo sul cui cortile interno, oltre alla saracinesche dei garage, si affacciavano le porte dei retrobottega di una latteria, di un bar e di un fruttivendolo. Era curioso per il mio sguardo di bambina entrare dalla via in negozi che poi sbucavano sul retro con un panorama totalmente diverso da quello che vedevo quando accompagnavo mia madre a fare la spesa. Sozzi , ricordando Montaigne, esprime un mio sentimento che attraverso questa lettura riprende forma: “Al lettore dei Saggi piace l’immagine del retrobottega perché, nella sua apparenza ruvida e mercantile, essa lo riconduce a ricordi d’infanzia, al tempo in cui egli si recava nelle botteghe del quartiere .. e,curioso e ammaliato, intravedeva, al di là di usci o tende invalicabili, la ricchezza, la profusione, lo stupendo disordine di un retrobottega immerso nell’oscurità. Opulenza di spazi segreti, di tenebrosi ricettacoli: già allora forse avvertiva che quegli spazi assumevano un valore simbolico, che erano immagini di beni concupiti, di sogni impossibili, che facevano scoprire in qualche modo il contrasto tra le luci del negozio e l’ombra di quel ripostiglio, tra l’ordine e la linda geometria del primo e la confusione che s’intravedeva nel secondo, tra la sobria, modesta prevedibile disposizione degli oggetti che caratterizzava la bottega vera e propria, e la sregolata farragine, l’ammucchiata profusione di merce che s’indovinava, tra anguste e penetranti sentori, nel locale retrostante”. Oh sì! Il mistero di ciò che si nascondeva dietro un vetro opaco o una tenda spessa solleticava la mia fantasia, poiché sapevo che dietro a quel divisorio si conduceva una vita attiva, visto e considerato che ci stavano bambini suppergiù della mia stessa età. Ma non era la loro abitazione, era uno stare sospeso con molte scarse possibilità di condividere con altri coetanei quell’ambiente di divieto. Le madri infatti impedivano l’accesso dalla porta che dava sul cortile, impegnate probabilmente a nascondere il disordine o i piani di appoggio di fortuna mezzi sepolti dallo stoccaggio di prodotti che non trovavano spazio – o che servivano da scorta – negli scaffali del negozio antistante.
Riflette Sozzi: “Leggendo i testi che largamente citiamo, il lettore potrà a volte considerarli troppo noti e scontati, altre volte aggiungerà i riferimenti e le citazioni che potranno occasionalmente tornargli alla memoria … ma dovrebbe soprattutto, così almeno speriamo, riuscire in qualche modo a ritrovare se stesso, a recuperare qualche zona più in ombra del suo orizzonte interiore. Che è poi, riteniamo, una delle cosiddette “funzioni” della letteratura, e certo non l’ultima”.
Obiettivo raggiunto.
Scavarsi la tana in una piccola zolla friabile di terra
TartaRugosa ha letto e scritto di: Florence Seyvos (2009) La tartaruga che viveva come voleva, Salani Editore Traduzione di Michela Finassi Parolo Illustrazioni di Claude Ponti
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Florence Seyvos (2009)
La tartaruga che viveva come voleva, Salani Editore
Traduzione di Michela Finassi Parolo
Illustrazioni di Claude Ponti
I temi dell’esistenza spesso sono complessi da introdurre nella mente di chi ha alle spalle troppi pochi anni per poter comprendere ciò che pure in età più avanzata nasconde mistero e interrogazione.
Con questo racconto breve, l’autrice ha scelto una modalità narrativa assai efficace per portare all’immaginazione prima e all’interiorizzazione poi gli incontri che marcano la vita di chiunque. Lo ha fatto scegliendo la tartaruga, un animale che archetipicamente rappresenta forza, resistenza, perseveranza.
Accompagniamo quindi Pucé “che aveva lasciato molto presto la casa dei suoi genitori, per vivere come fanno i grandi”.
E come nei racconti mitici, quando esci di casa lo fai per intraprendere un viaggio e in quel viaggio la tua vita cambia.
Pucé trova un amico, Pocì, col quale nutre un intenso rapporto di amicizia e di condivisione della casa con “una grande cucina con tante buone cose da mangiare … una piscina a forma di foglia di quercia e un caminetto”.
Pucé non sa che cosa significa morire. Lei vuole vivere come vuole. “Un giorno … un sasso cadde sulla testa di Pocì … Pucé rideva a crepapelle… ma Pocì non era soltanto stordito, era morto”.
L’attesa diventa oppressione, quando ciò che attendi non succede. E Pucé vuole che Pocì si svegli, ma questo non accade.
Quando uno muore potrebbe scrivere qualcosa per avvertire, no? Ma Pucé non trova nessun messaggio e il dolore della perdita è così grande – tanto quanto quello della delusione – che per lenire la sofferenza, Pucè inventa lettere firmate da Pocì con piccoli pensieri affettuosi, affinchè lei non si senta troppo sola.
Ma non è molto consolatorio, nonostante ad ogni lettera trovata si premuri di dare una risposta. Finchè decide: “Mio caro Pocì, so bene che non sei tu a scrivere questi messaggi. ,,, Adesso lascia perdere, non mi fanno più piacere, perché li conosco a memoria. … Pucé”.
E quasi per la troppa severità, o perché in ogni caso la vita riserva sempre qualche visione segreta, fa seguire “Mia cara, piccola Pucé, anche se non sono io a scrivere i messaggi, non vuol dire che non pensi a te. Pocì” .
Talvolta l’impatto con la pena spinge a una regressione, a un ritorno verso la protezione. Ma Pucé è una tartaruga che vuole continuare il suo percorso, per cui anche durante la visita dei genitori preferisce fingersi felice – a dispetto della voglia di piangere – e a congedarsi da loro.
Com’è difficile mettere insieme le nostre diverse parti, quando fra loro si scontrano, divergono, sono ambivalenti. Sbarazzarsi dei ricordi, degli oggetti appartenuti a qualcuno che si ama, non è compito facile. “Ma tutt’a un tratto Pucé si ricordò che le collezioni sono fatte per essere tenute da parte Tirò un sospiro di sollievo, e si mise a cercare un posto adatto”.
Può anche succedere che si resti diffidenti verso nuovi incontri, non sempre certi dell’esito di nuove amicizie. Ma le relazioni possono essere transitorie e lasciare comunque tracce interessanti. Come la chiocciola Coso, che, in attesa del primo acquazzone, fa scoprire a Pucé la gioia di dipingere.
Il viaggio continua e la valigia non deve risultare troppo pesante. Può bastare qualche foglio di carta e una matita.
Nestore, un’altra tartaruga incrociata nel sentiero, fa capire a Pucé quanto sia importante essere accuditi e coccolati “Non c’è nessuno che si occupi di me, si ripeteva tristemente Pucé. Prima Pocì si occupava di me: Quando ero malata, mi preparava la camomilla … Si sentì pizzicare in gola. Devo smettere di pensare alla camomilla, si disse, altrimenti mi verrà il raffreddore””.
Semolino, il porcospino, le racconta una storia davvero incresciosa: “Papà e mamma mi avevano chiesto di accompagnare i miei sette fratellini e le mie nove sorelline a fare una passeggiata, stando bene attento a non perderli. Ma sono stati loro che hanno perduto me. Prima mi hanno bendato gli occhi, per gioco. Poi mi hanno sotterrato, per gioco. E poi se ne sono andati” … “Ma è orribile! esclamo Pucé”. “No, no, disse Semolino e comunque eravamo in troppi. Sto bene qui. Mi sono costruito una casa e so fare la torta ai mirtilli. E’ squisita. La vuoi assaggiare?”.
Possiamo riconoscere grandi cose in piccole cose. Una fetta di torta di mirtilli, una grotta ampia e sicura per ripararsi dal freddo e dal buio, una crepe mangiata in compagnia ….
I ricordi ci abitano.
“Mio caro Pocì, sono una tartaruga molto felice. Forse ora non piangerò più pensando a te, ma mi mancherai sempre. Allora, quando sarò davvero triste, farò finta di piangere. Spero che ti dimenticherò un pochino, fra qualche tempo. Ma per adesso spero di non dimenticarti mai. Pucé”.
Così è la vita. Così essa trascorre con le sue incognite e le sue emozioni.
Ritroviamo Pucé a 111 anni con tanti nipotini e nipotine attorno che ascoltano con rinnovato stupore le sue numerose storie.
Una, Bollicina, è la preferita di Pucé. Chissà se in lei rivede se stessa, la sua determinazione, le sue passioni, i suoi desideri.
Bollicina sostiene che da grande non farà nulla di quello che ha fatto la nonna. Si troverà un compagno e starà sempre con lui. “Faremo dei grandi viaggi insieme. E io sarò sempre molto felice. E lui non mi lascerà mai”. “Che bella idea, Bollicina, disse Pucé”.
Perché illusione e speranza sono necessari per governare la vita e il suo destino.
TartaRugosa ha letto e scritto di: GASPARE ARMATO (2011) Il senso storico del FLANEUR, Autorinediti, Napoli
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Gaspare Armato (2011)
Il senso storico del flaneur
Autorinediti, Napoli
Mi sono recentemente imbattuta nella lettura di “Manuale di psicogeografia” di Daniel Vazquez, dove l’autore spiega le tappe che hanno portato, negli anni Cinquanta, alla nascita di questa scienza.
Ho appreso così il concetto di deriva, una pratica che consiste nell’errare per città, strade, quartieri in modo dinamico e frettoloso, allo scopo di osservare come i vari ambienti cambino e come influenzino i comportamenti affettivi umani, nonché di accentuare la contraddizione tra aspettativa di libertà e ostacoli che il territorio urbano pone.
Un capitolo del libro è titolato “La psicogeografia non è flanerie” e qui si spiega che la deriva è un’esperienza completamente diversa da quella condotta dal flaneur, che gira per la città come fosse uno spazio pieno di meraviglie.
L’avanguardista Debord sostiene che la civiltà contemporanea ha precluso le quattro condizioni necessarie al fare flanella: folla, anonimato, tempo di non-lavoro e smarrimento davanti alla merce infatti non sono più attuali.
La folla si è spostata dalla piazza alla fabbrica; l’anonimato non è più garantito dalle nuove ipercontrollanti tecnologie (cellulare, computer, webcam); il non-lavoro si è trasformato in disoccupazione dilagante e quindi incompatibile col lusso della spensieratezza; infine, quanto alla merce, c’è stato un rovesciamento di senso poiché non si esce più per andare a consumare, ma si va a consumare per poter uscire.
Probabile. Però la deriva non ha avuto grande storia. Di definizione in definizione, così abbarbicata all’ideologia e all’iperpoliticismo, ha finito per diventare qualcosa di cui non si sa più bene di che si tratti.
Viceversa, stando al libro di Gaspare Armato, il flaneur resiste e segue i cambiamenti per poterne fare la storia.
E qui ci sta una parentesi autobiografica. Sono tartaruga lenta e primitiva. Ci sono affermazioni che non sempre riesco a capire. Per esempio, i detti popolari. Ancor oggi mi angustia il motto “Non si getta l’acqua sporca col bambino dentro”. Come si fa, dico io, a gettare l’acqua con dentro il bambino? Lo si vede, no? Non è una spugna o una saponetta. Stando agli atti criminali in auge, non ci sarebbe forse da stupirsi così tanto, ma ogni volta che sento queste parole, scatta in me l’interrogativo.
Il secondo modo di dire risale alla mia infanzia. “Muoviti, non stare lì a far flanella”. La flanella è sempre stato un materiale molto amato nella mia famiglia. I miei pigiami e quelli dei miei genitori erano, d’inverno, rigorosamente di flanella. Avevo camicie coloratissime e calde sempre di questo materiale, prima dell’avvento del pile. In campagna, nelle notti ancora fresche e umide di fine maggio, sui letti le lenzuola di flanella evitavano il brivido da contatto al momento del coricamento. Cosa voleva quindi dire, muoviti non fare flanella? Le mie cognizioni riguardo alla materia non si erano troppo spinte in là (ai tempi non c’era Google). La definizione del vocabolario confermava la flanella come tessuto morbido di cotone e, nella mia fantasia, mi ero data la spiegazione che per trasformare il cotone nella blanda peluria flanellosa ci volesse molto tempo d’attesa. Evidentemente sarei rimasta ancor più perplessa se avessi saputo che un ulteriore significato di far flanella è quello di intrattenersi in una casa di tolleranza senza richiedere alcuna prestazione. Probabilmente l’avrei associato al tenero abbraccio delle lenzuola … Fine della parentesi dei ricordi.
Ritorniamo alla figura del flaneur o,.come lo definisce Armato, pedone attento: esce di casa, cammina, girovaga senza una meta e senza orario, una strada tira l’altra, una curiosità approda alla seguente, una conversazione induce ad approfondire uno specifico tema, si immedesima. Eppure lui ne è distaccato, vede il movimento da un angolo del tutto particolare, dal suo angolo culturale, dalla sua inclinazione caratteriale, dalla sua visione storica, dal suo essere un ozioso affaccendato. L’ozio si rivela una condotta più virtuosa del lavoro fisico in sé per sé.
Non è da poco essere flaneur: S’intende di fisiognomica, scruta con attenzione i soggetti di cui è attratto, legge i loro volti, le loro rughe, ne deduce il mestiere, l’origine, ascolta i loro ragionamenti, analizza il modo di muoversi, il passo veloce o lento, deciso o perplesso, a volte segue il loro cammino, a volte si perde fra la folla, a volte ne esce, a volte fugge verso la periferia dove ritrova quella parte di esseri umani che non possono avvicinarsi al nuovo, al lusso, s’immerge nei dedali estremi della città costruita come i labirinti della mente.
Diversamente da quanto sostiene Debord, il flaneur conserva la sua capacità di essere testimone delle mutazioni del suo ambiente di vita “coglie le differenze fra una città in cui si ritrova piacevolmente … e una città che diventa sempre più strumento per vivere meccanicamente, per lavorare, viaggiare, dormire, una città asettica, fredda, priva di passioni”.
Armato considera nelle pagine del suo libro opere letterarie, poetiche, pittoriche che vanno da Baudelaire, a Whitman, a Walser, a Calvino, Pier Paolo Pasolini, tanto per citarne alcuni, fino alle pennellate impressionistiche di Van Gogh, Pissarro, Monet, e poi Guttuso e Saura. Grazie a loro, al loro muoversi, al loro guardare, toccare, odorare, sentire e all’intuizione, nonché sensibilità artistica, si può identificare il passaggio da un’epoca all’altra.
Che poi, avverte Armato, essere flaneur non significa appartenere ad un tempo che non tornerà più. Anche l’oggi necessita i suoi flaneur. Non è forse flaneur un giornalista? “L’articolista deve scendere in campo, attraversare le vie, accorgersi del movimento, dei sussurrii, delle inquietudini, deve essere in grado di sviscerare la vera quintessenza per informare sulla realtà di una città che si trasforma da un giorno all’altro, dove l’industrializzazione e la nuova società borghese capitalistica acquistano sempre maggiore forza e la vita nevrotica porta a non essere presenti come si deve.”
Il compito del flaneur,nel suo ozio affaccendato, è quello di scrivere la Storiaattraverso tante piccole storie: “il pedone attento flanella senza un preciso itinerario, giacchè sa che ogni scoperta ha un valore che alla fine si somma a un altro per completare un insieme”.
E allora scruta, rovista negli archivi, si fa attrarre da piccoli indizi provenienti dalle mura di una casa, si intrattiene in conversazioni con la gente per “ascoltare la vita dalle loro stesse bocche… loro hanno la storia segnata sul volto, nel sangue delle loro vene, hanno un’oralità che bisogna tramandare: lo storico flaneur, lo abbiamo detto, se ne incarica come per destino”.
Bighellonando fra le numerose citazioni letterarie che ci immergono nello spirito dei luoghi, Armato conclude il suo testo con un serrato pedinamento di un flaneur pistoiese, per seguire i cui passi ci troviamo pian piano a conoscere la bella città toscana. Poi la “preda” sfugge e l’autore dialoga fra sé e sé, sul senso di raccogliere brandelli di storia, sulle sorprese che sfuggono agli occhi disattenti, incapaci di osservare con intensità perché la mente troppo distratta da “idee che non portano da nessuna parte e che spesso non ci appartengono”.
Un piccolo incidente permette il giorno dopo un incontro più ravvicinato fra i due e il gusto di una amabile conversazione: “Confermò ciò che nel mio animo sentivo, che un vero flaneur non ha paura del prossimo, dell’incognito, dello sconosciuto, delle strade cupe e deserte o affollate all’inverosimile, o di trovarsi a parlare con persone che non ha mai incontrato, viceversa, è da tutto ciò che lui trae la sostanza vitale per riflettere, un’energia che lo conduce e induce a confrontarsi con le più disparate religioni … le più disparate mentalità … A lui piace il cambio, la trasformazione, vivere per comprendere il trascorrere del tempo nei segni dei singoli e pur minimi avvenimenti”.
La lettura si chiude quindi con un insegnamento che ha poco a che vedere con le critiche antiromantiche di Debord: è grazie all’uso di tutti i cinque sensi e dell’intuizione che il luogo attraversato ci parla, ci racconta, ci informa, ci tiene coscienti del nostro agire e ci avverte dei pericoli che noi stessi causiamo. Occorre che tutti diventiamo un po’ flaneurs.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Giorgio Celli (1997), Il Gatto di casa: etologia di un’amicizia, Franco Muzzio Editore
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Giorgio Celli (1997)
Il Gatto di casa: etologia di un’amicizia, Franco Muzzio Editore
Giorgio Celli ha cambiato dimora.
Come in tante sue storie, si fa trasloco, ma questa volta non si tratta di api, vespe, conigli, cani, cavalli, gatti.
Mi piace ricordarlo con la sua voce calda e pacata, gli occhi luminosi e ridenti, la sua testa un po’ incassata nel collo incorniciata dalla bianca capigliatura e la morbida barba.
Ho spesso pensato che il suo volto somigliasse a quello di un gatto, quei gattoni col muso tondo e largo, voglioso di carezze. Forse questa comparazione non gli giungerebbe gradita, ma non ne sono così convinta.
Giorgio amava i gatti. “Però quando mi tolgo il camice del professore e vado a casa, beh, l’etologo delle api si trasforma nell’etologo dei gatti. Perché da sempre, non vi dico da quando, dato che ci tengo, per un particolare capriccio ad occultare la mia età, io vivo in compagnia di questi animali eclettici e straordinari, e per decenni non ho potuto fare a meno di osservarli, di congetturare su quello che fanno, di confrontare le loro azioni in differenti contesti, e oggi mi illudo di averli un poco capiti”.
Anch’io amo questi animali.
Nelle mie scorribande fra i ciuffi di trifoglio spesso mi imbatto nelle loro zampe artigliate. Quatta quatta, riparata dal mio guscio, anche a me piace osservarli e verificare quanto ognuna di quelle creature dai calzari di diversi colori manifesti un proprio carattere e un proprio comportamento, assai poco omologabile l’uno all’altro.
Ecco perché mi diverte leggere i racconti di Celli, un entomologo/etologo sorprendentemente efficace nelle descrizioni scientifiche permeate da un’ironia e un’affettività assolutamente esclusive di chi ha fatto del regno animale non solo una brillante trasmissione televisiva, ma anche una scelta di vita.
In questo suo libro analizza il gatto casalingo e le sue frequentazioni con altri gatti “di fuori”.
Scrive che gatto colono e gatto domestico hanno abitudini molto dissimili. Infatti in un adattamento recentissimo (recente nella storia evolutiva) il gatto che vive con l’essere umano ha sviluppato un rapporto fondato sull’affetto e reciproca confidenza.
Questo è soprattutto visibile in alcuni particolari momenti, per esempio quello del parto. “In natura le gatte quando è giunto il momento di mettere al mondo i loro piccoli non vanno di sicuro a cercare le altre femmine perché facciano da levatrice .. Quando la gatta di casa deve partorire, beh, ci credereste?, ha spesso l’abitudine di chiedere aiuto al padrone. …Ricordo una mia gatta di tanti anni fa, che una bella notte salì nel letto, mi svegliò ronfando e spingendo la testa contro la mia spalla, e una decina di minuti dopo mi scodellò il primo di tre gattini quasi sul guanciale, mentre io continuavo ad accarezzarla”.
Che il gatto poi riesca anche a percepire gli umori dell’uomo che pensa di essere il loro padrone è innegabile. Il mio TartaRugoso riesce ad emanare flussi estremamente comunicativi quando è nervoso e il primo captatore è proprio la nostra gatta, che si allontana senza indugio.
Lo stesso fenomeno lo ha osservato Celli, in una tribù allargata composta dai suoi gatti di casa e da quelli per così dire clandestini. Gli intrusi, così racconta “non si limitano a curiosare, ma producono spesso dei guasti, buttando in terra risme di carta e libri rari dalla scrivania … rientrando di sera se i colpevoli sono ancora presenti, mi metto a far loro degli urlacci, batto le mani, minacciando di inseguirli. Ci credereste? I gatti estranei fuggono a zampe levate e quelli di casa? …Sembrano sapere benissimo che sono gli altri, i clandestini, l’oggetto delle mie contumelie, mentre loro, inquilini legittimi del posto, non hanno proprio nulla da temere …Se io urlo non è per loro, ma per gli intrusi”.
E’ bello pensare a questo andirivieni di gatti con le loro storie più o meno drammatiche, fatte di salvataggi, recuperi, adozioni. La casa di Giorgio per loro è sempre aperta. Come per Bianca all’olio, avvistata durante un viaggio in autostrada verso la sede di un convegno. Nell’aria di servizio quella povera gattina sembrava mendicare del cibo, trascinandosi un po’ di traverso sulle zampe, come se fosse stata urtata da un’automobile. Il pensiero di quell’esserino così pericolosamente esposto insegue Giorgio per tutta la conferenza, tant’è che, al ritorno nel cuore della note, ripassando da quell’area di servizio, tenta di avvicinarla senza successo. Rientrato a casa, un sogno terrificante gli rimanda l’immagine di un Tir che schiaccia la bestiola. “Mi sono svegliato in un’alluvione di sudore, e con il cuore che mi batteva come un tamburo. La mattina dopo, insieme al mio fedele collaboratore, sono andato a prenderla … Ora vive nel mio giardino e le ho dato un nome: Bianca all’olio. Che ne dite? Mangia regolarmente e se ne sta al calduccio. Tutto in virtù di un sogno che forse era premonitore”.
Padrone affettuoso, Celli, accanto al suo atteggiamento di studioso, non manca di compiere qualche tiro mattacchione. E’ il caso di quello che definisce “comportamento di accoglienza” di uno dei suoi tanti mici, determinato dalla sua presenza costante dietro alla porta di casa nel momento in cui si apriva la porta, come se il gatto in attesa ne avesse percepito in anticipo il ritorno.
“Era l’ascensore che avvertiva il micio del mio rientro? Quando ero in casa, il gatto non dava alcun segno di attenzione al ronzio dell’ascensore … Salii per ben tre volte le scale a piedi, con le scarpe in mano per minimizzare ogni possibile rumore d’avvertimento, e niente da fare: il gatto mi aspettava dietro la porta. La cosa diventò per me una specie di ossessione, ci pensavo e ci ripensavo senza riuscire a formulare uno straccio di ipotesi”.
Finchè la scoperta grazie al figlio di un vicino che si compra una motocicletta e sceglie di parcheggiarla vicino al suo garage. Come spesso accade la soluzione è più vicina di dove la si cerca e Celli riesce a mettere in relazione il comportamento di attesa del micio con il suo stesso uso della moto Guzzi e il rumore del motore. Naturalmente la scoperta avviene a scapito del povero felino, il quale una sera… “stavo sul divano a godermi la TV, quando il rumore suddetto giunge da sotto – il vicino rientrava in moto – e il gatto, che sonnecchiava sul pavimento si alza sulle zampe di colpo, e si dirige rapido verso la porta di casa. Ahilui!, passando vicino al divano mi vede: il suo passo rallenta, si ferma, si volta a fissarmi ed emette un miagolio straziante. Che cosa succedeva? Ero là, ero qua, stavo per giungere ed ero già arrivato”.
In effetti, ripensandoci dopo, il fenomeno dell’attesa non si verificava nei giorni di pioggia, quando la moto restava in garage!
Rileggendo oggi quelle stesse pagine del racconto, sembra quasi un dolce segnale l’istruttivo ragionamento appreso dal gatto: “Scoperto che il clan clan (della moto) era inaffidabile, l’animale si comportò di conseguenza. Lo trovavo qualche volta sì e qualche volta no dietro la porta. Passato dall’universo di Newton a quello di Heisenberg, dalla certezza alla probabilità, il mio micio si era convinto che “Dio gioca ai dadi”, e che anch’io faccio lo stesso”.
Sono qua, sono là.
Miao, Giorgio.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Umberto Pasti (2010) GIARDINI E NO, con disegni di Pierre Le-Tan Bompiani, Milano
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Umberto Pasti (2010)
GIARDINI E NO
con disegni di Pierre Le-Tan
Bompiani, Milano
Le tartarughe, si sa, per sei mesi esplorano e per sei mesi sognano le loro scoperte.
E’ di questo periodo l’attività più frenetica: lunghi viali da percorrere, gradini da salire e scendere, cadute da cui rialzarsi, colori e profumi da cui farsi sedurre …
Amo il mio giardino, la sua esuberanza, la sua accoglienza, la sua versatilità, le sue mutazioni da settimana in settimana.
Mi piace sentire raccontare di giardini, luoghi che considero un po’ fatati, talvolta misteriosi, talaltra incantatori.
Con Umberto Pasti ho camminato in giardini diversi dal mio e ho cercato possibili analogie tra quelle storie e le mie.
Confesso qualche brivido di fronte a queste parole: “Non esiste giardiniere al mondo che, mostrandoti il suo giardino, non ripeta fino allo sfinimento che è stato cento, mille volte più bello e fiorito fino a un mese, una settimana o addirittura un giorno prima della tua visita”.
Risale proprio a qualche ora fa la passeggiata con TartAle fra i viali del mio spazio vitale, con soste qui e là nei pressi di cespugli ormai disadorni del loro carico di azalee, di rose spetalate, di zagare estinte e sento ancora le mie parole che scappano a dire che fino a qualche giorno fa era un rigoglio di fiori, mentre ora ci si deve accontentare solo del niveo candore profumato del gelsomino …
Però mi consolo perché sicuramente non appartengo a quella categoria di essenti che fa delle fioriture motivi di vanto per specifici inviti esibizionistici. “Come sono noiosi, ammettiamolo una volta per tutte, gli organi genitali dei vegetali, cioè i fiori”.
Sostiene Pasti che per non trasformare il giardino in una sorta di orgia carnale, ai fiori deve essere data la possibilità di emergere per contrasto, quindi no alle pornografiche concentrazioni di pistilli e boccioli e sì ai “pacifici tratti di verde, che dando riposo al nostro sguardo, lo indurrà a tornare su un vermiglio, un porpora, uno scarlatto …”
Verde dolce, pacato, tranquillo, rassicurante, il colore più nobile della natura.
“verde pino, verde menta, verdazzurro, verde rame, giada, caledon, verde Nilo, smeraldo, malachite, bandiera, banana, biliardo, assenzio, cedro, Impero, verdone, verdino, grigioverde, verdastro, salvia, bottiglia, acido, marcio, oliva, erba, muschio, pisello ..”
Mentre li scrivo ognuno mi compare davanti, adagiandosi sulla tavolozza che vorrei fosse il mio carapace, sotto cui respirare rilassata.
E quella “donna di età medio-avanzata? … Il giardino della signora, così leccato, così laccato, è frutto di un lavoro sadico del terreno che non conosce riposo o requie, ma è costantemente sottoposto a stressanti concimazioni e sarchiature per dare sempre il massimo …La signora del giardino non si cura delle esigenze climatiche delle piante”.
No, non è quello il mio giardino, dove ogni primavera l’erba cresce rigogliosa per rispetto dei teneri fiori di campo, cullati da trifogli, da malve ed ortiche, dolce nettare per farfalle, api e osmie solitarie.
E decisamente no, nemmeno mio è il giardino miliardario: “i grandi ricchi e i loro giardini sono ossessionati dal’erba, perfino in climi caldi, dove mantenere in vita una distesa dell’unica verietà che sopporta il solleone … costa più acqua di un frutteto”.
Il miliardario non ha tempo da sprecare, non ha tempo per osservare, per attendere pazientemente: meglio avvalersi del garden-designer e garantirsi un prato liscio tanto quanto una pelle tirata dal lifting, così artificiale, anonima, senza storia e senza carattere.
Che poi, anziché lasciare alla fertile fantasia della natura, si voglia a tutti i costi introdurre effetti speciali, anche qui non ci siamo: non è il mio giardino. Dove, tutt’al più, indulgono alcune figure simboliche, effigi di animali cari scomparsi, o tentativi di dare volto a quell’elemento così insondabile che è l’anima.
Molto lontano comunque da “giardini notturni di riflessi materiali .. per integrare un’architettura di sapore classicheggiante … in un paesaggio inteso come cornice dinamica generatrice di messaggi autonomi”.
E via anche dal giardino moresco o da quei giardinio la cui “erba non dà né fiori né frutti, che non attira gli insetti, ma su cui si possono posare le sedie di plastica, che può accogliere ombrelloni e piscinette per rinfrescarsi”.
Amo il mio giardino per quello che è, per il suo eterno rinnovarsi, per i sassi che contiene e le erbe infestanti che non riescono ad essere domate, per la sua vita e i suoi anticipi di malattia, per le sue guarigioni e per le sue morti.
Come scrive Pasti “il giardino non può essere di moda, come alla moda non può essere il corpo, il sole, il mare, la luna, ciò che esiste e è sempre esistito”.
Se non si ascolta la voce della natura, il genio del luogo se ne va ed io, nel mio giardino, non potrei mai sopportarlo.
TartaRugosa ha letto e scritto di: Robert Walser (1976) La passeggiata, Adelphi edizioni
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Robert Walser (1976)
La passeggiata, Adelphi edizioni
Passeggiare è un’arte sempre più in disuso. Lo constato con rammarico quando io stessa mentalmente inveisco contro coloro che si attardano lungo il marciapiede, apparentemente senza giustificato motivo. Qualche scambio conversazionale, un cono gelato, i prezzi delle merci esposte in vetrina, carezze a un cucciolo, sia di cane, sia di uomo. E intanto ostruiscono il passaggio.
Anche diffuse norme salutistiche invitano al passo sostenuto, poiché, per procurare giovamento al fisico, la camminata non deve incontrare pause o rallentamenti.
E così, almeno nelle metropoli, l’andare e il venire furiosamente combattono contro il giro d’orologio, e quel vagare senza meta e senza scopo – originario significato della passeggiata – acquista valore di rarità.
Ne rispolvera il senso lo svizzero Walser, il quale attraverso una minuziosa descrizione della sua preferita attività (tale era che morirà nel giorno di Natale proprio durante una solitaria passeggiata invernale) ci trascina con sé nel fascinoso incedere dell’errare osservando.
“Alle persone che siedono in una sbuffante automobile io mostro sempre la faccia feroce … non potrò mai capire che gusto ci sia a passare velocissimi davanti a tutte le immagini e gli oggetti che la nostra bella terra ci offre, come se si fosse impazziti e si dovesse correre per non disperare. In realtà io amo la calma e ciò che è calmo, la parsimonia e la moderazione, e rifuggo nel modo più assoluto da ogni fretta e precipitazione”.
Che qualche remora sulla predisposizione al passeggiare già esistesse anche agli inizi del secolo scorso è ben dimostrato dall’incauta osservazione del sovraintendente chiamato dal protagonista a rinunciare all’aumento delle tasse, data la sua precarietà economica: “ma lei, la si vede sempre andare a spasso!”
Quale onta! Quale ignoranza!
“A spasso … senza passeggiate sarei morto … senza andare a caccia di notizie … senza passeggiate non potrei collezionare appunti né osservazioni. … L’andare a spasso non è per me solo salutare, ma anche profittevole… Una passeggiata mi stimola professionalmente, ma al contempo mi procura anche uno svago personale; mi consola, allieta e ristora, mi dà godimento, ma ha anche il vantaggio di spronarmi a nuove creazioni … Ogni passeggiata è piena di incontri, di cose che meritano d’esser viste, sentite. Di figure, di poesie viventi, di oggetti attraenti, di bellezze naturali brulica letteralmente, per solito, ogni piacevole passeggiata, sia pur breve. … Senza passeggiate e la relativa contemplazione della natura, senza questa raccolta di notizie, che allieta e istruisce insieme, che è ristoro e incessante monito, io mi sento perduto, e realmente lo sono”.
E, con gli occhi del nostro passeggiatore, magicamente si riesce a risvegliare l’occhio vigile e attento, pronto a cogliere i piccoli dettagli che fanno grande il mondo attorno, a stupirsi della bellezza dei colori, a nutrirsi di odori e profumi, a sorprendersi per come una bottega di cappelli nulla abbia da invidiare a “un quadro squisito”.
Perdigiorno? Bighellone? “Mentre me ne andavo bel bello per la mia via … distintissimo vagabondo, giramondo e fannullone …davanti a me una quantità di orti pieni di ogni bendidio di prosperi legumi, a fiori e a profumi di fiori, ad alberi da frutta e a filari di fagioli pieni di baccelli, … stupendi campi lussureggianti di cereali come segale, avena e frumento … un deposito di legname con legna e trucioli di legna, erbe ricche di linfa e acque dal gentile scroscio, torrenti o fiumi che fossero, … ogni sorta di gente come simpatiche donne del mercato dedite ai loro traffici … un circolo ricreativo adorno di allegre bandiere … gemme di fragole o meglio ancora rosse fragole già mature…”
Riduttiva può sembrare l’esultanza per un paesaggio che già di suo la natura imbastisce, indifferente all’umano giudizio. Ma l’arte del passeggiare consiste anche nell’emozionarsi per ogni vibrazione percettiva: un angolo di strada, l’insegna di un negozio, le sembianze di un qualsiasi cittadino che per casualità incrocia il nostro passo. Potremmo mai riuscire a descrivere con preciso acume volto, espressione, postura dei camminatori incontrati nel nostro peregrinare?
Walser lo fa: “Serio, solenne, imponente, il professor Meili procedeva come l’autorevolezza indiscussa .. Il naso era un severo, imperioso, tagliente naso aquilino o nobiliare. La bocca era giuridicamente stretta e sigillata….Dai seri occhi, nascosti dietro sopracciglia arruffate, lampeggiava la storia universale e il riflesso di eroiche, remotissime gesta… Il suo cappello sembrava un inamovibile autocrate”.
E anche gli incontri casuali possono dar avvio a un’educata interpellanza: “Perdoni se alle labbra di una persona a lei totalmente sconosciuta urge, al vederla, una domanda certo temeraria: lei non è stata un tempo attrice? …Lei sorride! Dunque non me ne vuole per questo mio disinvolto discorso? A me sembra meraviglioso che ogni tanto due persone che non si conoscono parlino fra loro in piena libertà e confidenza: è a questo fine, dopo tutto, che a noi abitanti di questo errante ed enigmatico pianeta sono state date una bocca, una lingua, la facoltà di parlare…”
Così come il godimento dell’intonazione di un canto: “terminato che ebbe la giovane il suo canto semplice quanto stupendo, aria mozartiana o melopea pastorale che fosse, mi avanzai alla sua volta, la salutai, chiesi di potermi congratulare con lei per la bella voce e le feci i miei complimenti per quel canto che sgorgava dal profondo dell’anima”.
Non si dia però per così scontato che una passeggiata sia solo d’indolente e costruttiva osservazione. Sulla strada di un cammino più noto possono essere distribuite piccole incombenze, più o meno fastidiose, ma comunque da affrontare. Per esempio il trattare col sarto “cocciuto, caparbio, chiaramente persuaso sotto ogni aspetto dell’infallibilità della sua indiscussa maestria, totalmente compenetrato del suo valore come delle sue capacità professionali …Si trattava di sconfiggerlo, dominarlo, soverchiarlo e scompaginarlo”.
E la non nobile conclusione della missione seguita dall’ulteriore seccante faccenda dell’aumento delle tasse e del colloquio di negoziazione per convincere che “io sono oltremodo privo di ricchezze, mentre al contrario sono carico di ogni specie di povertà”.
Sarà proprio con il sovrintendente (ricordate? Quello che si era permesso di dire Lei la si vede sempre andare a spasso) che il nostro passeggiatore darà libero sfogo ai lati più oscuri del suo incedere “Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore di incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto”.
L’arte del passeggiare, sollecitata dalla penna di Walser, ci conduce in una sorta di imagerie costellata da personaggi e luoghi fantasticati, certo di un tempo ormai lontano, ma non per questo oggi irraggiungibili.
Si tratta solo di rallentare il passo e di offrirsi a ciò che si mette in mostra davanti al nostro sguardo ormai imbarbarito: “Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente: sia un bambino, un cane, una zanzara, una farfalla, un passero, un verme, un fiore, un uomo, una casa, un albero, una coccola, una chiocciola, un topo, una nuvola, un monte, una foglia, come pure un misero pezzettuccio di carta gettato via, sul quale forse un bravo scolaretto ha tracciato i suoi primi malfermi caratteri”.
E’ triste dover ammettere che se così non è:
“Diversamente egli passeggia solo con metà del suo spirito, il che invero vale assai poco”.