VAI A:
TartaRugosa ha letto e scritto di: Francesca Scotti (2022), Il tempo delle tartarughe, Hacca (MC)
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Ecco un romanzo dove il vero protagonista è il viaggio, un lungo percorso che diventa strumento per la costruzione di un processo trasformativo, un distacco nel tempo e nello spazio per allontanarsi da dove ci si trova e rifare i conti con la propria vita.
Non è casuale che l’intraprendere un viaggio sia la scelta compiuta da Emile nel momento più tragico che possa capitare a un ventiseienne cui viene diagnosticata una forma di Alzheimer precoce che restringe la sua vita a un massimo di un paio d’anni.
L’alternativa, auspicata dal resto della famiglia, sarebbe sottoporsi a una cura sperimentale da condurre in clinica nonostante il medico fosse stato molto chiaro: non si tratta di guarirlo, o di curarlo, ma solo di saperne un po’ di più su questa malattia orfana (così definite le malattie rare e poco conosciute, poco studiate e mancanti di terapie adeguate).
La soluzione è disperarsi…
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TartaRugosa ha letto e scritto di:
Raymond Queneau (1983)
Esercizi di stile, Einaudi
Traduzione di Umberto Eco
Un gioco di bravura irresistibile:
“Queneau usa le figure retoriche per ottenere effetti comici ma nel contempo fa del comico anche sulla retorica … La retorica non si limita alle sole figure e cioè alla sola elocutio.
C’è l’inventio e c’è la dispositivo, c’è la memoria, c’è la pronuntiatio, ci sono i generi oratori, le varie forme di narratio, ci sono le tecniche argomentative, le regole di compositio, e nei manuali classici sta anche la poetica, con tutta la tipologia dei generi letterari e dei caratteri …”
Ci voleva Umberto Eco ad azzardare la traduzione dei 99 esercizi di stile di Raymond Queneau, animatore dell’esperimento dell’Oulipo, nel cui ambito anche Georges Perec ha dato il suo notevole contributo.
Perché gli Exercices di Queneau sono una “scommessa…
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Nel numero 3-4 del 1972 del «Giornale dei genitori», Laura Conti scriveva una nuova «difesa del Gatto con gli stivali», che qui riporto quasi per intero:
… Voglio raccontare come l’ho vissuta io, da bambina e cioè mezzo secolo fa, la storia del Gatto con gli stivali.
Anzitutto il Gatto, come il suo padroncino e come me, era Piccolo in un mondo di Grandi; ma i suoi stivali lo mettevano in grado di fare dei passi lunghissimi, cioè di uscire dal suo stato di piccolezza pur rimanendovi, di fare grandi passi pur continuando a essere un piccolo gatto.
Anch’io, volevo restare piccola ma fare cose da grande, anzi battere i grandi sul loro stesso terreno, la grandezza (la lunghezza dei passi)… Il rapporto piccolo-grande usciva poi dal senso proprio, delle dimensioni, per proiettarsi in un senso figurato. Il Gatto, oltre a essere piccolo, è anche sottovalutato, giudicato inutile: la sua presenza in casa veniva giudicata un mio capriccetto fastidioso.
Perciò mi piaceva molto che l’animaletto inutile diventasse un potente alleato. Che cosa il Gatto facesse non m’importava nulla, tanto che l’ho completamente dimenticato: c’è voluto il «Giornale dei Genitori» per ricordarmi le sue furbizie diplomatiche e riconosco che si tratta di diplomazia volgare.
Ma a me le azioni del Gatto non importavano, mi importavano i risultati: mi importava che si potesse vincere giocando sul perdente, se posso esprimere con linguaggio adulto una sensazione infantile (infatti il bambino che ereditava il Gatto veniva, sul principio, compianto per l’insignificante eredità). Dunque mi affascinava il doppio rovesciamento, da piccolo in grande e da perdente in vincente. Non m’interessava la vittoria in sé: mi interessava la vittoria improbabile.
La duplice natura del Gatto (piccolo-grande, perdente-vincente) soddisfaceva non solo il desiderio paradossale di essere grande pur mentre ero piccola, ma anche l’altro desiderio paradossale, di veder vincere una creatura che continuava a rimanere un piccolo, debole, morbido gattino.
Io detestavo i forti, nelle fiabesche lotte tra forti e deboli, e parteggiavo per i deboli; ma se i deboli vincono, c’è il rischio che si debba considerarli forti, e cioè odiarli. La storia del Gatto con gli stivali mi sottraeva a questo rischio, perché il Gatto, anche vincendo la partita contro il Re, continuava a rimanere un Gatto. Si trattava cioè della situazione Davide-Golia, ma con un Davide che continuava a rimanere un pastorello, e non diventava mai il Potente Re Davide; non è che faccia questo paragone a posteriori: alla stessa età in cui mi si raccontava la storia del Gatto mi si raccontava anche la Storia Sacra, e il fatto che il pastorello diventasse Re non mi piaceva affatto, a me piaceva soltanto che con la sua piccola fionda abbattesse il gigante. A differenza di Davide, il Gatto vinceva il Re ma non diventava Re, restava Gatto.
Sicché, se penso alla mia esperienza personale, posso confermare pienamente quel che dici tu: non il «contenuto» ma il «movimento» era l’essenziale della fiaba. Il contenuto poteva anche essere conformista, reazionario; ma il movimento era ben diverso, poiché dimostrava che nella vita quel che conta non è l’amicizia dei Re ma l’amicizia dei Gatti, cioè delle piccole creature sottovalutate e deboli, che sanno imporsi ai potenti.
in: Gianni Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi 1973, p. 192-193
Sorgente: (4) Animals Galaxy
Il dio Giove (Zeus) è stato allevato dalle ninfe nella grotta di Creta e nutrito dalla capra Amaltea. Si narra che un giorno, mentre si divertiva a cavalcare la sua nutrice, si attaccò a lei con molta forza e le spezzò un corno.
Fu la giovane ninfa Melissa che si prese a cuore la povera capra e ne curò la ferita. Giove, per ringraziare Melissa, prese il corno spezzato e glielo regalò, promettendole che da quel corno sarebbe scaturito tutto ciò che il suo possessore avesse desiderato (cornucopia, o corno dell’abbondanza).
Melissa è una ninfa della mitologia greca e il suo nome ha il significato di “produttrice di miele”, ossia di ape. Le ninfe sono le divinità minori della natura e il loro aspetto è di bellissime fanciulle eternamente giovani.
Calliope è una delle nove Muse che, nella mitologia greca, rappresentavano l’ideale supremo dell’Arte.
Calliope, figlia di Zeus e di Mnemosine, è considerata la musa della poesia, in particolare di quella epica. E’ la maggiore e la più saggia delle Muse, nonché la più sicura di sé. I suoi simboli sono lo stilo e le tavolette di cera e infatti viene spesso rappresentata con in mano una tavoletta su cui scrivere.
Non ho voluto mai scrivere di questo argomento, nonostante tutti fossero a conoscenza dell’accaduto.
Sfogliando l’agenda 2014, il 10 luglio dedicato ai lavori dell’orto è stata l’ultima data in cui Giove condivideva lo spazio del giardino.
Il 14 luglio scrivo: “Non abbiamo visto Giove”. Il 16 luglio scrivo: “Giove è proprio sparito”.
Poi basta, il riferimento a Giove è completamente svanito, proprio com’era successo a Giove stesso.
Non che fosse scomparso dai miei pensieri, naturalmente.
Quell’estate così piovosa e fredda riapriva quotidianamente l’inquietante possibilità che, per difendersi, Giove si fosse sprofondato nella terra. Per sempre.
Ma poi sorgevano altri mille dubbi. Che fosse riuscito ancora una volta a sorpassare la barriera col giardino confinante e da lì ulteriormente migrato verso inesplorati territori?
Non saprei quantificare le volte che, appiattita al suolo, ho verificato la tenuta delle decine di metri di rete collocate da TartaRugoso: tutto a posto.
E se invece fosse riuscito a salire, grazie al muschio, il gradino più alto che conduce al corridoio di ingresso, dove sotto la siepe di lauroceraso non c’è alcuna protezione? Ho letteralmente nuotato fra le frasche del cespuglio per cercare di sporgermi sull’altro giardino sottostante e controllare se fosse lì. Niente.
Più il tempo passava, più diventava remota la speranza di rivederlo. E comunque, in agosto, quasi quotidianamente lo sguardo correva lungo la mulattiera che conduce al parcheggio, nella vana ipotesi che si fosse nascosto in qualche angolo boschivo o in qualche cespo di tarassaco. Macchè.
Certamente tutt’altro che rassegnata e con profonda tristezza mi sono preparata all’autunno sintonizzandomi su due possibilità:
Quest’anno sapevo che sarebbe stata una primavera diversa. Eppure dopo 18 anni, nelle miti domeniche di marzo con una temperatura ben al di sopra delle medie stagionali, non ho mai potuto rinunciare a guardare sotto il pino (suo luogo di letargo) o di sobbalzare a un fruscio di fuga di lucertola. Ogni anno Giove riappariva misteriosamente come quando si rifugiava nel suo letto invernale ed era sempre una gioia.
Scema, mi dicevo, non c’è. Non c’è più. Fattene una ragione.
Poi il 23 aprile 2015 mentre io e TartaRugoso siamo al computer, arriva il seguente messaggio via mail da M., mamma di D., che si è premurata immediatamente di riferire:
Trovata tartaruga nel giardino del vicino stop momentaneamente prigioniera in casa in attesa di essere liberata stop
Se i liberatori volessero chiarimenti telefonare a D.
Nel giro di 10 minuti una serie di telefonate con D. (impagabile per la sua sensibilità e cortesia) e un appuntamento per le 18.30 con lo squisito ritrovatore di Giove, un geometra che del tutto casualmente quel pomeriggio aveva effettuato un sopralluogo nella “la casa dei francesi” e, aprendo la porta, si era ritrovato davanti proprio lui, Giove.
Mai tragitto fu più ambivalente: da un lato la straordinaria felicità per il miracoloso evento, dall’altro il timore di ritrovare Giove solo in tempo per assistere alla sua morte.
La “casa dei francesi”, infatti, è un luogo disabitato, con un angusto terrapieno dove di fatto non ci cresce proprio niente, se non edera e piccoli palmizi. Il fatto che il geometra l’avesse trovato dentro la casa diroccata, inoltre, mi faceva sospettare che Giove fosse in qualche modo sopravvissuto lì, senza mai poter né bere né mangiare.
Vederlo col guscio e il muso chiazzato di bianco oscurava la gioia di tenerlo ancora fra le mani.
Decidiamo subito di non lasciarlo in giardino ma di portarlo in appartamento in città per un bagnetto caldo di reidratazione e per fissare un appuntamento col suo veterinario.
Venerdì 24 la rassicurazione che ci attendiamo: Giove sta bene e, del resto, come potrebbe essere altrimenti visto che le tartarughe sono fra i pochi animali arcaici che hanno saputo resistere nel corso di millenni? Sembra quasi che il veterinario desse per scontato il suo stato di salute: “E’ sufficiente che ci sia anche un solo filo di qualsiasi erba e le tartarughe ce la fanno”.
Sabato 25 Festa della Liberazione: Giove torna nel suo habitat e se ne rende immediatamente conto. Nonostante l’aspetto non propriamente ottimale, una lentezza esasperata e un digiuno ostinato nella casa di città, appena viene posato sulla terra si avventa su un pezzo di pomodoro e qualche buccia di mela ignorate il giorno prima.
A questo punto riconsideriamo il terrazzamento da dove Giove per forza deve essere fuggito. La rete è a posto; non ci sono buchi. Il mio occhio vigile comunque nota che nell’angolo proprio al di sopra del terrapieno della casa dei francesi la rete è un po’ piegata all’ingiù, intrecciata a tralci di edera. La supposizione è quindi che Giove, in posizione verticale come spesso gli capita quando vuole scalare sassi e gradini bassi, si sia aggrappato al fusto dell’edera e da lì scavalcato la reticella, andando a scivolare al piano sottostante.
Prossimamente TartaRugoso interverrà ancora su quel punto. Il tempo freddo e piovoso di questi giorni ci lascia sperare che blocchi l’indomito rettile, anche se, a questo punto, sapremmo dove andare a guardare.
Che dire d’altro? Non so quale sarà il prossimo futuro di Giove. So solo che la coincidenza di casualità, sincronicità, gentilezza, empatia, solidarietà sono stati buoni ingredienti per compiere questo miracolo.
Bentornato Giove e, un po’ in ritardo, buon 2015!
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…
Subito allora Mister Myshkow ritira dall’ajuola la tartaruga che non s’è mossa.
– M’hanno detto che porta fortuna, – soggiunge sorridente. – Non vorreste prenderla voi? Ve la offro.
Quello si scrolla furiosamente e con impero gli accenna di levarglisi dai piedi.
Ed ecco ora di nuovo Mister Myshkow con quella tartaruga in mano, in grande imbarazzo. Oh Dio, potrebbe lasciarla dovunque, anche in mezzo alla strada, appena fuori della vista di quel poliziotto che l’ha guardato così male, evidentemente perché non ha creduto ai gravi motivi di famiglia. Tutt’a un tratto, si ferma al baleno di un’idea. Sì, è senza dubbio un pretesto, per la moglie, quella tartaruga, e levato di mezzo questo, lei ne troverà subito un altro; ma difficilmente potrà trovarne uno più ridicolo di questo e che più di questo possa darle torto davanti al giudice e a tutti quanti. Sarebbe sciocco, dunque, non valersene. Lì per lì decide di rientrare in casa con la tartaruga.
Trova la moglie nel salotto. Senza dirle nulla si china e le posa davanti sul tappeto la tartaruga, là, come un ciottolo.
La moglie balza in piedi, corre in camera, gli si ripresenta col cappellino in capo.
– Dirò al giudice che alla compagnia di vostra moglie preferite quella della vostra tartaruga.
E se ne va.
Come se la bestiola dal tappeto l’abbia intesa, sfodera di scatto i quattro zampini, la coda e la testa e dondolando, quasi ballando, si muove per il salotto.
Mister Myshkow non può fare a meno di rallegrarsene, ma timidamente; batte le mani piano piano, e gli pare, guardandola, di dover riconoscere, ma senza esserne proprio convinto:
– La fortuna! La fortuna!
tutto il racconto qui
TartaRugosa legge TartaRugosa
(1974)
La bolla di sapone e il fiocco di neve
Una bolla di sapone
chi ti incontra un dì per caso?
Un fiocco di neve che per un istante
Sta in bilico s’un vaso
La bolla di sapone
si sente presto innamorata,
ma il fiocco di neve …
di uno sguardo nemmeno l’ha degnata.
La bolla di sapone
cerca invano di farglisi accanto:
il fiocco di neve gli amici suoi
ha raggiunto nel vasto manto.
La bolla di sapone,
con gran disperazione,
scoppia in pianto
mesto e desolato.
Ma la sua origine dovuta è al fato
e la bolla, ad un tratto,
svanisce.
E il grande amore, nato lì per lì,
sparisce.
PAOLO FERRARIO, Il Genius loci come angelo del luogo, in ANGELICAMENTE, il senso dell’angelo nel nostro tempo, a cura di Baldo Lami, Zephyro edizioni, 2010, p. 45-57
INDICE DEL SAGGIO:
1. L’evento
2. Relazioni fra gli angeli e gli uomini
3. Il Genius loci
4. I luoghi concreti
5. Gli elementi dei luoghi
6. Ritorno a casa
Presentazione, 28 novembre 2010:
Bibliografia:
BIBLIOGRAFIA
Amman R., Il giardino come spazio interiore, Bollati Boringhieri, Torino 2008
Bachelard G., La terra e il riposo, le immagini della intimità (1948), Red Edizioni, Como 1994
Benjamin W., Il viaggiatore solitario e il flâneur, Il Nuovo Melangolo, Genova 1988
Berger P. L., Il brusio degli angeli, Il Mulino, Bologna 1969
Bevilacqua F., Genius Loci. Il dio dei luoghi perduti, Rubbettino, Catanzaro 2010
Calvino I., Lezioni americane, Mondadori, Milano 2000
Demetrio D., Filosofia del camminare. Esercizi di meditazione mediterranea, Raffaello Cortina, Milano 2005
Demetrio D., Ascetismo metropolitano. L’inquieta religiosità dei non credenti, Ponte alle Grazie, Firenze 2009
Galli M., Edgar Reitz, Il Castoro Cinema, Milano 2006
Guardini R., Rainer Maria Rilke: le Elegie duinesi come interpretazione dell’esistenza (1953), Morcelliana, Brescia 1974
Hillman J., Il piacere di pensare, conversazione con Silvia Ronchey, Rizzoli, Milano 2001
Hillman J., L’anima dei luoghi, conversazioni con Carlo Truppi, Rizzoli, Milano 2004
Jonas H, Memorie. Conversazioni con Rachel Salamander, Il Melangolo, Genova 2009
Michael J., Il giardino allo specchio. Percorsi tra pittura, cinema e fotografia, Bollati Boringhieri, Torino 2009
Moore T., L’incanto quotidiano, Sonzogno, Milano 1997
Peregalli R., I luoghi e la polvere. Sulla bellezza dell’imperfezione, Bompiani, Milano 2010
Rilke R.M., Elegie Duinesi, (1922), Le Lettere, Scandicci 1992
Stevens W., L’angelo necessario, SE/ES, Milano 2000
Wenders W., Stanotte vorrei parlare con l’angelo. Scritti 1968-1988, Ubulibri, Milano 1988
Paolo Ferrario è sociologo ed è stato docente universitario a contratto alla Università Ca’ Foscari di Venezia e alla Università di Milano Bicocca.
Attraversa il suo Destino nell’ultimo tratto di vita tra partecipazione alla Polis e alla necessità esistenziale di ancorarsi in un Luogo, che si è concretizzato a Coatesa in luoghi del Lario.
Ha scritto solo libri di saggistica nel campo delle politiche sociali applicate ai servizi e questa è la sua prima escursione nella ricerca simbolica.
Nel diario reticolare Tracce e sentieri. Luogo Tempo Eros Polis Destino si trovano altri segni del suo percorso individuativo.
VEDI ANCHE:
PANE TARTARUGA
INGREDIENTI
400 gr di farina 00
1 bustina di lievito di birra
10 gr di zucchero
1 cucchiaino di sale
4 cucchiai di olio d’oliva
225-250 ml di acqua tiepida
Mescolare la farina con il lievito di birra in una terrina. Fare una buca in mezzo e versare lo zucchero, il sale e l’olio. Aggiungere un po’ per volta l’acqua tiepida e lavorare l’impasto per una decina di minuti. Quando l’impasto risulterà liscio e levigato lasciarlo lievitare per circa 1 ora, coprendo la terrina con uno strofinaccio umido.
Dividere poi l’impasto in due parti, formando due pagnotte e lasciare lievitare ancora per 1 ora.
Spennellare poi la superficie delle due pagnotte con un pò d’acqua, e fare delle incisioni a forma di grata, in modo da simulare il disegno del guscio della tartaruga.
Cuocere in forno a 220° per 20-25 minuti, finché le pagnotte appariranno dorate.
TartaRugosa legge TartaRugosa
Il ragazzo in gabbia
Riproduzione: 4-2-1967
(per la serie “Pagine dal passato”)
Erano per me gli anni catturati dal fascino dei racconti dei nativi americani, del problema della schiavitù negli Stati Uniti, della lettura di “Ragazzo negro” di Wright. Ero ancora ignara del fatto che poco successivamente avrei amato lo sceneggiato Radici e il film Via col vento.
La passione della scrittura continuava attraverso le ricerche proposte dalla scuola elementare, lo svolgimento dei temi, i riassunti delle letture a casa. Sono grata alla mia maestra Adriana (che ormai non sarà più abitatrice di questa terra) per la sua severità, la sua rigorosità, la sua instancabile solerzia nell’insistere sulla ricchezza di vocabolario e sull’uso corretto della grammatica attraverso valanghe di compiti per le vacanze che riempivano quotidianamente i pomeriggi estivi.
In ordine cronologico, dopo “Storia di un bicchiere di cristallo” estraggo dal mio raccoglitore rosso “Il ragazzo in gabbia”. Il nome di Serino in realtà mi riporta alla memoria un bambino pakistano giunto con i genitori e il fratello più piccolo nel palazzo allora abitato. Era mio coetaneo e non sapeva l’italiano, per cui il padre mi aveva chiesto se alla sera, dopo cena, potevo seguirlo nella lettura del libro scolastico. Surena (il vero nome) era più piccolo di me di statura, aveva uno sguardo penetrante e l’atteggiamento di un piccolo mulo testardo: stava col capo chino sul testo da leggere e ripeteva con scrupolosa veemenza le correzioni da me fatte. Da bambina qual ero, una volta mi sono permessa di accarezzare i suoi capelli neri per complimentarmi del lavoro svolto, ma lui mi aveva cacciato la mano dicendomi che non era un bambino piccolo come Sina (il fratellino).
Oltre a questo spaccato autobiografico, non escludo che alla stesura di questo racconto abbiano contribuito le suggestioni di un libro per bambini centrato su Ulisse (l’anno successivo avrei goduto e spesso imitato le meravigliose espressioni facciali e vocali di Giuseppe Ungaretti nella presentazione delle puntate dello sceneggiato televisivo Odissea) e l’influenza di De Amicis e del suo Dagli Appennini alle Ande (a quei tempi il libro Cuore era un must sin dalla prima elementare).
A posteriori, rileggendomi, riconosco anche l’interessante elaborazione della delusione e del dolore provati quando, nei miei esperimenti di osservatrice, cercavo (incantata dai racconti paterni e dei suoi ricordi giovanili) il metodo migliore per addestrare il mio lucherino ad uscire a comando dalla gabbia per invitarlo a stare in mia compagnia in forma diversa. Il lucherino seguì le istruzioni, ma decise di andarsene fuori dalla finestra aperta e per tutto il pomeriggio svolazzò nei dintorni, come incerto sul da farsi. Non lo rividi più e naturalmente mi beccai anche la sgridata di mio padre.
Dovettero passare due buoni anni prima di possedere nuovamente una coppia di bengalini. A freno controllavo il desiderio di aprire lo sportellino per imitare lo zio Crippa, il quale lasciava volare in soggiorno i suoi cardellini.
I miei otto anni erano autenticamente felici, come spesso accade ai bambini amati e liberi di poter scoprire giorno dopo giorno le novità del mondo.
Ma ecco la storia di Pietro, il ragazzo in gabbia.
Nel paese di Pietro vi era da qualche giorno una grande agitazione. Era infatti arrivata una famiglia da un posto molto lontano: dall’Africa. Avevano preso una casa proprio vicina a quella di Pietro, così lui era stato il primo a conoscere il figlio di loro: Serino.
Serino aveva dodici anni, proprio come Pietro.
I due bambini fecero in fretta a stringere amicizia, così Pietro, nel giro di pochi giorni, lo presentò a tutti gli altri suoi amici.
Era bello stare con Serino, perché sapeva raccontare tante belle storie del suo paese natio.
Ogni giorno il gruppo dei bambini andava a giocare ai giardinetti, poi essi si sedevano in circolo su di un prato e incitavano Serino a raccontare un’altra delle sue meravigliose storie.
E stavano tutti in silenzio quando Serino narrava la caccia ai leoni, alle tigri, i suoni del tam-tam, le danze notturne intorno al fuoco.
Nessuno si accorgeva del tempo che passava e solo quando le prime ombre della sera calavano, i bambini si alzavano e correvano veloci verso casa, temendo i rimproveri delle rispettive madri.
Pietro e Serino tornavano sempre insieme poiché abitavano nello stesso palazzo e, dopo cena, si incontravano nuovamente.
Fu proprio durante una di queste serate che Pietro apprese da Serino una cosa addirittura fantastica.
Vicino al suo paese d’origine e precisamente su di un’isola, viveva una tribù di strani abitanti: i Trigamboni.
Serino non li aveva mai visti, così come nessun altro uomo del suo tempo, ma, secondo antiche dicerie, essi esistevano veramente.
Erano delle creature mostruose, alte quanto tre uomini messi uno sopra all’altro ed avevano ben tre gambe.
Nessuno aveva mai osato sbarcare su quell’isola sulla quale sorgeva un altissimo monte che impediva di vedere ciò che avveniva al di là di esso.
Pietro rimase profondamente scosso da quell’incredibile racconto e la stessa notte fece orribili sogni sulla tribù dei Trigamboni.
Ma Pietro era un ragazzino terribilmente curioso e nei successivi giorni fu tormentato dallo stesso spasmodico desiderio: quello di vedere e conoscere i Trigamboni.
E pensa e ripensa, un bel giorno prese la sua decisione.
Ne parlò con Serino che, dopo averlo ascoltato attentamente, lo guardò stupefatto.
-Tu … tu voi andare sull’isola dei … dei Trigamboni? – balbettò infine.
– Sì. La cosa ti stupisce tanto? E perché non vuoi venire con me?-
– Ma stai scherzando, vero? –
– Niente affatto. Me ne andrò solo, se tu hai paura di accompagnarmi. A me, il coraggio non manca! –
Serino iniziava a pensare che il suo amico fosse improvvisamente impazzito.
Ma Pietro diceva proprio sul serio. All’insaputa di tutti raccolse un po’ della sua biancheria riponendola nella cartella di scuola, qualcosa da mangiare e il suo salvadanaio.
Poi, dopo aver minacciato Serino di indescrivibili torture se avesse osato rivelare a qualcuno il motivo della sua fuga, partì.
Certo che il viaggio non era semplice.
L’Africa era lontano e Pietro non sapeva di andare incontro a mille pericoli.
A casa, quando i genitori seppero della sua fuga, lo fecero cercare invano: Pietro sembrava essersi dissolto nel nulla.
Quest’ultimo aveva intrapreso il suo lungo cammino con una certa baldanza, ben sapendo però che avrebbe incontrato non poche difficoltà.
E valicò monti e colline, sorpassò immense pianure, attraversò fiumi e laghi. Compì i più svariati mestieri per guadagnarsi il pane quotidiano, ma nonostante tutte le fatiche che ogni giorno doveva affrontare, nulla sembrava farlo desistere dal suo scopo.
Gli occorsero ben tre anni prima di arrivare alla tanto sospirata meta, e durante questi anni Pietro vide molte città, molti paesi, conobbe tanta gente, buona e cattiva, imparò ad esprimersi in diverse lingue e apprese costumi e tradizioni di ogni popolo che incontrava.
Ma nessuno sapeva fornirgli spiegazioni sui Trigamboni.
Chi diceva di non averli mai sentiti nominare, chi gli rideva in faccia dicendo che erano tutte fantasie, chi si spaventava e non voleva dirgli nulla.
Pietro incominciava a credere che i Trigamboni non esistessero veramente e, quando stava per perdere tutte le speranze, ecco che incontrò un uomo vecchio, vecchissimo, che gli chiese dove stava andando.
– Sto cercando la tribù dei Trigamboni, ma nessuno vuole dirmi dove essi siano – piagnucolò Pietro.
– Sei certo di volerli veramente raggiungere? – chiese il vecchio.
– Sì. Sono già trascorsi tre anni da quando me ne sono andata da casa per partire alla ricerca di questo popolo. –
– Ma non sai che il tuo potrebbe essere un viaggio senza ritorno? –
– Non m’importa. Non avrò pace finchè non li troverò. –
– Sei proprio un ragazzo testardo. Quanti anni hai? –
– Ormai quindici. Ne avevo solo dodici quando sono partito. –
– E sei venuto fin qui da solo? –
– Sì, nessuno mi ha voluto accompagnare. –
– Bene, sei più coraggioso di quanto pensassi. Se vuoi, ti posso suggerire io la strada per raggiungere l’isola dei Trigamboni –
– Davvero? La prego, mi aiuti! –
Il vecchio condusse Pietro in cima ad una collina.
– Vedi quella massa nera laggiù in fondo? –
– Sì, ma è molto lontana! –
– Già, non ti sarà facile arrivarvi, ma se a te la buona volontà non manca … –
– Ah no! Ormai sono giunto all’ultima tappa. Sarei uno sciocco se mi fermassi proprio all’ultimo ostacolo! –
– Bene, ragazzo mio. Ti faccio tanti auguri. Addio e buona fortuna. — Addio e grazie di tutto. –
E così Pietro armato di tutta la sua buona volontà si accinge a raggiungere la tanto sospirata isola. Gli occorsero ben tre settimane per approdare su quella terra circondata dal mare e un intero mese per passare dall’altra parte dell’altissimo monte.
Ma finalmente il suo lunghissimo viaggio ebbe termine. Poteva ora conoscere la tribù dei Trigamboni.
Erano veramente mostruosi. Così alti! I loro capi erano rapati, senza un’ombra di capelli. Le fattezze del volto erano totalmente inespressive e i loro corpi erano massicci, sgraziati.
Ma il particolare più raccapricciante erano le loro tre gambe, simili agli alberi maestri di una nave.
Pietro, quando li vide, si sentì percorrere da un brivido. Il suo primo impulso fu quello di fuggire da quell’orribile luogo e ritornare nella sua piccolissima, ma sicura casa. Ma ormai era troppo tardi.
Un Trigambone bambino l’aveva avvistato. Per fortuna era un bambino! Pietro accanto a lui sembrava poco più di una formica!
Il bambino si inginocchiò e lo prese, non molto delicatamente, fra le sue mani. Poi corse dal padre.
– Papà, papà, guarda che strano animale ho trovato! –
– Fa un po’ vedere .. ah, ah! Ma quello è un uomo! –
– Un uomo? Dunque è questo un uomo? Com’è brutto! –
Pietro ebbe un moto di stizza e pensò: – Senti chi parla! –
Il piccolo Trigambone sembrava molto soddisfatto della sua nuova scoperta e non terminava di contemplare la sua vittima.
Portò in giro il povero Pietro come un trofeo, lo mostrò ai suoi amici e a tutti i Trigamboni che incontrava.
La giornata, in quel modo, trascorse molto velocemente e quando venne la sera, il bambino, per tema che il suo nuovo giocattolo fuggisse, lo rinchiuse in una gabbia.
E così il povero Pietro si trovò carcerato fra quattro pareti di sbarre. E per giunta, con lo stomaco vuoto!
Infatti a nessuno era passato per la mente di nutrirlo.
Pietro si sentiva molto scoraggiato e quella notte non riuscì a chiudere occhio. Cercò in tutti i modi di evadere da quella gabbia, ma i suoi tentativi risultarono inutili. In che guaio si era cacciato! Che cosa gli sarebbe successo in seguito? Se avesse dato retta a Serino e non fosse mai partito!
Intanto un nuovo giorno era nato.
Il suo padrone arrivò presto, canterellando. Non lo tirò fuori dalla gabbia, ma in compenso gli porse due scodellini, di cui uno conteneva un liquido lattiginoso e l’altro una poltiglia più densa di un colore verdastro.
Pietro guardò sconcertato quello che avrebbe dovuto rappresentare il suo pasto, poi, facendosi coraggio, assaggiò il contenuto dei due recipienti. Pareva di mangiare fanghiglia.
Ma Pietro aveva fame e spazzò in un battibaleno qual cibo che, di commestibile, aveva ben poco.
Come si annoiava Pietro in quella gabbia! Più che andare in su e in giù non poteva. Il suo pensiero corse all’uccellino chiuso in una gabbia simile alla sua, anche se di proporzioni più ridotte, che rallegrava col suo canto la casa dove aveva sempre vissuto.
Decise che, se sarebbe uscito vivo da lì, appena tornata a casa, lo avrebbe liberato.
Che noia! Che noia! Almeno lo avessero fatto uscire! Avrebbe potuto guardare come si svolgeva la vita in quella maledetta isola. E invece, relegato com’era, in quell’angolo buio, non poteva proprio vedere niente.
Ben presto però ritornò il piccolo Trigambone che, di ottimo umore, lo tirò fuori dalla gabbia e, sedendolo sul palmo della mano, lo portò a spasso. Pietro guardava intorno a sé, sgranando gli occhi.
Com’era tutto differente dai paesi che aveva attraversato!
Non esistevano case, ma immense grotte in cui vivevano intere famiglie di Trigamboni.
Questi abitanti conducevano una vita molto tranquilla, chi sedeva sui massi di pietra, chi mangiava quella stessa poltiglia di cui si era nutrito Pietro, chi parlava, chi faceva assolutamente nulla.
– Una vita piuttosto monotona – pensò Pietro.
Altri bambini raggiunsero il Trigambone che reggeva Pietro.
Egli divenne presto il trastullo generale. Gli venivano fatti fare i più disparati esercizi nel corso dei quali Pietro si fece piuttosto male. Ma anche l’uomo-giocattolo, pur essendo una divertentissima novità, venne rapidamente a noia a quei bambini.
Pietro quindi fu rimesso in gabbia, portato a casa e posto nel solito angolo buio. E lì purtroppo vi rimase per parecchi giorni.
Tutti sembravano essersi dimenticati del povero Pietro che viveva ore di vero terrore. La fame lo torturava e più le ore trascorrevano, più la paura della morte si avvicinava. Inutili i tentativi di far qualcosa, perché non c’era proprio niente da fare.
Gli ritornarono alla mente ricordi che ormai parevano lontanissimi: i volti dei familiari, degli amici, il lungo viaggio, il vecchio che gli aveva dato l’ultima informazione.
Di nuovo si rimproverò, si accusò, si maledisse, si ritenne pazzo, poi, quando lo sfogo si placò, si sedette in un angolino della gabbia e, disperato, attese la fine.
Fine che però non giunse perché la mamma di Pietro entrò nella sua cameretta interrompendo il sogno.
Che sospiro di sollievo che ebbe il ragazzo quando si rese conto che era stato solo un brutto sogno!
Probabilmente i racconti di Serino, la sera prima, erano stati più fantasiosi del solito e Pietro ne era stato colpito.
Si alzò felice e si accinse a recarsi dall’amico per raccontargli quell’incredibile sogno che l’aveva fatto tanto penare.
Avvertì la madre che usciva e quindi passò dalla cucina per avviarsi verso la porta d’ingresso.
Mentre attraversava il locale udì un trillo festoso. Alzò lo sguardo e vide la gabbia dell’uccellino. Rammentò il sogno e, senza indugio, si sollevò sulle punte dei piedi e aprì lo sportellino della gabbia.
L’uccello smise di cinguettare, sporse il capino quasi incredulo e poi spiccò il volo, uscendo dalla finestra aperta.
La mamma di Pietro guardò il figlio stupefatta.
– Vedi mamma, credo proprio che non ci sia niente di più terribile per qualsiasi creatura vivente, di quella di sentirsi serrato fra quattro pareti di sbarre. –
Poi fischiettando uscì di casa, completamente soddisfatto.
Fine
Il piastrone concavo nei maschi di alcune specie, soprattutto di tartarughe terrestri, serve per adattarsi meglio alla forma convessa del carapace della femmina. Nella femmina un piastrone piatto permette di avere più spazio a disposizione per lo sviluppo delle uova. Ciò però significa che questo tipo di differenziazione si manifesta solo nei soggetti adulti, pertanto è impossibile determinare il sesso delle giovani tartarughe.
TartaRugosa legge TartaRugosa
L’inverno è finito e l’aria tiepida di primavera stimola alla pulizia della tana.
Tutto intorno è ormai fiorito e anche Giove, appiattito fra i fusti dell’enorme cespuglio di margherite gialle, con il muso appena appena affacciato e gli occhi vigili, segnala che è ora di darsi da fare.
Inauguro quindi oggi l’apertura dell’Argomento “Pagine dal passato”.
Non so bene come sia giunta a questa idea. Forse una spintarella è arrivata anche dagli ultimi post di dodo e ale, ma a dire il vero è da un po’ che ci meditavo, nel buio della profondità invernale.
Uno dei tanti progetti che si accumulano nel campo delle intenzioni e lì restano, in attesa del tempo propizio.
E fra le varie intenzioni, scelgo quella più facile: rileggere e ricopiare antiche pagine che provengono dal passato. Di TartaRugosa.
Così, nel rispolvero della scrivania, spazzate le pile dei testi che si sono succedute in questi mesi secondo i ritmi di TartaRugoso, ora appare il raccoglitore di cartone rosso, sul cui dorso un’etichetta preparata con la dymo annuncia “Scritti”.
Da parecchi lustri vengono lì gelosamente custoditi fogli, quaderni, cartellette, libricini prodotti da TartaRugosa, nel periodo compreso tra infanzia (aurea) e adolescenza (oscura).
E’ singolare rivisitare con gli occhi da adulti le premesse e le promesse embrionali. Sono infatti già presenti tutti quei segni che, se fossero stati colti a tempo debito, forse avrebbero determinato un altro destino. Sliding-doors? Serendipity? Mah!
Lascio per il momento da parte gli svolgimenti dei temi delle prime classi elementari (archiviati nel cubotto di legno in soggiorno) e inizio con il primo scritto “impegnativo” della seconda elementare.
A quel tempo vigeva ancora l’esame di passaggio alla terza e la prova di italiano rivestiva la sua importanza. I compiti a casa riguardavano esercizi di grammatica, di vocabolario, di prosa, di sintesi, di dettatura. A scuola ero incantata dalla bravura della mia maestra (più o meno cinquantenne) e dalla sua capacità di incantarci con storie e racconti.
Il testo di lettura mi pare fosse titolato “Ore liete” e raccoglieva brani antologici tratti da libri per bambini, nonché storie, filastrocche stagionali, poesie, rime e giochi di parole in grado di arricchire fantasia e competenza linguistica dei piccoli cervelli in fase evolutiva. Passione coltivata anche a casa: i miei amici preferiti erano i libri di fiabe che arrivavano in grande quantità sotto forma di regali o come prestito dalla biblioteca.
Del racconto che segue potrei ora riconoscere alcune “citazioni”: il cofanetto di tre volumi della Bibbia illustrata per i piccoli; le fiabe del brutto anatroccolo, dei tre porcellini, di pollicino e del soldatino di piombo; Gian Burrasca e i gendarmi di Pinocchio.
Della memoria autobiografica riconosco invece: alcuni modi di dire dialettali (i miei genitori talvolta fra di loro conversavano in dialetto friulano e “buono come il pane” era una frase tipica); i cardellini dello zio Crippa; il servizio di tazzine per le bambole in una scatola dal coperchio trasparente; il criceto che mi sarebbe arrivato solo qualche anno dopo poiché mio padre destava i “topi” (e infatti fu poi dato via per i disastri combinati); i viaggi in treno verso Udine con cambio a Venezia ; l’antipatia per le vacanze fatte con le zie; le difficoltà di socializzazione all’inizio della scuola; il concetto del “perdono” che rendeva i bambini buoni e li preservava dall’odio (reminiscenze dell’asilo presso le suore che avevo voluto subito abbandonare, forse perché non trovavo coerenza fra l’insegnamento religioso e il comportamento delle donne velate).
Una certezza/incertezza: la data di stesura è quella indicata, ma la ricopiatura no. Le pagine utilizzate infatti sono quelle di quarta e quinta elementare.
In prima avevo una calligrafia pessima. Temo anche nelle classi successive.
Il doppio voto sul foglio di quinterno del compito in classe riguardava contenuto e calligrafia. Quest’ultimo era sempre una sofferenza e la maestra suggeriva esercizio, esercizio, esercizio.
Chissà. Forse la “rilegatura a libretto” corrisponde a un esercizio di “copiatura in bella”, derivata dall’abitudine di fare una prima stesura in brutta (su cui si poteva pasticciare) per poi ricopiare appunto in “bella”.
A quei tempi non avevo ancora scoperto le parole ristampa e nuova edizione ….perciò la data finale (e di eventuali correzioni) rimane un mistero.
Storia di un bicchiere di cristallo
Racconto per bimbi dagli anni 4 agli anni 6
Riproduzione; 8-12-1965
Era un bicchiere come tanti altri, ma ebbe un passato burrascoso, che i suoi compagni stentavano a crederci, quando lo raccontava. Era appena costruito, che ebbe già un’avventura formidabile. Piccolo come era, si pensò di metterlo in un servizio di porcellana, ma dopo cambiarono idea e lo misero in uno di cristallo, dove fece molte conoscenze, non a tutti però era simpatico, e si assicurava ogni notte con Dio, di farlo volare nel regno dei Cieli, dove soltanto lì sarebbe stato felice. E una notte sognò …
Suoni e canti di angeli accoglievano il suo arrivo, cammina e cammina, si trovò d’innanzi al cospetto di Dio, e lo ringraziò di tanta felicità provata mai così.
Ma ad un certo punto si risvegliò e come al solito si trovò nella scatola buia dove non filtrava nemmeno un filino di luce. Ad un tratto Cristallino (nome del nostro amico) ebbe un’idea terribile: fuggire.
Con tutte le sue forze, aprì la scatola, un attimo di silenzio … era andata bene; si guardò intorno e visto che nessuno lo spiava, sgaiottolò fuori, e si mise a correre a perdifiato.
Ma purtroppo c’era sì uno che lo spiava, ed era il suo peggior nemico: Porcellano, che svegliò tutti i suoi compagni, i quali si dettero subito all’inseguimento del povero Cristallino, che poteva considerarsi morto quando vide una casetta, subito s’intrufolò dentro lasciando ad un palmo di naso i suoi inseguitori. Ma i suoi guai non erano finiti, una vispa bambina di cinque anni lo prese di malumore e lo scaraventò nel laghetto che era poco distante dalla casetta. Povero Cristallino! Era tutto fradicio e tutto bagnato.
Fortunatamente era sicuro di non aver nessuno che lo seguiva.
Cristallino camminò cinque giorni e cinque notti, senza sapere dove metteva i piedi, finché non venne accolto da una bambina buona come il pane, che si chiamava Lori. Lori desiderava da tempo un bicchiere bello come Cristallino, perché lo voleva regalare per il compleanno della sua bambola. Così Cristallino fece conoscenza con una bella bambola, buona come Lori, e si chiamava Donatella.
Al primo sguardo si può notare che è una figura fragile e delicata, si può considerare sui due anni, un visino magro e lievemente sciupato alle gote, ornato di ciocche bionde lunghe fino alla vita. Eh! sì, per Cristallino era un onore far da servo alla leggiadra bambola.
Cristallino stava con Donatella, Donatella con Lori e così tutti e tre messi insieme formavano un trio inseparabile.
Passarono due anni, che Lori dovette partire per Venezia, chiamata da sua zia Elisa, e naturalmente portò con sé Donatella e Cristallino. Durante il viaggio, Cristallino fece conoscenza con due topolini bianchi e due cardellini.
Così Cristallino e i suoi amici ne combinarono una veramente grossa. Viaggiavano, appunto, in treno, quando videro una maniglia penzolare nel vuoto. Il primo impulso fu quello di tirare quella strana cosa, e, unite tutte le loro forze, la tirarono, ci fu un sobbalzo … il treno si era fermato.
Un tumulto salì nel cuore delle persone, che si erano fatte attorno ai carabinieri e all’infermiere giunti nel frattempo. Per Lori e Donatella le cose si mettevano male, molto male. Le guardie, giunte nello scompartimento in cui era stato dato l’allarme, trovarono Lori molto spaventata: – Dunque – dissero con voce arcigna – sei tu che ti diverti a dare l’allarme, eh!. – No – disse la povera Lori, stringendosi al cuore Donatella – non sono stata io, non è colpa mia, io non c’entro -. – Poche storie – ripresero le guardie – ti conviene confessare altrimenti saranno guai -.
– Aspettate qua, – intervenì Cristallino, rivolto ai suoi amici – vedrò io di sistemare ogni cosa -.Cristallino salì all’orecchio di Lori e, poiché ella comprendeva ogni cosa di quanto dicesse, le chiarì la faccenda. – Ecco, – si difese Lori – è stato il mio Cristallino con i suoi amici a tirare la maniglia. – Io non ci credo, – disse il primo carabiniere – ma, poiché ho il cuore tenero per questa volta la affido al vento, ma la prossima volta la pagherai cara -.
Così detto, le guardie e l’infermiere, ritornarono indietro, attendendo il prossimo segnale di allarme.
Lori, tanto buona, perdonò subito Cristallino e si diede la briga di consegnare gli animaletti ai legittimi proprietari.
Cristallino, poi, se ne resto mogio, mogio, fino a quando furono arrivati.
La zia Elisa raccolse molto volentieri Lori e Donatella, ma non così Cristallino, perché lo cacciò fuori malamente.
Povero bicchiere indifeso!
Cristallino vagabondò per giorni e giorni, e, proprio quando non ce la faceva più, incontrò un bicchiere, e, indovinate chi era?
Sì, avete indovinato, era proprio Porcellano, che anticamente era il suo peggior amico.
Ad uno, ad uno, ritrovò i suoi cattivi compagni, e, naturalmente, li perdonò tutti.
Insieme, trovarono una siepe e lì presero alloggio.
Erano grandi amici, ormai, e decisero di non separarsi mai più.
Cristallino, ogni tanto, pensava alla buona Lori e alla simpatica Donatella, e avrebbe voluto volentieri essere con loro, ma non voleva correre rischi, e grattacapi.
Passarono i giorni, i mesi, gli anni, Cristallino e i suoi amici non invecchiavano mai, infatti là nella siepe, stavano insieme, raccontandosi a turno le loro avventure.
Finalmente venne l’estate, la meravigliosa estate, e una sera Cristallino e i suoi amici si logorarono, e i mille cristalli che si innalzavano nel cielo, vi finiranno di raccontare le loro avventure passate.
Fine
Finito di stampare: 28-12-1965
Adotta o regala l’adozione di una tartaruga marina ed aiuterai i Centri Recupero CTS, da anni impegnati nello studio e nella conservazione di questi animali a rischio d’estinzione. Subito in regalo regalo il kit d’adozione o il wallpaper e il certificato di adozione dell’animale scelto.
vai a:
La prima volta non me n’ero nemmeno accorta.
La segnalazione di una tartaruga alle prese con l’inferriata di un cancello è avvenuta per interposta persona. Ma il fatto più sorprendente era che il cancello in questione non era del mio giardino, bensì quello del vicino.
Come ogni buon investigatore ho tentato di ragionare sugli indizi disponibili, in questo caso il luogo.
Se non fosse per un muretto che ne delimita il confine, uno dei sentieri che si snoda nel mio giardino (quello chiamato via dell’orto), sarebbe in perfetta continuità con quello dell’altro proprietario. Entrambi condividono la caratteristica di terminare con alcuni gradini: il mio ne conta nove per scendere al sentiero sottostante e Giove, abbastanza regolarmente, li percorre per incamminarsi come sempre verso nord ed arrestarsi di fronte a un’inferriata che abbiamo posto a difesa di altri gradini che costituiscono l’ingresso secondario della nostra casa.
Questa volta però qualcosa di nuovo era successo, visto che Giove anziché decidere di compiere l’usuale traiettoria aveva stabilito di perlustrare la continuità della via dell’orto.
Questo era il dilemma: come diavolo aveva potuto superare il muretto di confine, arrivare alla fine del sentiero (sempre comunque seguendo la direzione nord) e finalmente arrestarsi davanti all’altrui cancello, fortunoso limite di altri gradini che lo stolto avrebbe sicuramente disceso per proseguire la sua passeggiata perdendosi per sempre?
Chi lo aveva notato ne aveva descritto il nervosismo e le bizzarre impennate per scavalcare quelle sbarre. Grazie a quello sguardo casuale, una mano fortunosa si era intrufolata attraverso le sbarre, aveva recuperato il vagabondo e riconsegnato alla legittima proprietà.
Era circa metà agosto e le ipotesi sull’evento si sprecavano.
L’attento sopralluogo sulla zona di confine non mostrava segni particolari di possibilità di fuga, così come il centinaio di metri protetto dalla rete metallica posta da TartaRugoso dopo un’altra evasione di Giove di qualche anno fa (si era lanciato da tre metri di altezza rompendosi il piastrone) appariva indiscutibilmente invalicabile.
Insomma, pareva impossibile una fuga condotta in autonomia.
Da qui, con poco senso investigativo, partivano altre supposizioni basate su indizi pregiudiziali, come di solito accade in ogni paese quando si parla dei vicini.
E l’idea maggiormente suffragata riguardava un rapimento a tempo determinato per intrattenere un bambino troppo curioso e vivace.
Esaurito il passatempo, sulla strada del ritorno l’”onesto” trafugatore avrebbe restituito l’animale, sbagliando però cancello.
Il furto quindi non sarebbe stato compiuto in malafede, ma esclusivamente per soddisfare una richiesta infantile. In paese, poi, è notorio che le voci si allarghino. Qualche altro furtarello in bottega, un comportamento un po’ bizzarro, l’ignoranza e la malaeducacion costituivano elementi inconfutabili per sostenere questa convinzione sul colpevole.
Come TartaRugosa però rimanevo piuttosto scettica su questo verdetto di appropriazione indebita.
La seconda volta è accaduta il 24 agosto. O meglio, la certezza che Giove non era più in giardino l’ho avuta il 26. Il 25 infatti pioveva e in questa circostanza il tartarugo se ne sta tranquillo e riparato.
Il 26 invece era una giornata splendida e calda. Secondo le sue tradizionali abitudini Giove avrebbe dovuto godersi il tepore dei raggi solari. Invece nulla.
In diversi momenti della giornata continuavo a scendere e salire i suoi piani preferiti, a cercare sotto i cespugli dei rosmarini e sotto i teli dell’orto. Nulla.
Percepivo nettamente la sua mancanza e poco mi consolavano le parole dei vicini che attribuivano al calo della temperatura il suo nascondimento.
Ero certissima che Giove non fosse più lì e con queste parole avevo liquidato anche il commento di TartaRugoso sulla sua probabile ricerca della tana invernale.
Dopo una ferrea ricerca a due, l’ennesima a vuoto, esprimo il mio senso investigativo.
Tra il nostro sentiero e quello del vicino è posto come divisorio un muretto sormontato da una rete a losanghe abbastanza fitte, tali da non consentire il passaggio della tartaruga. A ridosso del muretto c’è il cumulo di una delle nostre compostiere, anch’essa circondata da una rete.
Già dalla prima sparizione mi ero soffermata a lungo in quel punto. La rete infatti presentava una specie di tasca tra muro e cumulo e, a mio parere, il manigoldo avrebbe potuto intrufolarsi in quella zona lasca e sorretto proprio dalla rete metallica si sarebbe dato da fare per raggiungere la sommità del muro e lasciarsi cadere nella proprietà del vicino.
“E’ assolutamente impossibile” ri-decretava il consorte, come già aveva fatto la volta precedente.
La paranoia è un brutto affare: se non esistevano vie di fuga, qualcun altro ne doveva essere responsabile. Varie imprecazioni quindi verso colui che misteriosamente ritornava sulla scena, anche se a me continuava a sembrare decisamente anomalo.
Troppe volte avevo osservato l’ostinato Giove mentre tentava di salire gradini, cumuli di terra, piani inclinati senza arrendersi di fronte agli scivolamenti, anzi ancor più caparbiamente riprovare l’impresa nonostante l’innegabile difficoltà.
Continuavo perciò a pensare che quella rete lasca potesse essere l’unica complice della nuova scomparsa.
Meno male che siamo in due, in forme diverse, ad essere ostinati quasi quanto Giove.
Ognuno in preda alla sua malinconia, io e marito ci siamo separati inseguendo le proprie strategie di ricerca.
Dopo circa 15 minuti, la voce maschile mi raggiunge con un “L’ho trovato!” e all’orizzonte compare un braccio alzato e una mano che stringe lo zampettante Giove.
Era nuovamente nel giardino del vicino.
Giove ha un’inconfondibile caratteristica: quando sente il passo di qualcuno, sbuca dal suo nascondiglio e si avvicina. Sono anni ormai che questa sua socievolezza comporta un premietto alimentare ed evidentemente, come Pavlov insegna, il condizionamento dà i suoi frutti.
TartaRugoso, profittando di un disagevole pertugio ai piani alti, era riuscito ad introdursi oltre il confine e a scandagliare il territorio.
“Stavo tornando indietro dopo aver guardato in ogni direzione, quando improvvisamente me lo sono visto davanti, con la testa alzata a guardarmi”.
Deposto sulla terra, Giove sembrava un po’ disorientato e incerto sulla direzione da prendere. Ma solo qualche attimo di esitazione e poi eccolo di nuovo a riprendere il cammino lungo il sentiero verso l’albero del fico.
Io potevo riprendere a lavare i piatti e TartaRugoso, sotto un sole cocente, a fissare la rete della compostiera contro il muro di separazione.
Da quel giorno Giove non è più fuggito, ma proprio oggi, 4 settembre, anche mio marito accetta l’idea che l’animale se ne sia andato entrambe le volte con mezzi propri.
Infatti: “E’ da mezz’ora che lo guardo. Continua a risalire il cumulo della compostiera e ad andare su e giù alla ricerca di qualcosa che è già chiaramente inscritto nel suo ricordo”, mi racconta.
Corro a prendere la cinepresa, arrivo un po’ in ritardo, ma in tempo per immortalare qualche passo perpendicolare che probabilmente nel recente passato gli aveva consentito di raggiungere la vetta del muro e darsi all’arte esploratoria di un nuovo ambiente.
Evidentemente, come per gli umani, anche per le tartarughe l’erba del vicino è sempre più verde.
Un evento straordinario, quasi un miracolo, che ha obbligato il sindaco, Enio Pavone, a vietare temporaneamente la balneazione e il transito nel tratto di spiaggia interessato. Accade a Roseto degli Abruzzi, località balneare in provincia di Teramo nota per custodire la riserva naturalistica del Borsacchio. Per caso, pochi giorni fa, è stato scoperto sulla battigia, a pochi passi dagli ombrelloni, un nido di tartarughe marine della specie «Caretta caretta», protetta e a rischio estinzione
tutto l’articolo qui Roseto, ecco il nido delle tartarughe rareSpiaggia off-limits ai bagnanti per la schiusa – Corriere.it.
L’AMICIZIA
La tartaruga aveva chiesto a Giove:
vojo una casa piccola, in maniera che c’entri solo quarche amica vera, che sia sincera e me ne dia le prove –
Te lo prometto e basta la parola – rispose Giove – ma sarai costretta a vive in una casa così stretta che c’entrerai tu sola.
(Trilussa)
Descrizione libro: Orecchio Acerbo, 2004. Condizione libro: New. Language: italian. Barbaverde e i Pittipotti sono ben decisi a tenere pulita la loro isola da tutte le schifezze che gettiamo in mare. Eh sì, spesso facciamo di tutto per rendere la vita più brutta e difficile. Ma anche la natura a volte non scherza! I vulcani per esempio. Certo sarebbe meglio non viverci sotto. Ma la tartaruga e i suoi amici – granchi, lucertole, leprotti – sotto il vulcano ci sono nati. E quando “vecchia stufa”, come lo chiamano loro, comincia a gettare tizzoni ardenti, si sentono perduti. Come un sol uomo, Capitan Barbaverde, i Pittipotti e Pinguino Pasticcione, organizzano una missione di soccorso
Tutto è partito da una lettura casuale a me riferita: “I rettili erano comparsi da poco quando in alcuni s’andò sviluppando la novità evolutiva di una corazza insieme cornea e ossea. Un notevole avanzamento di carattere difensivo, avvenuto ben più di duecento milioni di anni fa. Una volta rinchiusesi lì dentro, però, queste primitive tartarughe divennero conservatrici e, praticamente, smisero di evolversi. Loro (a differenza di altri animali) tartarughe erano e tartarughe sono rimaste”.
Sob, sono da un’eternità vittima di una stasi evolutiva: “La loro stirpe, in definitiva, s’è specializzata troppo e ciò adesso le impedirebbe di sviluppare quelle soluzioni adattative che forse le sarebbero utili per continuare a sopravvivere”.
Liquidata così dal mio mitico, amato Danilo Mainardi?
Stasi per stasi, (che sia stato quello sforzo primordiale a costringermi a dormire per metà della vita?), la lettura è piacevolmente proseguita con il dibattito-epistolario fra due ex compagni di scuola – Remo Ceserani e Danilo Mainardi – che hanno intrapreso strade diseguali, ma conservato la stessa abitudine di essere curiosi verso il sapere e la conoscenza. Anche in questo volume, dove si interseca lo sguardo di due apparenti differenze: “Io perennemente con l’etologia in testa, lui con in testa la letteratura. Passioni contrapposte? Si vedrà.”
Il gioco è proprio questo: cimentarsi in un viaggio tra letteratura ed etologia per trovare analogie e contrasti (ma pure possibili convergenze) tra i rispettivi campi di ricerca ed interessi, affidandosi a parole appartenenti ad entrambi i mondi letterario ed etologico.
Ecco emergere quindi temi come la comunicazione, i personaggi romanzeschi e l’antromorfizzazione di alcuni animali, la cultura e l’evoluzione biologica, il linguaggio, l’aggressività, i sogni, il sesso, la paura.
Da un lato le posizioni di Mainardi che si fondano sulla globalità delle forme di vita, senza soffermarsi unicamente su quella umana, dal cui aspetto culturale è invece attratto il letterato Ceserani. E mentre Ceserani mette a fuoco solo la storia culturale della nostra specie, Mainardi adotta l’ottica del paleontologo, ovvero: “Mi viene da ragionare in termini di milioni, talora addirittura di miliardi di anni. Per me Homo sapiens è una specie giovanissima, sempre sotto il collaudo della selezione naturale, e ti assicuro che è una specie a rischio. Mi viene dunque da sorridere quando la Chiesa cattolica si vanta di durare ormai da duemila anni. E che saranno mai duemila anni, anche per la nostra giovanissima specie, nell’ottica del paleontologo?”
La discussione sulla cultura diventa particolarmente feconda grazie all’analisi condotta da Bauman, sociologo citato da Ceserani, per evidenziare il passaggio dalla modernità alla postmodernità. Bauman così sintetizza le sue riflessioni sulla concezione di modernità solida e liquida: “da una parte le nazioni e le istituzioni sociali, familiari e individuali forti, l’egemonia del centro sulla periferia, gli equilibri di potere, i conflitti e le guerre, la ricerca di identità, i problemi della sicurezza, le pratiche di esclusione e sospetto verso gli altri,le forme di assimilazione forzata; dall’altra il sistema decentralizzato, la multidimensionalità e fluidità dei rapporti, l’ibridazione, gli spostamenti massicci di popolazioni, l’aspirazione alla libertà, l’uso della rete nei sistemi della comunicazione”.
Tale citazione serve a Ceserani per dimostrare come, nella specie umana, il sistema culturale si fondi su aspetti politici, etici e morali di possibile evoluzione in tempi brevi: “Se le analisi di Bauman sono vere, tu e io, nati nella prima metà del Novecento, avremmo vissuto in due sistemi sociali e culturali nettamente diversi: un’infanzia, adolescenza e giovinezza solide e una maturità liquida”.
Mainardi conferma: “occorre rilevare che l’evoluzione culturale è straordinariamente più rapida di quella biologica. Il cambiamento evolutivo culturale può infatti determinarsi all’interno di una popolazione in brevissimo tempo, senza attendere ricambi generazionali.” Pur tuttavia non può non considerare l’aspetto della selezione naturale “un comportamento, indipendentemente dal fatto che sia trasmesso per via genetica o apprendimento sociale, se mal adattativo viene comunque penalizzato dalla selezione naturale”, quindi un tipo di evoluzione che si sviluppa in un movimento lungo e interrotto, tendenzialmente lento, contrario alla visione di Ceserani che percepisce l’evoluzione culturale “come un movimento più agitato e drammatico, fatto di salti e di conflitti.”
Ed è qui che l’occhio del paleontologo riesce a coniugare ciò che le teorie dividono:”la vita non è che un unico, seppur lungo, episodio. Gli studiosi della biologia sono innanzitutto degli storici, studiosi di una storia naturale che non potrebbe mai ripetersi uguale a come è stata, con le stesse specie, i suoi rigogli, le sue crisi, i suoi equilibri e squilibri, estinzioni e nuove comparse, mescolamenti”. E aggiunge Mainardi “Dovendo però anche confrontarmi con la vita di tutti i giorni … è come se possedessi due distinte consapevolezze. Una lente che mi consentisse di guardare questo modesto spazio temporale amplificato, dove io sono ben più partecipe, e un’altra che se risale all’età dei dinosauri, diventa come un film accelerato. La progressiva scomparsa di quei rettiloni, della conseguente comparsa dei loro nipoti uccelli, della trasformazione di qualche dinosauro in coccodrillo o caimano o alligatore, della subdola apparizione dei primi piccoli mammiferi”. La vita è tutta vita, ma è come se l’uomo la volesse interpretare come leggenda, teso com’è ad anteporre innanzi tutto se stesso.
Certo l’uomo appare come l’animale culturale per eccellenza, ma è pur vero che anche altre specie animali sono in grado di produrre e trasferire fra loro soluzioni di problemi, linguaggi e innovazioni. ”All’interno dei sistemi comunicativi delle specie animali, quanto ai contenuti, si va da informazioni fondamentali per la sopravvivenza, come la specie e il sesso d’appartenenza, a segnali che possono essere ritenuti analoghi a vere e proprie parole create ad hoc per indicare qualcosa che proprio in quel momento sta avvenendo”.
Le storie di animali che corroborano la discussione sono numerose e gustosissime (sia viste con l’occhio dello scienziato che attraverso le opere di famosi scrittori) e sollevano curiosità e risposte che ben evidenziano quanti misteri ancora debbano essere svelati sulle convergenze tra la specie umana e le altre abitatrici del nostro pianeta.
Nello scenario della trattazione di temi sulla consapevolezza, la morte, l’aggressività, la violenza, la paura, Mainardi rilancia e pone in primo piano una sgradita specificità tipica dell’essere umano: “noi esseri umani siamo una specie molto diversa da tutte le altre soprattutto perché abbiamo sviluppato una straordinaria e unica capacità di evoluzione culturale.. Ciò ci è costato, in termini evolutivi, la perdita quasi totale delle istruzioni genetiche per stare al mondo (i cosiddetti istinti tanto per intenderci), ed è proprio per questo che abbiamo una sete di conoscenza sempre impellente, indispensabile per la nostra stessa sopravvivenza di animali culturali. Ecco allora che noi animali onnivori (dunque parzialmente carnivori), certe altre specie dobbiamo ‘consumarle’, in quanto culturali, non solo mangiandole, ma anche in altri modi, e cioè per il nostro insaziabile bisogno di conoscenza. E’ all’interno di questo bisogno che, tra le curiosità in qualche caso giustificabili, si localizza la sperimentazione sugli animali”.
Riconosce, Mainardi, un fenomeno etologico che riguarda solo la nostra specie: la pseudospeciazione, e di essa ne parla per affrontare il tema della violenza e dell’aggressività, spiegando che “sono rari i casi naturali in cui le interazioni aggressive intraspecifiche sfociano nella morte. Le due possibili soluzioni naturali degli scontri aggressivi fra animali non portano mai all’uccisione dello sconfitto, ma, in alternativa, o all’interazione sociale o a una spaziatura fra gli individui”.
Il termine pseudospeciazione viene citato da uno studio di Konrad Lorenz: “Ogni gruppo culturale sufficientemente circoscritto tende a considerarsi una specie a sé e a non ritenere come veri e propri uomini i membri di altre unità analoghe … poiché i nemici non sono considerati veri uomini, si può infierire su di loro tranquillamente”.
Secondo questa definizione, Mainardi afferma che è la cultura (o certi tipi di cultura) a rendere l’uomo crudele. Per natura, infatti, l’essere umano dovrebbe essere altruista ed empatico; razzismo, fanatismo, olocausto, santa inquisizione, torture vengono riservati, secondo la pseudospeciazione, ad esseri in vario modo classificati, ma sempre in senso fortemente negativo, come ‘diversi’. “La pseudospeciazione, i riti di guerra, la disciplina assoluta e acritica richiesta ai soldati, la propaganda che racconta l’avversario come perennemente aggressivo, l’obliterazione dei segnali etologici di paura e resa, utili in natura per smorzare gli attacchi, fanno slittare la sana e adattativa aggressività animale in qualcosa di ben più atroce. E tutto ciò non per natura ma per cultura. Certo è che in nessun’altra specie, tranne che nell’umana, gli individui risultano così disinvoltamente, e consapevolmente, sacrificabili”.
Anche di se stessi, verrebbe da aggiungere, leggendo queste parole sull’evoluzione della vita sulla Terra: “Nella storia della vita sulla Terra si sono già verificati, e superati, cinque periodi di grave crisi. Non per nulla quella che stiamo vivendo viene dai paleontologi definita la ‘sesta estinzione’. Le precedenti crisi non furono comunque mai definitive. Altrimenti non saremmo qui. E, occorre rilevare, al loro termine seguì sempre un periodo di rigoglio evolutivo. Rimane però istruttivo il fatto che, a decretarne la fine fu, come del resto è logico, la scomparsa della causa stessa che le aveva prodotte. Ebbene, è fondamentale allora ricordarci che la sesta estinzione, quella che stiamo vivendo, l’abbiamo fabbricata soltanto noi. Sarebbe dunque essenziale che comprendessimo, ma sul serio, che è solo salvando le altre specie, soprattutto salvando gli equilibri naturali, che potremmo salvare noi stessi. Altrimenti sarebbe come se stessimo allegramente organizzando, col nostro comportamento intelligente, il nostro suicidio.”
Beninteso a tutto vantaggio del mondo postumano!
Ivan Theimer di origine slava centro-europea, parigino di adozione, con una base a Monteggiori, vicino alle fonderie di Pietrasanta, formatosi nei numerosissimi viaggi in Europa e in Oriente, tra India, Tibet e paesi mediterranei, si esprime sempre con la stessa geniale naturalezza di reminiscenza dell’arte antica sia nella scultura che nella pittura e nell’incisione.
Un’arte contemporanea figurativa che, anche se lontana dai messaggi talvolta oscuri del concettualismo, libera la sua espressività nell’elaborazione di temi ricorrenti, ma sempre variati, che sono comunque essi stessi simbolici e concettuali, rielaborati come appaiono da mondi lontani nel tempo e nello spazio.
E così ad esempio la dominanza della tartaruga, spesso base di appoggio di obelischi, soggetto molto presente dall’arte classica a quella rinascimentale, ma che Theimer assimila dai templi buddisti e – come lui stesso racconta – dall’incontro folgorante con il Nano Morgante del giardino di Boboli.
La tartaruga come segno del trascorrere del tempo, di longevità, ma anche di forza nella sua corazza indistruttibile, contrapposta alla mollezza del corpo: corpo piatto come la terra, sormontata dalla cupola del cielo rappresentata dalla corazza. E l’uso frequentissimo di obelischi e alte stele, decorati con metope, dove talvolta si esprime in una tecnica particolare, anch’essa ripresa dal mondo classico, quella del bronzo dipinto.
Quante volte arriviamo a casa, dopo una dura e faticosa giornata di lavoro, magari gravata anche dall’utilizzo di scomodi tacchi, è il nostro unico desiderio è quello di poter avere un massaggio rigenerante, ma chi ce lo fa? Ecco che viene in nostro aiuto questa simpatica tartaruga massaggia piedi. Un modo naturale per usufruire dei benefici offerti dalla natura.
Realizzata in puro cotone, contiene una particolare miscela di riso ed erbe tailandesi. Inoltre la sua forma speciale è stata studiata per alleviare la stanchezza e riattivare la circolazione dei piedi. Infatti esercitando una lieve pressione sui bottoni di legno, otterrete un benefico massaggio. Un’idea davvero simpatica da poter regalare questo Natale, ma soprattutto è un dono che si adatta a differenti fasce d’età, dalle giovanissime che amano sfoggiare tacchi vertiginosi, alle donne in continuo movimento, alle signore che spesso soffrono di problemi di circolazione.
Se avete bisogno anche voi della tartarughina la potete trovare nello shop
al prezzo di 15 euro
I negozi sono presenti in molte citta d’ Italia, potreste provare a curiosare, ci sono tante belle idee.
“C’era una volta una tartaruga che era davvero molto stanca”. Il sonno e la stanchezza erano maturi al punto da bastare per tutto l’inverno. La camicia da notte a righe era indossata, i denti lavati, il cuscino sprimacciato per bene, le palpebre faticosamente restavano aperte, il ticchettio della sveglia creava il giusto ritmo, le coperte rimboccate, l’inverno alle porte (chiuse), quand’ecco che a un certo punto … TOC-TOC-TOC, bussano alla porta. Chi sarà mai a quest’ora? “La faccia e il carapace per bene volle lavare: in pigiama per strada non è il caso di andare.” Poi, aperta la porta, ecco davanti un bel pacco regalo: una coperta viola calda calda, il pensiero dell’amico uccellino per affrontare il lungo letargo dell’inverno. Che pensiero amabile, che idea delicata, ora sì che il lungo sonno avrà tutto un altro calore, yawn (anzi, uuuaaah). Ma nulla da fare: è solo il primo della serie di visite/regalo, interrotta solo dal dono del leone che restando davanti alla porta saprà donare il silenzio giusto alla casetta della nostra tartaruga…
Una fiaba tenera, ironica, sonnacchiosa con il pregio di svolgere la perfetta funzione di sviluppare sonnolenza davvero. Ideale, dunque, prima di andare a nanna. Più di ogni altra cosa per la magia delle illustrazioni di Alessandra Cimatoribus, capaci di narrare da sole e dare una vita complementare e parallela alla storia, al punto da appassionare anche i piccoli meno amanti della lettura. Le immagini sono perfette (ed è davvero un complimento) nel calarci nel clima e negli umori che accompagnano tra le braccia di Morfeo. A questo contribuisce anche la ripetizione (come in tutte le fiabe che si rispettino): una costruzione narrativa che si reitera nella storia, perfettamente identica per ognuna delle visite e dei regali che la nostra amica tartaruga riceverà. Poi gli sbadigli (Uuuaah…!) perfetti, sonori, reali, affiancati ai sonnolenti occhi della tartaruga, scanditi dalla efficace scelta grafica di ‘un font più grande’, uno per ogni dono: irresistibilmente contagiosi. Il clima e l’umore di questa fiaba sono perfetti per stendere al sonno anche il più restio dei bambini.
tratto da http://www.mangialibri.com/node/4919
Au réveil, petite tortue décida d’être un
pingouin. Elle enfila ses pantoufles rouges
et se dandina. Après le petit déjeuner, elle
eut une idée. Elle monta au grenier, sortit d’un vieux coffre l’habit de son grand-père et l’enfila.
– Bon, là, j’ai l’air d’un vrai pingouin, dit petite tortue en se regardant
dans la glace.
– Dépêche-toi, ma chérie, dit maman tortue. Sinon, tu seras en retard à
l’école.
– Ce n’est pas un drôle de costume, protesta petite tortue. Je suis un pingouin !
– Parce que hier soir, papa m’a lu un livre sur les pingouins, dit petite tortue.
glissades sur le ventre comme les pingouins. Et j’aime aussi dormir debout comme
les pingouins ! dit petite tortue.
– Nous aussi, on veut être des pingouins ! crièrent les enfants.
la maison.
– On a fait la journée du pingouin, dit petite
tortue. C’était super !
Ce soir-là, avec son dîner, petite tortue
mangea des crackers en forme de
poisson, parce que les pingouins adorent
le poisson. Et avant de se coucher, petite
tortue se brossa le bec. Même quand elle
se mit au lit, petite tortue continua à faire semblant de plonger et de nager avec ses amis les pingouins. Et puis papa tortue arriva avec un nouveau livre à lire avant de dormir.
Et ce soir-là, quand petite tortue s’endormit, elle rêva qu’elle était un drôle de petit singe…
tratto da: http://alexina93-histoire-du-soir.blogspot.it/2011/08/tortue-pingouin.html
QUITO, 25 GIU – “Il mondo ha perso il Solitario George”. Lo ha annunciato, in un affranto comunicato, il Parco Nazionale della Galapagos dopo che un inserviente ha constatato il decesso dell’ultima tartaruga terrestre gigante. Ormai ultracentenario, viveva in solitudine in un serraglio e non lascia discendenti. Il Solitario George sara’ imbalsamato, affinche’ continui ad essere un’attrazione per i quasi 200.000 turisti che visitano l’affascinante arcipelago ogni anno.
Viviamo un’emergenza ecologica senza precedenti. La scomparsa delle specie viventi è una minaccia alla nostra anima selvaggia, al nostro Io istintuale, alla nostra creatività e alla nostra libertà.
Uniamoci per fare anima ed ecologia e per farle in modo profondo!
Il tardo pomeriggio di venerdì 4 maggio doveva essere occasione di vacanzina.
Una vacanzina molto locale, che solo io e TartaRugoso possiamo definire tale.
Si trattava infatti di esplorare un nuovo consorzio agrario vicino al mio luogo di lavoro. E che sarà mai un consorzio! potrebbe obiettare chiunque.
Bene. Per me e TartaRugoso serre, vivai, consorzi agricoli corrispondono al Paese delle Meraviglie di Alice e in quanto tale suscita sempre grande entusiasmo nella sua scoperta e perlustrazione.
E così attendevo con estremo piacere il finire della settimana lavorativa.
Uscendo dalla porta scorrevole, incrocio subito il viso terreo di TartaRugoso che annuncia il cambiamento di programma per una bella notizia. Bella era la parola usata, ma disconfermata dalla sua mimica facciale, che però ho subito afferrato a conclusione della frase.
“Stavo aprendo la porta per venire a prenderti e il telefono ha squillato. Era Enrico che dal nostro giardino lieto mi annunciava di avere appena rimesso a dimora Giove, trovato da Lorenzo alla Cappelletta”.
Il colore del mio muso non doveva essere molto diverso da quello del consorte.
Certo che era una splendida notizia, ma per Bacco, anzi per Giove!, come cavolo aveva fatto il disgraziato fratello ad arrivare alla miracolosa cappella, distante sette minuti di passo umano dal giardino?
C’è bisogno di fare memoria.
Tre anni fa un abitante del luogo ora passato ad altra vita ci aveva gentilmente avvertito di aver visto una tartaruga salire i gradini che sempre verso la cappelletta vanno (che Giove abbia periodicamente una crisi mistica?).
Impietriti dalla notizia, in quella tarda primavera ci eravamo subito precipitati alla sua ricerca. Il testardo rettile stava salendo di gran voga i gradini di sasso lasciando dietro sé piccole gocce di sangue: il piastrone ventrale era letteralmente spaccato in due.
Contattato d’urgenza il veterinario, trafelati in città dopo mezz’ora, direttamente all’ambulatorio, lì lasciamo il malcapitato, dopo essere stati rassicurati che un intervento di riparazione sarebbe stato possibile.
Tornati al giardino, un’accurata indagine ci fa scoprire un buco nella rete di protezione sufficiente al passaggio di Giove e al suo capitombolare da tre metri di altezza (reperti sanguinolenti testimoniavano il punto di atterraggio).
Da quel giorno TartaRugoso ha steso almeno una cinquantina di metri di rete lungo la balaustra di pietra del lungo terrazzo e ogni anno, prima del risveglio di Giove, verifichiamo che tutto tenga.
Che cosa poteva essere successo venerdì?
Tra l’altro, l’ottuso fratello era stato ricoverato nell’appartamento di città per quasi due settimane a protezione dal grande freddo e dalle insistenti precipitazioni piovose che hanno classificato lo scorso aprile come prosecuzione invernale. Devo dire che in quelle giornate, l’occupazione principale di Giove era quello di andare avanti e indietro con gran dovizia lungo la porta finestra del soggiorno, identificato come l’unico punto luce pavimento-soffitta e, nella suo preistorico cervello, probabilmente identificato come possibile via di fuga.
Io e TartaRugoso ascoltavamo il suo cozzare contro l’alluminio per ore, finchè, colto da fatica, si ritirava a dormire sotto l’armadio per iniziare la mattina dopo, al primo bagliore di chiaro.
Quindi cocciuto è.
Dicevo appunto di venerdì. Archiviata la vacanzina, corriamo al giardino per tentare di capire il suo percorso.
Trovo Giove sotto un cespuglio di rose. Lo prelevo per condurlo più lontano, verso il pino. Sta bene e il piastrone questa volta non è rotto.
Procedo con TartaRugoso a una minuziosa ricerca di punti di strappo della protezione metallica, ma non troviamo assolutamente nulla.
L’unica plausibile ipotesi (e due, dopo la scomparsa di Noelle) è che al termine della rete parzialmente sovrapposta alla colonnina di cemento, non essendo fissata alla stessa per via della durezza del materiale, la parte verticale della rete medesima offrisse, alla spinta testarda del guscio, la possibilità di essere piegata ed allargata per il suo oltrepassamento. Nel vuoto che sotto si apre.
TartaRugoso ha subito allineato una serie di sassoni nel punto verosimilmente critico, nella speranza che fosse quello il pertugio individuato dallo stupidone.
Certo che passato lo spavento si impone una riflessione sul destino e sulla casualità.
Casualità 1: Lorenzo avvista Giove su un piccolo promontorio vicino alla Cappelletta (così ci dice lui stesso venerdì sera quando lo incrociamo sul sentiero e lo ringraziamo immensamente per la segnalazione)
Casualità 2: qualcuno ha visto Giove camminare e lo ha messo lì sopra, anziché portarselo via o lasciarlo al suo procedere.
Casualità 3: Lorenzo ci dice che è stata la bambina prossima ad abbandonare il paese a dirgli che Giove era nostro.
Casualità 4: Enrico era presente per motivi del tutto fortuiti (un guasto nella sua casa lo ha stimolato a compiere un viaggio altrimenti evitato)
Casualità 5: TartaRugoso ha preso la telefonata per un soffio di dieci secondi, altrimenti non sarebbe stato più in casa. Giove a quel punto era già al sicuro, ma a noi ha tranquillizzato il poter andare quella sera stessa a verificare la presenza di buchi. Conoscendo Giove e la sua testardaggine, poteva benissimo essere che il mattino dopo ritentasse l’impresa.
Se non ci fosse stata questa concomitanza di casualità, io avrei perso Giove per sempre.
E che sarà mai una tartaruga! potrebbe obiettare chiunque.
Per me è una bestia sacra, è il mio alter-ego e ciò che meglio mi rappresenta nel mondo animale.
Quando è morta Celesta qualche anno fa, per probabile polmonite dovuta anche in quel caso a un mese di pioggia interrotta, ho passato momenti d’inferno, essendo scioccamente convinta della robustezza di questi rettili e delle fantomatiche dicerie sulla loro longevità e capacità di pre-sentire con ampio anticipo le variabilità del tempo.
Non è vero. Le tartarughe sono molto sensibili agli sbalzi di temperatura improvvisi e all’elevato tasso di umidità. Se fa freddo si bloccano e non è così scontato che riescano a ripararsi con le dovute accortezze. Anche loro si ammalano e non sono eterne.
Diversamente da altri animali oggi è assai difficile procurarsi le tartarughe, visto che le poverette non sono bestie d’affezione e vengono sterminate per farsene pranzi o accessori di vario genere e tipo.
Giove è l’unico che è riuscito a resistere in tutti questi anni e quando lo abbiamo acquistato dal nostro veterinario, il suo carapace portava già i segni di un passato burrascoso.
Che sia il nome Giove che lo protegge?
Chissà, le casualità forse sono il destino che si compie, e questa volta il destino ha decretato che Giove restasse nel cerchio dell’apparire.
Grazie di cuore a tutti coloro che hanno partecipato affinché questo destino si realizzasse.
Da TartaRugosa, da TartaRugoso e naturalmente da Giove.
Temperatura esterna 8° di minima e 10 di massima.
Pioggia in quantità.
Giove trova RIMEDIO in città
LA TARTARUGA E LA LUCERTOLA
La tartaruga disse alla lucertola:
– Abbi pazienza, fermati un momento!
E giri e corri e svicoli, e t’arrampichi,
mi fai l’effetto d’una pila elettrica…
Ti piace essere attiva? Va benone.
Però l’attività quando s’esagera,
lo sai come si chiama? Agitazione:
forza sprecata. E’ la mania del secolo.
Corrono tutti a gran velocità:
ognuno cerca d’arrivar prestissimo,
ma dove, proprio dove…non si sa.
Trilussa
…
Ad un certo punto però fu distratta dal passaggio di una lunga fila di tartarughe che si stavano trasferendo verso luoghi più ricche di cibo, avevano infatti finito tutte le loro scorte; se non che ce ne era una in fondo al gruppo che si attardava e sembrava lo stesse facendo a posta per sentire cosa la ranocchia avesse da raccontare a cosù tanti bambini. Mirta, che oltre che intelligente era anche presuntuosa, subito si spazientù e chiese a Gio’, la tartaruga che tardava, se volesse per piacere proseguire oppure unirsi agli altri per ascoltare, purch� non disturbasse tutti.
Gio’ la guardò con aria di sfida, pensava infatti in cuor suo che le tartarughe fossero gli animali più intelligenti del mondo e che non sarebbe stata certo una piccola ranocchia ad insegnargli niente. Nel frattempo i ragazzi cominciavano diventare sempre più stupiti, erano infatti abituati a vedere la maestra sempre felice di insegnare, ma adesso vedevano qualcosa che non conoscevano�cominciavano ad avere paura. Finalmente Gio’ iniziò a parlare e chiese a Mirta se volesse accompagnarlo un poco più in là dove le avrebbe fatto conoscere tutto ciò che sapeva; Mirta accettò e seguita dai bambini si incamminò verso la riva di un fiume che scorreva poco lontano dall’ albero presso il quale si erano incontrati.
Giunti alla riva la tartaruga iniziò ad elencare tutte le specie di pesci che abitavano il corso d’ acqua e Mirta, che non li conosceva, stava zitta, ma dentro di se si sentiva arrabbiare sempre di più verso questo certo Gio,’ che sbucato dal nulla, voleva dimostrare di essere più bravo di lei. Poi fu il turno della ranocchia che alzò gli occhi verso il cielo e iniziò a contare e dire i nomi di tutti gli uccelli che volavano sopra le loro teste, anche Gio’ stava zitto, ma non come Mirta, lui infatti conosceva anche il nome degli uccelli, solo aspettava che la ranocchia sbagliasse per fare in modo che tutti ridessero di lei, che si credeva molto intelligente.
… segue
Per guardare a colori il nuovo anno che viene:
TartaRugosa ha letto e scritto di:
Giorgio Celli (1997)
Il Gatto di casa: etologia di un’amicizia, Franco Muzzio Editore
Giorgio Celli ha cambiato dimora.
Come in tante sue storie, si fa trasloco, ma questa volta non si tratta di api, vespe, conigli, cani, cavalli, gatti.
Mi piace ricordarlo con la sua voce calda e pacata, gli occhi luminosi e ridenti, la sua testa un po’ incassata nel collo incorniciata dalla bianca capigliatura e la morbida barba.
Ho spesso pensato che il suo volto somigliasse a quello di un gatto, quei gattoni col muso tondo e largo, voglioso di carezze. Forse questa comparazione non gli giungerebbe gradita, ma non ne sono così convinta.
Giorgio amava i gatti. “Però quando mi tolgo il camice del professore e vado a casa, beh, l’etologo delle api si trasforma nell’etologo dei gatti. Perché da sempre, non vi dico da quando, dato che ci tengo, per un particolare capriccio ad occultare la mia età, io vivo in compagnia di questi animali eclettici e straordinari, e per decenni non ho potuto fare a meno di osservarli, di congetturare su quello che fanno, di confrontare le loro azioni in differenti contesti, e oggi mi illudo di averli un poco capiti”.
Anch’io amo questi animali.
Nelle mie scorribande fra i ciuffi di trifoglio spesso mi imbatto nelle loro zampe artigliate. Quatta quatta, riparata dal mio guscio, anche a me piace osservarli e verificare quanto ognuna di quelle creature dai calzari di diversi colori manifesti un proprio carattere e un proprio comportamento, assai poco omologabile l’uno all’altro.
Ecco perché mi diverte leggere i racconti di Celli, un entomologo/etologo sorprendentemente efficace nelle descrizioni scientifiche permeate da un’ironia e un’affettività assolutamente esclusive di chi ha fatto del regno animale non solo una brillante trasmissione televisiva, ma anche una scelta di vita.
In questo suo libro analizza il gatto casalingo e le sue frequentazioni con altri gatti “di fuori”.
Scrive che gatto colono e gatto domestico hanno abitudini molto dissimili. Infatti in un adattamento recentissimo (recente nella storia evolutiva) il gatto che vive con l’essere umano ha sviluppato un rapporto fondato sull’affetto e reciproca confidenza.
Questo è soprattutto visibile in alcuni particolari momenti, per esempio quello del parto. “In natura le gatte quando è giunto il momento di mettere al mondo i loro piccoli non vanno di sicuro a cercare le altre femmine perché facciano da levatrice .. Quando la gatta di casa deve partorire, beh, ci credereste?, ha spesso l’abitudine di chiedere aiuto al padrone. …Ricordo una mia gatta di tanti anni fa, che una bella notte salì nel letto, mi svegliò ronfando e spingendo la testa contro la mia spalla, e una decina di minuti dopo mi scodellò il primo di tre gattini quasi sul guanciale, mentre io continuavo ad accarezzarla”.
Che il gatto poi riesca anche a percepire gli umori dell’uomo che pensa di essere il loro padrone è innegabile. Il mio TartaRugoso riesce ad emanare flussi estremamente comunicativi quando è nervoso e il primo captatore è proprio la nostra gatta, che si allontana senza indugio.
Lo stesso fenomeno lo ha osservato Celli, in una tribù allargata composta dai suoi gatti di casa e da quelli per così dire clandestini. Gli intrusi, così racconta “non si limitano a curiosare, ma producono spesso dei guasti, buttando in terra risme di carta e libri rari dalla scrivania … rientrando di sera se i colpevoli sono ancora presenti, mi metto a far loro degli urlacci, batto le mani, minacciando di inseguirli. Ci credereste? I gatti estranei fuggono a zampe levate e quelli di casa? …Sembrano sapere benissimo che sono gli altri, i clandestini, l’oggetto delle mie contumelie, mentre loro, inquilini legittimi del posto, non hanno proprio nulla da temere …Se io urlo non è per loro, ma per gli intrusi”.
E’ bello pensare a questo andirivieni di gatti con le loro storie più o meno drammatiche, fatte di salvataggi, recuperi, adozioni. La casa di Giorgio per loro è sempre aperta. Come per Bianca all’olio, avvistata durante un viaggio in autostrada verso la sede di un convegno. Nell’aria di servizio quella povera gattina sembrava mendicare del cibo, trascinandosi un po’ di traverso sulle zampe, come se fosse stata urtata da un’automobile. Il pensiero di quell’esserino così pericolosamente esposto insegue Giorgio per tutta la conferenza, tant’è che, al ritorno nel cuore della note, ripassando da quell’area di servizio, tenta di avvicinarla senza successo. Rientrato a casa, un sogno terrificante gli rimanda l’immagine di un Tir che schiaccia la bestiola. “Mi sono svegliato in un’alluvione di sudore, e con il cuore che mi batteva come un tamburo. La mattina dopo, insieme al mio fedele collaboratore, sono andato a prenderla … Ora vive nel mio giardino e le ho dato un nome: Bianca all’olio. Che ne dite? Mangia regolarmente e se ne sta al calduccio. Tutto in virtù di un sogno che forse era premonitore”.
Padrone affettuoso, Celli, accanto al suo atteggiamento di studioso, non manca di compiere qualche tiro mattacchione. E’ il caso di quello che definisce “comportamento di accoglienza” di uno dei suoi tanti mici, determinato dalla sua presenza costante dietro alla porta di casa nel momento in cui si apriva la porta, come se il gatto in attesa ne avesse percepito in anticipo il ritorno.
“Era l’ascensore che avvertiva il micio del mio rientro? Quando ero in casa, il gatto non dava alcun segno di attenzione al ronzio dell’ascensore … Salii per ben tre volte le scale a piedi, con le scarpe in mano per minimizzare ogni possibile rumore d’avvertimento, e niente da fare: il gatto mi aspettava dietro la porta. La cosa diventò per me una specie di ossessione, ci pensavo e ci ripensavo senza riuscire a formulare uno straccio di ipotesi”.
Finchè la scoperta grazie al figlio di un vicino che si compra una motocicletta e sceglie di parcheggiarla vicino al suo garage. Come spesso accade la soluzione è più vicina di dove la si cerca e Celli riesce a mettere in relazione il comportamento di attesa del micio con il suo stesso uso della moto Guzzi e il rumore del motore. Naturalmente la scoperta avviene a scapito del povero felino, il quale una sera… “stavo sul divano a godermi la TV, quando il rumore suddetto giunge da sotto – il vicino rientrava in moto – e il gatto, che sonnecchiava sul pavimento si alza sulle zampe di colpo, e si dirige rapido verso la porta di casa. Ahilui!, passando vicino al divano mi vede: il suo passo rallenta, si ferma, si volta a fissarmi ed emette un miagolio straziante. Che cosa succedeva? Ero là, ero qua, stavo per giungere ed ero già arrivato”.
In effetti, ripensandoci dopo, il fenomeno dell’attesa non si verificava nei giorni di pioggia, quando la moto restava in garage!
Rileggendo oggi quelle stesse pagine del racconto, sembra quasi un dolce segnale l’istruttivo ragionamento appreso dal gatto: “Scoperto che il clan clan (della moto) era inaffidabile, l’animale si comportò di conseguenza. Lo trovavo qualche volta sì e qualche volta no dietro la porta. Passato dall’universo di Newton a quello di Heisenberg, dalla certezza alla probabilità, il mio micio si era convinto che “Dio gioca ai dadi”, e che anch’io faccio lo stesso”.
Sono qua, sono là.
Miao, Giorgio.
TARTARUGHE INFINITE
Passano lentamente
attraversano il giardino
sognano il sole
Escono nel tepore con occhi adoranti
Dopo il lungo letargo
Tartarughe infinite
sacralità dell’attesa
di Grazia Apisa Gloria, in AMORE CHE MI PARLI, Golden Press 2010