CARLO FERRARIO E ANTONIA POZZI
“In un giorno di giugno / (io avevo sei anni)…”
Una precisazione cronologica, questa, che mi aveva incuriosito non poco, posto proprio all’inizio dell’ultima fatica poetica di Carlo Ferrario, ossia il “romanzo in versi” intitolato Paganus, in cui si racconta la storia di un’iniziazione alla vita sul teatro di un’età aurea che si avvia ad un tempo grigio di rovine e di violenza.
Posta come dicevo all’inizio della seconda delle 34 strofe di cui il poemetto si compone, mi ha indotto a interrogarmi sulla sua consistenza, sulle ragioni della sua perentoria verità, per darmi conto che si tratta di un atto in un certo modo fondativo. Come tutte le date che si rispettino assume infatti un carattere per così dire sacrale, da momento su cui si costituisce una piccola e privata storia sacra, come di un qualcosa da cui la vita dell’individuo acquista senso e significato: un momento di ordine ieratico che nel tempo agisce con forza ipnotica sulla coscienza e che anche inconsapevolmente insiste su parole, gesti e manifestazioni.
La risposta, come un’illuminazione, mi è venuta scorrendo i versi di un bambino, che con fiabesca lievità parlano di cascine in mezzo a monti e a prati, di animaletti amati ancorché “birichini”, di lontani sogni marini, di sensazioni delicate: versi contrassegnati da una data, 1937, di un tal Ferrario, familiarmente denominato “Carluccio” e residente in una sorta di Valle dell’Eden in quel di Introbio, un luogo dove può intervenire a turbare i giorni anche la guerra e la morte, fermo restando che è ancora la fine di una giornata di giochi a diventare il principale motivo “di malinconia”.
Un lontano giorno di giugno di una fanciullezza incantata è, dunque, accaduto qualcosa che ha segnato la vita del poeta seienne, un evento che, stando al poemetto, si è scritto come una rottura, una lacerazione, l’interruzione di un ordine che nel tessuto della mitica trasposizione della storia operata in Paganus (il titolo è quanto mai significativo di una volontà di resistenza nella fede nella sacralità dei propri miti) e si configura come traumatica, come fonte di disorientamento e di angoscia (così come conferma nella conclusione della terza strofa, “Ero piccolo allora / frastornato e pieno di paura”): passaggio da un sistema della familiarità e dell’inginocchiamento alla molteplice e meravigliosa naturalità delle cose e della vita ad un altro sistema gravato e condizionato da una ferrea Legge, da un’inflessibile “sudditanza” ad una auctoritas senza cuore.
Momento iniziatico, dunque, evento di un passaggio e di una trasformazione, capace di incidersi con il puntiglio della sua reiterazione nell’esperienza e di propagare i suoi influssi nell’avvenire, quali che siano.
Non diversamente dal sogno fondante di Orazio (Odi, III, 4) o del Rimbaud di un singolare poemetto in latino (“Tu vates eris”), in cui sulle ali di bianche colombe si inscrive la profezia di un destino di poesia, ma anche evento paragonabile a quello inscenato dal Leopardi dell’idillio Odi, Melisso, altrimenti noto come Lo spavento notturno, in cui la visione angosciosa della caduta della luna si configura come premonizione di tutte le perdite e cadute della vita.
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http://www.nodolibrieditore.it/scheda-libro/carlo-ferrario/paganus-9788871851471-156152.html
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L’ha ripubblicato su Antologia del TEMPO che resta.
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