gli ANGELI del Cimitero di Torno mi ricordano questo scritto: PAOLO FERRARIO, Il Genius loci come angelo del luogo, in ANGELICAMENTE, il senso dell’angelo nel nostro tempo, a cura di Baldo Lami, Zephyro edizioni, 2010, p. 45-57

LUOGHI del LARIO e oltre ...

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LUCIANA QUAIA, SDN spirito del natale: gli ANGELI, da Muoversi Insieme di Stannah, 24 dicembre 2010

Dicembre, tempo di Natale. Le buie giornate del solstizio d’inverno sono rallegrate da insolite luci che ovunque denotano un’atmosfera particolare di desiderio di vacanze, di gioco, di incontri e regali.
Sono giorni in cui, molto di più che in altri momenti dell’anno, la nostra psiche cerca di attribuire significato alla cultura e alle tradizioni, forse perché temiamo la solitudine segreta delle nostre vicende esistenziali o forse perché un ciclo che termina ci induce a propositi di rinnovamento per l’anno nuovo che si apre.
E’ in questo periodo che con più insistenza richiamano la nostra attenzione le figure alate chiamate angeli: presepi, chiese, vetrine dei negozi, addobbi natalizi, carte da regalo, agende e calendari, scatole di cioccolatini e ceramiche d’arte. Perché proprio loro? l’angelo è un simbolo estremamente potente: da migliaia di anni attraversa la storia e giunge a noi carico dei significati più diversi. Ricordiamo che la parola simbolo deriva dal greco symbàllein, “mettere assieme” ed esprime pertanto la necessità di ricomporre un oggetto scomposto per poterlo riconoscere, uno sforzo immaginativo che vada oltre l’immediatamente visibile.

vai all’intero articolo qui:

Sorgente: Angeli di Natale, “emozioni” per rinascere ancora – Muoversi Insieme

Carteggio Email con "A" e "F" in tema di Torno, ex farmacia, Genius Loci, "fare cose grandi da luoghi piccoli"

CARI  “A” e “F”
vi siamo molto grati per l’invito al monologo 1914 Tregua di Natale
Questa serata resterà incisa nella nostra memoria sia per la bravura del giovane attore , sia per la bellezza di luogo della ex farmacia
Mi sapete cultore del “genius loci” che occorre ritrovare in certi spazi (e allora vi rinvio a un mio saggio su questo tema)
Questo simbolo si riattiva quando ci sono persone che lo sanno custodire. E voi lo avete saputo fare
Ho molto apprezzato anche la davvero bellissima introduzione di “A”, con quel riferimento all'”arte del mescolare” ingredienti benefici
Torno è collegata a Como con così tanti battelli che (di fatto) sono come una metropolitana lacuale
Quel grande locale si presta a tantissime operazioni culturali: mostre, presentazioni di libri, discussione su temi di valore
E’ davvero corrispondente a quello che chiamo: il fare cose grandi da luoghi piccoli.
Un po’ come fa, proprio dalle rive del lago Basilio Luoni.
E’ così che dovrebbe agire la nostra generazione: trasferire (nei limiti del possibile) pezzi di passato utili per il futuro
saluti cari
grazie ancora e arrivederci


Caro Paolo
grazie,davvero grazie per aver partecipato alla “nostra” serata all’inaugurazione dello spazio / ex-farmacia e allo spettacolo che abbiamo potuto ospitare.  Ci hai regalato un commento così significativo che mi sono affrettato a comunicarlo agli amici con cui abbiamo pensato e stiamo  portando avanti l’iniziativa.
Conoscevo già il testo che hai allegato ma mi ha fatto piacere rileggerne alcune parti alla luce di quanto stiamo cercando di progettare.
Con “F” in particolare ti siamo grati per l’omaggio del tuo libro: è  un lavoro sistematico, ampio e documentato che sarà prezioso strumento di lavoro per tutti e due nei diversi campi di interesse.
Desidereremmo poterne parlare con più agio direttamente e ci farebbe piacere se poteste venire una sera a cena .    Sappiamo che in particolare Luciana in questo periodo è molto impegnata  e per questo vi proponiamo di scegliere voi stessi una data nelle prossime settimane escludendo però i giorni 14,15 e 16, il 20,21 e 22, il 26 e 27.
Ancora grazie a te e a Luciana e a presto
“A”

Angelicamente: presentazione del libro alla società antroposofica di Milano

caro baldo, pure io sono arrivato salvo a como, dopo aver accompagnato p.t  (psicologa della famiglia e della vecchiaia) alla sua casa milanese.
sento di avere avuto il privilegio di conoscere un luogo “storico”, ossia questa sala degli antoposofi steineriani milanesi. inoltre l’occasione mi ha consentito di leggere ancora una volta il libro. e tu sei stato bravissimo nel riconoscere a ciascun autore il suo contributo al testo complessivo di Angelicamente. anche francesco pazienza ha rivelato un suo volto affettivo e relazionale che mi ha molto favorelmente colpito. ricorderò anche la presenza affettuosa di m.d.
è vero, come ha detto p., che  i contenuti sospesi ed anche enigmatici di alcune linee ispirative stanno lì, durevoli nel tempo e sulla carta, a trasmettere significati latenti che avranno forse modo di essere captati e resi significanti.

mi resterà nella memoria, e devo scriverlo nel mio diario biografico, l’intervento di quella persona che ha “criticato” metodo e prospettive del libro. 
come sai, (e il saggio sul genius loci lo conferma) io mi sento più attaccato alla terra che alle vertigini dei piani astrali della coscienza. e, dunque, il suo dire “attenzione a non perdere il contatto con l’uomo” risuonava forte dentro la mia coscienza.

La mia storia e biografia personale è sospinta da un destino che mi spinge verso una strada nella quale cresce la convinzione (oggi corroborata anche dalla sapienza di Emanuele Severino) che la mia “eternità” è vicinissima ed  è dentro la mia persona sulla terra, alla quale devo essere grato per la sua accoglienza e varianza, come nel mandala di foglie autunnali che ho visto durante la mattina sotto le mura di bergamo alta.

tuttavia il MODO in cui quella persona ha fatto la sua critica e ancora più il QUADRO in cui lo inseriva (usare il metodo “scientifico” di rudolf steiner) mi ha ulteriormente convinto della mia distanza (siderale) da ogni pensiero DOGMATICO.

Gli schemi dogmatici (tutte “fedi” controvertibili perchè basate su costrutti mentali) paralizzano, nella mia interpretazione,  ogni possibile ed infinito processo di personalissima INDIVIDUAZIONE.
Un caro saluto a te e a marialuisa e arrivederci ad altra occasione o personale o scritta di incontro intersoggettivo
paolo

Perché l’uomo ha bisogno di credere negli angeli di Vito Mancuso, LA REPUBBLICA 17.7.09

Perché l’uomo ha bisogno di credere negli angeli

di Vito Mancuso, LA REPUBBLICA 17.7.09

Il celebre teologo tedesco Rudolf Bultmann scriveva qualche decennio fa che “non ci si può servire della luce elettrica e della radio, o far ricorso in caso di malattia ai moderni ritrovati medici e clinici, e nello stesso tempo credere nel mondo degli spiriti proposto dal Nuovo Testamento”. Era il 1941. Consultando la più grande libreria al mondo che è amazon.com, si scopre al contrario che oggi, quando facciamo uso di ben altro oltre alla radio e all´elettricità, i titoli che riguardano un tipo particolare di spiriti quali gli angeli ammontano a una quantità impressionante (431.556), quasi il doppio rispetto a quelli sull´elettricità (267.520). Certo, tra i libri in vendita se ne trovano molti che hanno tutta l´aria di un inno all´irrazionalità (Nelle braccia degli angeli, Come udire il tuo angelo, Guarire con gli angeli, Camminare con gli angeli, I messaggi del tuo angelo), ma il fenomeno angelico non è riducibile a ciò.

Basti considerare che non esiste civiltà e tradizione religiosa che non ne parli, che i più grandi filosofi dell´antichità ne danno testimonianza (il caso più noto è Socrate con il suo daimonion a mo´ di voce interiore). anche la filosofia contemporanea non cessa di produrre pensiero al riguardo, come Massimo Cacciari con L´angelo necessario (Adelphi 1986) e come di recente la filosofa francese Catherine Chalier, allieva di Lévinas e docente all´Università di Paris-X-Nanterre con Angeli e uomini (traduzione italiana di Vanna Lucattini Vogelmann, a cura di Orietta Ombrosi, Giuntina 2009). Catherine Chalier mette in evidenza il fatto che la Bibbia, elencando le cose create da Dio, non nomina gli angeli (pure mostrandoli in azione in altri passi). Come mai? È un interrogativo che ha prodotto le più svariate risposte. A mio avviso è perché la Bibbia non intende dare un insegnamento diretto sull´esistenza degli angeli, ma intende limitarsi a educare a una lettura del reale che sappia andare al di là della sola dimensione visibile. Per la dottrina cattolica l´esistenza degli angeli è un dogma di fede, sancito dai concili Lateranense IV e Vaticano I e ribadito dal Catechismo all´articolo 328. Secondo l´angelologia di Dionigi Areopagita e di Tommaso d´Aquino (quest´ultimo designato doctor angelicus dalla tradizione) esistono nove cori angelici, in ordine gerarchico decrescente: Serafini, Cherubini, Troni, Dominazioni, Virtù, Potestà, Principati, Arcangeli, Angeli. Stando alla Bibbia però si può anche non credere all´esistenza degli angeli in quanto puri spiriti dotati di personalità autonoma. L´elemento decisivo per essa è un altro: è la non riducibilità del reale alla dimensione visibile, è l´angelicità dell´essere, cioè la possibilità di alcune esperienze o cose o persone di essere messaggere di un mondo più ampio rispetto a quello visibile. Non un altro mondo, ma questo stesso mondo, colto però in maniera più profonda. Pavel Florenskij parlava della “profondità del mondo, raggiungibile solo con una retta disposizione dell´anima”, e allo stesso modo Catherine Chalier rimanda a “un surplus inesauribile di bellezza e di senso che fa appello all´intelligenza e ne rinnova il desiderio”. Nella figura dell´angelo è in gioco l´ontologia del reale, la proprietà delle cose di rimandare alla profondità dell´invisibile. “L´essenziale è invisibile agli occhi”, insegnava la volpe al piccolo principe, aggiungendo “non si vede bene che col cuore”. È secondario che Saint-Exupery fa parlare una volpe, mentre la Bibbia e il Corano mettono in scena gli angeli (del resto già secondo Mosè Maimonide gli animali e persino gli elementi naturali possono avere una dimensione angelica, si veda Guida dei perplessi II, 6). Decisivo è dove si pone il vero centro dell´essere, l´essenziale: se nella materia o in una dimensione che la trascende e che si usa chiamare “spirito”. Il discorso sugli angeli prende senso, uscendo dal Kitsch che spesso ne pervade i discorsi, solo nella misura in cui si sa parlare dello spirito e del fenomeno concreto per esprimere il quale tale concetto è sorto. Il fenomeno alla base del concetto di spirito è la libertà, la libertà di cui l´uomo gode rispetto alla materia. L´uomo è materia, ma affermarne la libertà significa ritenere che l´uomo non è riducibile alla materia, che può agire e non solo re-agire a degli istinti. L´angelo è un simbolo che esprime la libertà dell´uomo rispetto alla materia, ovvero lo spirito. Libertà e spirito infatti rimandano al medesimo fenomeno: lo spirito lo nomina nella dimensione ontologica, la libertà nella dimensione operativa. E come la libertà si può determinare per il bene o per il male, allo stesso modo lo spirito: e così, oltre agli angeli buoni, la tradizione conosce anche gli angeli cattivi e ribelli, i demoni, il cui capo è “il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato Diavolo e il Satana che seduce tutta la terra abitata” (Apocalisse 12,9). Lo spirito-libertà è invisibile, ma l´invisibilità non impedisce che talora esso venga avvertito dalla parte più alta della mente (l´apex mentis), dove la conoscenza legata ai sensi si lega con la conoscenza che procede dalla pura ragione in un composto non dimostrabile more geometrico ma ugualmente denso di significato, anzi talora così denso di significato da riempire per intero la personalità, in una specie di sublime emozione dell´intelligenza. Spinoza nell´Etica parla al riguardo di “terzo occhio”. Esiste una conoscenza sensibile (primo occhio) ed esiste una conoscenza della pura ragione (secondo occhio), ma è possibile una conoscenza più alta, che procede da un occhio che materialmente l´uomo non ha, ma che spiritualmente può esercitare. La conoscenza intuitiva che Tommaso d´Aquino attribuisce agli angeli è il terzo occhio di cui parla Spinoza. A volte capita di giungere a conoscere (una persona, un´opera d´arte, una teoria scientifica) come d´incanto, senza mediazione, senza sforzo intellettuale, con una facoltà superiore all´intelletto, che se non può agire senza la sensibilità e l´intelletto, non per questo è riducibile a loro. È il terzo occhio, è la conoscenza penetrante, acutissima, che piove dall´alto, e che i grandi conoscitori del fenomeno umano hanno saputo descrivere. Perorare lo spazio riservato all´invisibile nella nostra società è uno dei compiti che intende perseguire il bel libro di Catherine Chalier. Il pericolo che stiamo correndo infatti non è piccolo: in una società che non dà credito all´invisibile non si possono dare le condizioni mentali per parlare fondatamente di quei valori essenziali che la tradizione metafisica denomina “trascendentali”, ossia tali da trascendere la sfera immanente dell´essere ma di cui l´immanenza ha una necessità insopprimibile. Senza fiducia nell´invisibile (sia esso il daimonion di Socrate, il vento leggero del profeta Elia, lo spirito di Hegel) si finisce inesorabilmente per parlare solo di legalità e non più di giustizia, solo di fascino e non più di bellezza, solo di utilità e non più di bene, solo di esattezza e non più di verità. L´angelo è il nome che la mente ha assegnato a ciò che ha il potere di rivelare una dimensione segreta dell´essere, non disponibile, non commerciabile, che si coglie solo ritraendosi in se stessi perché esiste primariamente lì, nella più intima interiorità, e che però dà forza, coraggio e serenità per agire con spirito nuovo sulla realtà del mondo. Il 27 giugno questo giornale riportava le parole di un iraniano che aveva ascoltato Joan Baez cantare We shall overcome nella sua lingua: “Non ho potuto evitare di piangere quando ha cantato nella mia lingua. Ho sempre amato Joan Baez, e dopo averla vista così, penso che sia un angelo”. Non è retorica. Il termine angelo dice la capacità delle cose e delle persone di essere messaggi di qualcosa di più bello e di più giusto. È l´angelicità del reale. Questa dimensione esiste, e se gli uomini da sempre hanno parlato e continuano a parlare di angeli è perché fanno esperienza della profondità dell´essere. Fino a quando questo avverrà, c´è la speranza che il mondo non si riduca a un grande centro commerciale.

da: Perché l’uomo ha bisogno di credere negli angeli : Liberstef.

Angelo-Daimon




A proposito del rapporto angelo-daimon su cui Baldo Lami invita a riflettere, debbo dire che mi si è presentato tempo fa, precisamente nel 1998, durante la stesura de Il brusio degli angeli. Saggio etico-politico sui fondamenti del lavoro di volontariato [scarica in formato doc]. In quella che chiamavo Seconda di copertina scrivevo:

Il titolo del saggio è ripreso dall’opera di Peter L. BERGER, A Rumor of Angels. Modern Society and the Rediscovery of the Supernatural, Garden City, N.Y., 1969; trad. it., Il brusio degli angeli, Bologna, 1970. Esponente della sociologia fenomenologica e autore di importanti studi di teologia della secolarizzazione (Le piramidi del sacrificio; La realtà come costruzione sociale), Berger è studioso della «Rivoluzione/Progresso come secolarizzazione della onto-teo-logica».
L’idea a cui rimanda il titolo è quella di una realtà sociale in cui la comunicazione tra individui non è posta più al riparo delle grandi certezze metafisiche del passato o garantita dalle ideologie politiche e religiose. Ogni individuo è solo davanti all’altro. Non più sostenuto da un patrimonio di conoscenze utili per l’azione, il singolo è impegnato a costruire la mappa del territorio che ha davanti a sé e nel quale intende procedere.
L’immagine dell’angelo è presa in prestito da Wallace Stevens, che diventa l’angelo necessario in Massimo Cacciari e poi codice dell’anima in James Hillman. Figura intermedia tra terra e cielo, costituisce il passaggio obbligato per chi si ponga il problema dell’accesso all’invisibile e il problema del rapporto tra visibile e invisibile.
Il brusio degli angeli dovrebbe dare l’idea del parlare sommesso, ma soprattutto dell’espressione di sé di fronte alla Realtà: allude alla capacità di comunicare con l’esperienza altrui. E’ l’immagine difficile dell’ethos del volontario. E’ il suo daimon che parla. La necessità di questo Angelo, la necessità di essere angelo a qualcuno coincide con l’esigenza di dare senso a ciò che vi è per noi. Si tratta solo di un ‘brusio’, perché è un parlare, quello del Volontario, che si produce «nell’impresa ricorrente di conversione di un mondo non intrinsecamente nostro in una realtà con altri durevolmente condivisa» (S.VECA).

Il paragrafo Zero, che intitolai In cammino verso il linguaggio, prosegue così:

In questo paragrafo liminare si parla di esseri intermedi, collocati dalla tradizione tra terra e cielo. Simbolo e cerniera tra i due mondi, gli angeli li riassumono in sé, perché sono messaggeri del ‘mondo delle idee’ presso gli uomini; da entità teologiche si sono fatti nell’arte, nella letteratura e nel pensiero moderni intermediari, protettori, custodi delle cose nascoste, dei misteri, di tutto ciò che è invisibile. Ci vengono in aiuto nella nostra riflessione, in quanto assumono la veste dell’attività rappresentativa della mente; sono emblemi delle ‘invenzioni’ della mente.
La necessità dell’angelo deriva dal fatto che l’esperienza umana si è fatta invisibile. Essa non è più immediatamente leggibile, se mai lo è stato. Tra esperienza e comportamento esiste uno scarto, una cesura difficile da colmare. Il raccordo tra l’una e l’altro è il compito di ogni politica dell’esperienza (R.LAING) che voglia restituire un resoconto credibile della condizione umana del nostro tempo e presentarsi come strumento di interpretazione della realtà che sia utile per l’azione. La necessità della ‘traduzione’ e dell’‘interpretazione’ della realtà dell’altro è la migliore riprova dell’invisibilità dell’esperienza.
L’esperienza del Volontario è il costituirsi di una relazione etica in cui egli ha da svolgere un ruolo che riesce a svolgere solo se è consapevole della propria natura, se l’accetta, se sa renderla visibile – se cioè è in grado di fare esperienza con l’altro -, se è in grado di mettere in relazione, di far parlare il suo daimon con quello dell’altro. Il daimon è l’invisibile di cui parlavamo.
Gli angeli a cui allude il titolo del saggio sono il mio daimon e quello dell’altro che è di fronte a me. Chiamare ‘angelo’ il proprio daimon significa assegnargli il compito di rendere possibile la comunicazione con la parte invisibile dell’altro, con la sua esperienza.
(Chiamare angelo il daimon, infatti, non è appropriato, per il fatto che l’Angelo è la capacità della mente di emanciparsi dai vincoli della necessità, incarnati dal daimon personale. Questa operazione, dunque, si qualifica come ‘assunzione’ del daimon a forza etica costruttiva, come veicolo del senso, primum indispensabile nel circolo della comunicazione).
Occorre ‘tradurre’ e ‘interpretare’ – nel comunicare, dentro la relazione. Il contatto tra le esperienze avviene in una sorta di terra di nessuno da creare ogni volta di nuovo. Perché sia possibile la comunicazione occorre uno ‘spazio linguistico’ comune. La costruzione di questo spazio coincide con il progressivo strutturarsi della relazione etica. Alla base di questa ‘costruzione’ c’è la volontà del singolo. Essa è origine e risultato.

«Ogni parlante è filosofo morale. E la verità è un’assemblea di parlanti» (Karl Otto Apel). Nel flusso della comunicazione, tuttavia, non si dà tutta la verità. Per questo, la tensione etica che ci spinge verso l’altro è scontro con i limiti del linguaggio, conato perenne destinato a ‘sfondare’ l’ordine del discorso per attingere il fondo di indicibile che è proprio dell’esperienza. Dentro questo paradosso del linguaggio, che è paradosso dell’esperienza – per cui essa si dà, ma non si mostra se non nell’evidenza sfuggente di una realtà che si ritrae o che ci si manifesta per enigmi – a noi non resta che avventurarci nel territorio accidentato dell’esperienza altrui, tentando con tutti i sensi di cui disponiamo di definire i lati del mondo a noi sconosciuto. Così facendo, noi parliamo, e parlando cerchiamo l’altro. Cerchiamo il suo senso e aspettiamo che dia senso al nostro parlare, che il suo parlare ‘corrisponda’ al nostro parlare.
Se paragonato al canto degli Angeli di fronte all’Altissimo, questo parlare è un sommesso bisbiglio, un impercettibile brusio, quasi un’infrazione alla regola del cielo che vuole l’Angelo ‘perso’ nella contemplazione del suo Creatore. Nella realtà mondana, essere angelo a qualcuno significa essere interessati all’esperienza altrui, all’irriducibilità di quell’esperienza, perché si tratta di farla sussistere nella sua realtà ‘biografica’ e ‘temporale’, ‘animica’, presso di noi.
La contestualità delle due esperienze nella ‘prossimità della distanza’ è comunicare. Ma ciò che viene messo in comunicazione è la parte nascosta di sé, e non siamo di fronte a un Giudice che stia lì a regolare e a garantire il flusso della comunicazione. Siamo soli. Il brusio degli angeli è questa comunicazione tra invisibilia.

La scienza delle cose invisibili è patrimonio di molti uomini ed ognuno la costituisce per sé, intrecciando relazioni significative con coloro che riconosce come propri simili. Essa si costruisce giorno dopo giorno, a brano a brano, con la gioia e col dolore, che sono gli strumenti con i quali si misurano la prossimità e la distanza, il grado di riconoscimento di cui ci è dato godere, l’altezza che abbiamo raggiunto, il diritto di esistere. Un uomo negato, infatti, è un bisogno di corrispondere e di vedersi corrisposti frustrato. Se le cose che abbiamo visto ci aiutano a vedere sempre di nuovo, e il rivedere è adagiarsi nel tepore del consueto, del familiare, dell’accogliente, in sostanza è davanti allo sguardo dell’altro che si compie la nostra esistenza.

Se il coraggio dell’inizio, se il coraggio come virtù dell’inizio ci consente di ‘avviare’ la nostra esistenza, è solo l’altro che permette l’esplicarsi della virtù della perseveranza e dunque la possibilità del ‘compimento’, della realizzazione.
Essere angelo a qualcuno è cosa difficile, perché siamo protesi piuttosto verso l’angelo che deve soccorrere noi. Solo occhi di seconda vista sanno vedere l’altro che è in noi, come l’altro che è fuori di noi. Dentro l’oscillazione tra questo altro e quello si dà visione.
L’essere fissato dalla scienza della natura è qui piuttosto forma, espressione vivente di un darsi e di un ritrarsi costante tra i quali è necessario prevedere ascolto ed interpretazione. Il risultato della conoscenza non è un concetto, ma il dispiegarsi rinnovato di una biografia, il farsi biografia di una vita che si era ridotta ad oggetto delle ‘scienze del corpo’ e a ‘cartella clinica’.
Ma nella vita di un uomo e della vita di un uomo non c’è alcun segreto da carpire. Si tratta, piuttosto, di vivere con. Solo a queste condizioni sarà possibile dare senso, costruire il significato, tracciare il disegno di una biografia. Gli uomini hanno solo vite da vivere, posti da occupare, possessi da rivendicare. Se imparassero a consistere qui e ora dentro i provvisori confini che ad ognuno è dato abitare, forse riuscirebbero a cogliere nel caduco la scintilla di eterno che pretendono dall’altro.
La linea sottile che divide due esistenze è anche quello che le unisce. Tutto dipende dall’uso che facciamo del segno che fisserà i confini e le rispettive identità. Costruire relazioni significative è il compito dell’intera esistenza di ognuno di noi. Fare esperienza poi, cioè rendere evidente la propria relazione con le cose del mondo e con le persone, è volere che file di continuità si stabiliscano; è, ancora, dare senso, l’espressione più propria dell’umano.
Esperienza e storia sono i frutti della presenza dell’uomo. Le sue istituzioni e i modi del suo consistere, la consistenza del suo radicamento e la forza della sua visione conferiscono valore ai prodotti del suo fare.
Il nucleo nascosto del suo vivere è la matrice di ogni cosa buona e cattiva. Dentro ogni individuo si nasconde un daimon, un genius, «angelo», «anima», «paradigma», «immagine», «destino», «gemello interiore», «compagno dell’esistenza», «custode», «vocazione del cuore». A seconda del significato che nelle diverse culture è stato assegnato al daimon, il destino personale è risultato più o meno determinante. Abitante di una «regione mediana» (metaxu), il daimon ci aiuta a spiegare, ad esempio, il carattere nello stesso tempo celestiale e terreno dell’amore.

Affermare che il nostro ethos è il nostro daimon è come affermare che ‘decidiamo’ la nostra natura. Ma decidere significa qui solo scegliere, introdurre elementi di dinamismo etico nel flusso della vita, è il farsi esistenza della vita. Il marchio individuale di una vita, il carattere personale di una vita è esistenza. Esistere è progettare, sollevarsi al sopra dell’orizzonte della pura quotidianità, per cogliere i sensi nascosti della realtà che ci circonda e del nostro paesaggio interiore. Realizzare la propria natura, esplicarsi e manifestarsi al mondo non significa, però, solo protendersi nell’ek-stasis mondana: si tratta di accettare quello che si è, essere se stessi, divenire se stessi. Con questo bagaglio di libertà e necessità andiamo incontro all’altro.

Le voci del mondo si lasciano percepire, tuttavia, solo da chi è disposto a custodirle nel proprio cuore, comprendendole come «il perfettamente distinto», come quell’unico ed irriducibile che costituisce la vita di ogni uomo. Mantenere intatto ogni ‘grumo’ delle esistenze con le quali entriamo in relazione equivale ad accogliere: è questa capacità di percepire e far sussistere dentro di sé i contrasti e l’inaccettabile contraddittorietà del vivere altrui la vera giustizia.
Il tratto distintivo dell’alterità è l’invisibile del daimon personale. La relazione è tra invisibilia. Il contatto che si stabilisce tra le persone coinvolge le dimensioni profonde dell’essere, piaccia o no. La migliore conoscenza di sé che l’Operatore ha da esibire è alla base dell’empatia, cioè della regolazione della distanza. Quest’ultima istituisce le coordinate spaziali e temporali dell’esperienza. L’ordine del discorso fonda e dà senso all’esperienza, amplifica le voci dell’altro, disegna volti e assegna nomi. A sua volta, parla, sommessamente. Quel brusio è il ritmo proprio dell’esistente, del nostro come dell’altro. Essere qui è bello, se si è in ascolto.

Nel corpo del saggio, infine:

VII. ETHOS ANTHROPOI DAIMON

[ La relazione con il ragazzo e la sua famiglia è definita etica. La relazione etica e non psicologica allude ad un legame originario, a un fondo comune che è dato dalla comune appartenenza di genere.
Essere parte del genere umano, richiede un’etica originaria, un quadro di regole, cioè, che trovi il suo fondamento nell’ethos, nel costume collettivo. Ma ethos, come è detto nel titolo del paragrafo, rinvia a daimon: un filologo ha proposto di tradurre quel frammento del filosofo greco Eraclito come se ethos avesse in comune con daimon una radice in quello che di proprio, di soggettivo c’è in ognuno di noi.
Il mio ethos è il mio daimon. La mia moralità trova la sua radice originaria nel mio modo di essere. Incontrerà l’ethos dell’altro nel suo daimon. Il demone è quello che ci spinge ad agire. ]

Il rapporto che si istituisce sul campo con il ragazzo e con la sua famiglia si definirà sempre più nell’ambito di una cultura della RELAZIONE ETICA. L’azione educativa è anche etica, in quanto mira ad instaurare un insieme di comportamenti finalizzati ad un valore. Ciò che si tratterà di fondare è la possibilità di un ethos comune.
L’azione di volontariato incontra il suo fondamento in un’ETICA ORIGINARIA, nel riconoscimento che Ethos anthropoi daimon, che significa: «Demone a ciascuno è il suo modo di essere». Ethos, più che il comportamento collettivo o il costume, come abitualmente si dice, designa il modo di essere. Designa il modo di essere di ciascuno inteso nella sua irripetibile unicità: il modo di essere che è suo, che gli è proprio. L’etimo stesso di ethos contiene una radice che allude al suo, al . L’ethos pertiene all’esistente umano nella sua unicità. Indica ciò che è proprio dell’unico. Per questo esso corrisponde al daimon.

*

L’emblema dell’angelo rinvia per me all’agire sociale, è figura della volontà della mente di sollevarsi al di sopra del dolore e della morte, per affermare la parola possibile, la felicità dell’opera.

La trascendenza personale è tutta qui, in questo scorcio d’opera: ho tagliato l’immagine per dire questo frammento. Non per amore del frammento e del caduco! Piuttosto, per fermare in immagine lo sforzo da compiere: da questo ‘particolare’, che è il quotidiano, si tratta sempre di nuovo di risalire alla sorgente (Die Quelle). Da lì soltanto è possibile contemplare la vita e darle senso.

Questo angelo viene da un cimitero monumentale. Il fiore che stringe tra le mani è rivolto verso il basso. Per me significa un amore perduto, malinconia d’amore, consapevolezza della perdita, miseria e abbandono. Ma angelo e fiore sono! Un transito necessario, questo. Occorre fare ripetutamente l’esperienza del dolore, per temprare l’anima. Solo attraverso l’esperienza del dolore si dà il governo di sé. Il governo dei sentimenti poggia su quella esperienza.

L’angelo il daimon e l’amore

Sarebbe interessante mettere in rapporto l’angelo col daimon, che la psicoanalisi, incorporandoli in un solo concetto, ha di volta in volta identificato con i concetti di “anima”, “animus”, “ombra”, “alter-ego”, “doppio” o “sé”.

Massimo Cacciari in L’angelo necessario distingue però nettamente l’angelo dal daimon: quest’ultimo chiama dall’idea alla forma, per questo è perentorio; l’angelo chiama invece dalla forma all’idea, per questo è leggiadro.

Da buon filosofo, Cacciari vede l’oltre solo nell’angelo, mentre dal punto di vista, diciamo, “psicospirituale” sono entrambe figure-ponte tra il visibile e l’invisibile, due aspetti di una medesima realtà dello spirito in rapporto all’anima, sia pure polarizzati in senso opposto.

Ma non esiste l’uno senza l’altro, fermo restando che è comunque il daimon che spinge all’individuazione (il compimento, secondo Jung, del proprio compito nel mondo).
A questo proposito, sarebbe molto stimolante e educativo per tutti noi poter rileggere la storia di Gesù come la storia archetipica del soggetto umano in grado di trascendere la sua finitudine grazie alla doppia interlocuzione con l’angelo-daimon.
Potrebbe sembrare una cosa riservata solo a pochi “eletti”, ma l’esperienza dell’angelo-daimon è veramente molto più comune di quel che si crede, basti pensare che Eros nel mondo antico (vedi Platone nel Simposio) era considerato più un daimon (intermediario tra l’umano e il divino) che un dio come gli altri.

E dell’amore prima o poi facciamo esperienza tutti, solo che viene poi confinato e riferito soltanto a quello specifico vissuto, oltretutto molto episodico, dell’innamoramento, anziché considerarlo un esempio di trascendenza a variabili infinite nello spazio e nel tempo.

WALLACE STEVENS, L’angelo necessario

L’ANGELO NECESSARIO

Io sono l’Angelo della realtà,
intravisto un istante sulla soglia.
Non ho ala di cenere, né di oro stinto,
né tepore d’aureola mi riscalda.
Non mi seguono stelle in corteo,
in me racchiudo l’essere e il conoscere.
Sono uno come voi, e ciò che sono e so
per me come per voi è la stessa cosa.
Eppure, io sono l’Angelo necessario della terra,
poiché chi vede me vede di nuovo
la terra, libera dai ceppi della mente, dura,
caparbia, e chi ascolta me ne ascolta il canto
monotono levarsi in liquide lentezze e affiorare
in sillabe d’acqua; come un significato
che si cerchi per ripetizioni, approssimando.
O forse io sono soltanto una figura a metà,
intravista un istante, un’invenzione della mente,
un’apparizione tanto lieve all’apparenza
che basta ch’io volga le spalle,
ed eccomi presto, troppo presto, scomparso?

WALLACE STEVENS