…Amo le mappe perché dicono bugie. Perché sbarrano il passo a verità aggressive. Perché con indulgenza e buon umore sul tavolo mi dispongono un mondo che non è di questo mondo … Domenico Pelini legge La MAPPA, di Wislawa Szymborska, in Basta così, Adelphi

clicca sul seguente link per ascoltare l’audio:

https://drive.google.com/file/d/1FAfNFdPiE-n-XQyLUE0I4IlZ25dQn14G/view?usp=sharing


Piatta come il tavolo

sul quale è posata.

Sotto – nulla si muove,

né cerca uno sbocco.

Sopra – il mio fiato umano

non crea vortici d’aria

e lascia tranquilla

la sua intera superficie.

Bassopiani e vallate sono sempre verdi,

altopiani e montagne sono gialli e marrone,

oceani e mari – di un azzurro amico

sui margini sdruciti.

Qui tutto è piccolo, vicino, alla portata.

Con la punta dell’unghia posso schiacciare i vulcani,

accarezzare i poli senza guanti grossi,

posso con un’occhiata

abbracciare ogni deserto

insieme al fiume che sta lì accanto.

Segnalano le selve alcuni alberelli

tra i quali è ben difficile smarrirsi.

A est e ovest, sopra e sotto

l’equatore, un assoluto

silenzio sparso come semi,

ma in ogni seme nero

la gente vive.

Forse comuni e improvvise rovine

sono assenti in questo quadro.

I confini si intravedono appena,

quasi esitanti – esserci o non esserci?

Amo le mappe perché dicono bugie.

Perché sbarrano il passo a verità aggressive.

Perché con indulgenza e buon umore

sul tavolo mi dispongono un mondo

che non è di questo mondo.

La MAPPA, di Wislawa Szymborska, in Basta così, Adelphi. Lettura poetica di Domenico Pelini. …Amo le mappe perché dicono bugie. Perché sbarrano il passo a verità aggressive. Perché con indulgenza e buon umore sul tavolo mi dispongono un mondo che non è di questo mondo …

clicca sul seguente link per ascoltare l’audio:

https://drive.google.com/file/d/1FAfNFdPiE-n-XQyLUE0I4IlZ25dQn14G/view?usp=sharing

Piatta come il tavolo

sul quale è posata.

Sotto – nulla si muove,

né cerca uno sbocco.

Sopra – il mio fiato umano

non crea vortici d’aria

e lascia tranquilla

la sua intera superficie.

Bassopiani e vallate sono sempre verdi,

altopiani e montagne sono gialli e marrone,

oceani e mari – di un azzurro amico

sui margini sdruciti.

Qui tutto è piccolo, vicino, alla portata.

Con la punta dell’unghia posso schiacciare i vulcani,

accarezzare i poli senza guanti grossi,

posso con un’occhiata

abbracciare ogni deserto

insieme al fiume che sta lì accanto.

Segnalano le selve alcuni alberelli

tra i quali è ben difficile smarrirsi.

A est e ovest, sopra e sotto

l’equatore, un assoluto

silenzio sparso come semi,

ma in ogni seme nero

la gente vive.

Forse comuni e improvvise rovine

sono assenti in questo quadro.

I confini si intravedono appena,

quasi esitanti – esserci o non esserci?

Amo le mappe perché dicono bugie.

Perché sbarrano il passo a verità aggressive.

Perché con indulgenza e buon umore

sul tavolo mi dispongono un mondo

che non è di questo mondo.

Map

Flat as the table
it’s placed on.
Nothing moves beneath it
and it seeks no outlet.
Above—my human breath
creates no stirring air
and leaves its total surface
undisturbed.
Its plains, valleys are always green,
uplands, mountains are yellow and brown,
while seas, oceans remain a kindly blue
beside the tattered shores.
Everything here is small, near, accessible.
I can press volcanoes with my fingertip,
stroke the poles without thick mittens,
I can with a single glance
encompass every desert
with the river lying just beside it.
A few trees stand for ancient forests,
you couldn’t lose your way among them.
In the east and west,
above and below the equator—
quiet like pins dropping,
and in every black pinprick
people keep on living.
Mass graves and sudden ruins
are out of the picture.
Nations’ borders are barely visible
as if they wavered—to be or not.
I like maps, because they lie.
Because they give no access to the vicious truth.
Because great-heartedly, good-naturedly
they spread before me a world
not of this world.

(Translated, from the Polish, by Clare Cavanagh)


fonte:

La mappa, Wislawa Szymborska

Domenico Pelini legge: Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili, Adelphi, 1989, pag. 29: “D’inverno , specialmente la domenica, ti svegli in questa città …

D’inverno, specialmente la domenica, ti svegli in questa città tra lo scrosciare festoso delle sue innumerevoli campane, come se dietro le tendine di tulle della tua stanza tutta la porcellana di un gigantesco servizio da tè vibrasse su un vassoio d’argento nel cielo grigio perla. Spalanchi la finestra, e la camera è subito inondata da questa nebbiolina carica di rintocchi e composta in parte di ossigeno umido, in parte di caffè e di preghiere. Non importa la qualità e la quantità delle pillole che ti tocca inghiottire questa mattina: senti che per te non è ancora finita. … In giorni come questi la città sembra davvero fatta di porcellana: come no, con tutte le sue cupole coperte di zinco che somigliano a teiere, o a tazzine capovolte, col profilo dei suoi campanili in bilico che tintinnano come cucchiaini abbandonati e stanno per fondersi nel cielo.

Antologia del TEMPO che resta

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Cos’è, creatura amata … da “D’improvviso e altre poesie scelte” Edizioni Via del Vento, Pistoia 2006 musica tratta da Corde Oblique-In the temple of Echo di Riccardo Prencipe, lettura di DOMENICO PELINI

Cos’è, creatura amata..da “D’improvviso e altre poesie scelte” Edizioni Via del Vento, Pistoia 2006 musica tratta da Corde Oblique-In the temple of Echo di Riccardo Prencipe

Cos’è, creatura amata, questa luce arata dal destino, la trasparenza dove continuo a vederti, che inchioda la mia anima al tuo viso? Lo bacio nell’assenza, l’accarezzo come nei sogni si sfiora il nostro desiderio ,quello che nella veglia si sottrae .Se chiudo gli occhie vorrei soffocarmi nel cuscino i tuoi si accampano nel sonno e in questa specie di morte fanno il nido. Al mio risveglio li ritrovo, principio della luce. Così i tuoi occhi sono la notte e il giorno, la mia fuga nei sogni e il mio ritorno. Se non fossero lì, custodi del silenzio, chi mai difenderebbe il labile confine che sta tra il sonno e la mia fine?

Eugenio Montale Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale – lettura di Domenico Pelini

“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue. ” (Eugenio Montale)

 

Iosif Brodskij, frammento finale dalle Fondamenta degli Incurabili, letto da Domenico Pelini 

… ripeto: l’acqua è uguale al tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in gran parte d’acqua, serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro.
Ecco la funzione di questa città nell’universo. Perchè la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perchè noi andiamo e la bellezza resta. Perchè noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo. Lo stesso vale per l’amore, perchè anche l’amore è superiore. Anch’esso è più grande di chi ama
Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili

MARK STRAND, Cos’era? … era l’inizio di una sedia, tradotta da Damiano Abeni e letta da Mimmo Pelini


Cos’era

I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; la sua azzurrezza, l’ombra che lasciava,
che cadeva, riempiva l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori da se stesso, fuori da qualsiasi idea
di se’ descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto in un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in se’, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo tenero, piccolo vuoto che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e cosi’ sempre,
e sempre perche’, e solo perche’, essendo stato, era…

II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sulla chioma.
Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai piu’ chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne ando’, come doveva, nessun dolore riusciva
a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
dimenticato da lei, la penna che lei lascio’ sul tavolo.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, per giorni. Era quello. Solo quello.

(da Mark Strand: “Blizzard of One” – 1998, traduzione di Damiano Abeni, ora in “West of your cities” – a cura di M. Strand e D. Abeni – Minimum fax – Roma 2003)

Iosif Brodskij letto da Domenico Pelini: “ti svegli in questa città tra lo scrosciare festoso delle sue innumerevoli campane, come se dietro le tendine di tulle della tua stanza tutta la porcellana di un gigantesco servizio da tè vibrasse su un vassoio d’argento nel cielo grigio perla …”

D’inverno, specialmente la domenica, ti svegli in questa città tra lo scrosciare festoso delle sue innumerevoli campane, come se dietro le tendine di tulle della tua stanza tutta la porcellana di un gigantesco servizio da tè vibrasse su un vassoio d’argento nel cielo grigio perla. Spalanchi la finestra, e la camera è subito inondata da questa nebbiolina carica di rintocchi e composta in parte di ossigeno umido, in parte di caffè e di preghiere. Non importa la qualità e la quantità delle pillole che ti tocca inghiottire questa mattina: senti che per te non è ancora finita. … In giorni come questi la città sembra davvero fatta di porcellana: come no, con tutte le sue cupole coperte di zinco che somigliano a teiere, o a tazzine capovolte, col profilo dei suoi campanili in bilico che tintinnano come cucchiaini abbandonati e stanno per fondersi nel cielo.

(Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili, Adelphi, 1991, Milano, p. 29)

da Iosif Brodskij, FONDAMENTA DEGLI INCURABILI, Adelphi 1989, pag.40 e pag. 29

ve1620

DUE CAVALLI tengono assieme Mark Strand, Jan Garbarek, Giorgio De Chirico e Domenico Pelini

Mark Strand, uno sguardo poetico sulla “quotinianità crepuscolare”. Ma anche un potente evocatore di immagini potenti, nitide, fortissime, come qui:

Due cavalli

Una calda sera di giugno

scesi al lago, mi misi carponi

e mi abbeverai come un animale. Due cavalli

mi si affiancarono, per abbeverarsi anch’essi.

È stupefacente, pensai, ma chi lo crederà?

I cavalli mi scrutavano di tanto in tanto, sbuffando

e scrollando la testa. Sentii il bisogno di rispondere, così anch’io

sbuffai, ma esitando, come se in realtà non volessi essere udito.

I cavalli dovevano avere percepito che mi reprimevo.

Si scostarono un poco. Poi pensai che forse mi avevano conosciuto

in un’altra vita – quella in cui ero stato poeta.

Forse avevano persino letto le mie poesie, perché a quell’epoca,

in quel tempo vago in cui il nostro ardore non aveva limiti,

cambiavamo stile quasi con la stessa frequenza con cui cadevano giorni nell’anno.

Two Horses

On a warm night in June

I went to thè lake, got on ali fours,

and drank like an animai. Two horses

carne up beside me to drink as well.

This is amazing, I thought, but who will believe it?

The horses eyed me from time to time, snorting

and nodding. I felt thè need to respond, so I snorted, too,

but haltingly, as though not really wanting to be heard.

The horses must have sensed that I was holding back.

They moved slightly away. Then I thought they might have known me

in another life – thè one in which I was a poet.

They might have even read my poems, for back then,

in that shadowy time when our eagerness knew no bounds,

we changed styles almost as often as there were days in thè year.

In Mark Strand, Uomo e cammello, Mondadori, 2007, p. 14-15, traduzione di Damiano Abeni

Sottofondo di Knot Of Place And Time di Jan Garbarek in “In Praise of Dreams

Lettura di Domenico Pelini:

L’impatto con Mark Strand è arrivato per strati, per momenti successivi. Non proprio di colpo.
Nato nel 1934 a Summerside, nella Prince Edward Island in Canada, cresciuto negli Stati Uniti, vive a New York. 73 anni. A vederlo sembra un attore. Altissimo, bello, «in tutto e per tutto simile a Clint Eastwood», diceva Enzo Siciliano. Anche mia moglie, vedendo la fotografia, ha esclamato: “ … che bello!”.
Quella che racconto, dichiara Strand, è sempre la stessa «vecchia storia»: quella «sui minuti che muoiono e le ore, e gli anni». E anche se tu che mi ascolti sai già di cosa sto parlando (e come potresti non saperlo?), questa è la storia «di me stesso, di te, di tutti».
Dicono di lui:

“Ci sono poeti che hanno il dono raro della semplicità uno di questi è Mark Strand, classe 1934, americano. La semplicità unita alla profondità di sguardo crea una miscela unica. Questa miscela unica costituisce il suo mondo poetico. Un mondo poetico che si nutre della quotidianità, una quotidianità quasi crepuscolare, decadente, anzi in decadenza: il suo universo, a tratti kafkiano come spiega la seconda di copertina di questo pregevole raccolta pubblicata da Minimum Fax, Il futuro non è più quello di una volta, è un universo nel quale la tristezza dei giorni è metodicamente disegnata con una precisione di sguardo e di dettato davvero unici. E nei giorni che scorrono implacabili si delinea una metafisica dell’assenza tutta terrena, immanente” (Mauro Fabi)

“Scenari struggenti di sconsolata felicità, densità ed evanescenza, presenze perdute e morte in vita. Atmosfere romantiche, l’assenza della vita, “fissare il nulla è imparare a memoria / quello in cui noi tutti verremo spazzati”: dinanzi a un simile scenario non possiamo che limitarci a contemplare la sua attività poetica. La capacità dell’autore di sfruttare un immaginario al margine del conscio appare unica,” (Marco Milone)

“Dovessi sintetizzare in un unico aggettivo cosa penso del corpus poetico di Mark Strand, non avrei dubbi: userei il superlativo interessantissimo. Mai, per esempio, mi verrebbe in mente di catalogare una sua poesia nella categoria del bello, con quanto di edonistico – di esteticamente godereccio – a questo termine si fa corrispondere. Piuttosto nella categoria dell’etico: infatti, quelle di Strand sono incursioni coraggiose sul terreno minato dell’esistere, eseguite con lo scandaglio dell’ironia.” (Ciro Bestini)

“la poesia di Strand è una poesia di domande più che di risposte, che non ha il compito di cambiare il mondo né di comunicare nessuna verità teologica, ideologica o etica. Non è una poesia confessionale né sentimentale: l’io lirico sembra addirittura abdicare a se stesso, annullandosi continuamente anche e soprattutto nell’uso prevedibile e canonico di certa lingua poetica: ogni luogo comune della dizione poetica viene sempre accuratamente evitato e la lingua, sorvegliatissima, ne esce essiccata, rastremata. Eppure la situazione umana balza evidente in tutte le sue implicazioni. È una poetica quella di Strand che vuole guardare in faccia la vita e la morte con la “discretion” disillusa e l’acre ironia della tradizione scettica. La poesia di Strand ferma la vita su un palcoscenico silenzioso e ci costringe ad osservarla nella sua nullità, con occhi asciutti.” (Franco Nasi)

Brodskij Iosif, frammento tratto da Ninnananna di Cape Cod, letto da Domenico Pelini

lettura di Domenico Pelini:

frammento tratto da Ninnananna di Cape Cod, traduzione di Giovanni Buttafava, Adelphi Editore

gli ho scritto:

… non so se è la parola di brodskj . non so se è la tua voce … so che non riesco a trattenere la commozione.

e con questa le lacrime

LA CASA ERA SILENZIO, di Stevens Wallace – letta da Domenico Pelini (dal suo canale youtube)

Ascolta —>  La casa era silenzio, di Stevens Wallace – Lettura di Domenico Pelini

La casa era silenzio

e il mondo era calma

Il lettore divenne il libro

e la notte estiva

era il sentire del libro

La casa era silenzio

e il mondo era calma

Le parole furono dette

come se il libro non ci fosse

ma il lettore rimaneva  chino sulla pagina

Voleva stare chino,

voleva

molto

tanto

essere lo studioso a cui il suo libro dice il vero,

a cui la notte estiva

è come una perfezione del pensiero.

La casa era silenzio

perchè così doveva essere.

Il silenzio era parte del senso,

parte della mente:

il passaggio che conduce la perfezione alla pagina.

E il mondo era calmo.

La verità in un mondo calmo.

In cui non c’è altro senso,

essa stessa è calma,

essa stessa è estate e notte,

essa stessa

è il lettore che a tarda ora chino

legge.

Venezia si tiene con Iosif Brodskij e la voce di Domenico Pelini

clicca sulla seguente citazione e sentirai la stupenda lettura di Domenico Pelini

D’inverno, specialmente la domenica, ti svegli in questa città tra lo scrosciare festoso delle sue innumerevoli campane, come se dietro le tendine di tulle della tua stanza tutta la porcellana di un gigantesco servizio da tè vibrasse su un vassoio d’argento nel cielo grigio perla. Spalanchi la finestra, e la camera è subito inondata da questa nebbiolina carica di rintocchi e composta in parte di ossigeno umido, in parte di caffè e di preghiere. Non importa la qualità e la quantità delle pillole che ti tocca inghiottire questa mattina: senti che per te non è ancora finita. … In giorni come questi la città sembra davvero fatta di porcellana: come no, con tutte le sue cupole coperte di zinco che somigliano a teiere, o a tazzine capovolte, col profilo dei suoi campanili in bilico che tintinnano come cucchiaini abbandonati e stanno per fondersi nel cielo.

(Iosif Brodskij, Fondamenta degli incurabili, Adelphi, 1991, Milano, p. 29)

da Iosif Brodskij, FONDAMENTA DEGLI INCURABILI, Adelphi 1989, pag.40 e pag. 29.
Le letture di Domenico Pelini sono tratte dal suo canale su Youtube

Finestre affacciate su VENEZIA tengono assieme Iosif Brodskij e un ricordo

D’inverno, specialmente la domenica, ti sve­gli in questa città tra lo scrosciare festoso delle sue innumerevoli campane, come se dietro le tendine di tulle della tua stanza tutta la por­cellana di un gigantesco servizio da tè vibrasse su un vassoio d’argento nel cielo grigio per­la.

Spalanchi la finestra, e la camera è subito inondata da questa nebbiolina carica di rin­tocchi e composta in parte di ossigeno umi­do, in parte di caffè e di preghiere.

Non im­porta la qualità e la quantità delle pillole che ti tocca inghiottire questa mattina: senti che per te non è ancora finita.

Alla stessa stregua, non importa se sei più o meno autonomo, se e quante volte sei stato tradito, se il tuo esa­me di coscienza è più o meno radicale, più o meno sconsolante: comunque stiano le cose, presumi che per te ci sia ancora speranza, o almeno un futuro. Questo ottimismo deriva dal­la nebbiolina; dalle preghiere che ne fanno parte, specialmente se è l’ora della colazione.

In giorni come questo la città sembra davve­ro fatta di porcellana: come no, con tutte le sue cupole coperte di zinco che somigliano a teiere, o a tazzine capovolte, col profilo dei suoi campanili in bilico che tintinnano come cucchiaini abbandonati e stanno per fondersi nel cielo. Per non parlare dei gabbiani e dei colombi che ora accorrono per mettersi a fuo­co, ora si dissolvono nell’aria. 

di Iosif Brodskij in Fondamenta degli Incurabili

Tetti da  una finestra veneziana, 2004:

DUE CAVALLI tengono assieme Mark Strand, Jan Garbarek, Giorgio De Chirico e Domenico Pelini

Mark Strand, uno sguardo poetico sulla “quotinianità crepuscolare”. Ma anche un potente evocatore di immagini potenti, nitide, fortissime, come qui:

Due cavalli

Una calda sera di giugno

scesi al lago, mi misi carponi

e mi abbeverai come un animale. Due cavalli

mi si affiancarono, per abbeverarsi anch’essi.

È stupefacente, pensai, ma chi lo crederà?

I cavalli mi scrutavano di tanto in tanto, sbuffando

e scrollando la testa. Sentii il bisogno di rispondere, così anch’io

sbuffai, ma esitando, come se in realtà non volessi essere udito.

I cavalli dovevano avere percepito che mi reprimevo.

Si scostarono un poco. Poi pensai che forse mi avevano conosciuto

in un’altra vita – quella in cui ero stato poeta.

Forse avevano persino letto le mie poesie, perché a quell’epoca,

in quel tempo vago in cui il nostro ardore non aveva limiti,

cambiavamo stile quasi con la stessa frequenza con cui cadevano giorni nell’anno.

Two Horses

On a warm night in June

I went to thè lake, got on ali fours,

and drank like an animai. Two horses

carne up beside me to drink as well.

This is amazing, I thought, but who will believe it?

The horses eyed me from time to time, snorting

and nodding. I felt thè need to respond, so I snorted, too,

but haltingly, as though not really wanting to be heard.

The horses must have sensed that I was holding back.

They moved slightly away. Then I thought they might have known me

in another life – thè one in which I was a poet.

They might have even read my poems, for back then,

in that shadowy time when our eagerness knew no bounds,

we changed styles almost as often as there were days in thè year.

In Mark Strand, Uomo e cammello, Mondadori, 2007, p. 14-15, traduzione di Damiano Abeni

Sottofondo di Knot Of Place And Time di Jan Garbarek in “In Praise of Dreams”:

http://mp3shake.com/en/jan_garbarek/398241-knot_of_place_and_time_mp3_download_song.html

Lettura di Domenico Pelini:


Il mio incontro con con Mark Strand è arrivato per strati, per momenti successivi. Non proprio di colpo.
Nato nel 1934 a Summerside, nella Prince Edward Island in Canada, cresciuto negli Stati Uniti, vive a New York. 73 anni. A vederlo sembra un attore. Altissimo, bello, «in tutto e per tutto simile a Clint Eastwood», diceva Enzo Siciliano. Anche mia moglie, vedendo la fotografia, ha esclamato: “ … che bello!”.
Quella che racconto, dichiara Strand, è sempre la stessa «vecchia storia»: quella «sui minuti che muoiono e le ore, e gli anni». E anche se tu che mi ascolti sai già di cosa sto parlando (e come potresti non saperlo?), questa è la storia «di me stesso, di te, di tutti».
Dicono di lui:

“Ci sono poeti che hanno il dono raro della semplicità uno di questi è Mark Strand, classe 1934, americano. La semplicità unita alla profondità di sguardo crea una miscela unica. Questa miscela unica costituisce il suo mondo poetico. Un mondo poetico che si nutre della quotidianità, una quotidianità quasi crepuscolare, decadente, anzi in decadenza: il suo universo, a tratti kafkiano come spiega la seconda di copertina di questo pregevole raccolta pubblicata da Minimum Fax, Il futuro non è più quello di una volta, è un universo nel quale la tristezza dei giorni è metodicamente disegnata con una precisione di sguardo e di dettato davvero unici. E nei giorni che scorrono implacabili si delinea una metafisica dell’assenza tutta terrena, immanente” (Mauro Fabi)

“Scenari struggenti di sconsolata felicità, densità ed evanescenza, presenze perdute e morte in vita. Atmosfere romantiche, l’assenza della vita, “fissare il nulla è imparare a memoria / quello in cui noi tutti verremo spazzati”: dinanzi a un simile scenario non possiamo che limitarci a contemplare la sua attività poetica. La capacità dell’autore di sfruttare un immaginario al margine del conscio appare unica,” (Marco Milone)

“Dovessi sintetizzare in un unico aggettivo cosa penso del corpus poetico di Mark Strand, non avrei dubbi: userei il superlativo interessantissimo. Mai, per esempio, mi verrebbe in mente di catalogare una sua poesia nella categoria del bello, con quanto di edonistico – di esteticamente godereccio – a questo termine si fa corrispondere. Piuttosto nella categoria dell’etico: infatti, quelle di Strand sono incursioni coraggiose sul terreno minato dell’esistere, eseguite con lo scandaglio dell’ironia.” (Ciro Bestini)

“la poesia di Strand è una poesia di domande più che di risposte, che non ha il compito di cambiare il mondo né di comunicare nessuna verità teologica, ideologica o etica. Non è una poesia confessionale né sentimentale: l’io lirico sembra addirittura abdicare a se stesso, annullandosi continuamente anche e soprattutto nell’uso prevedibile e canonico di certa lingua poetica: ogni luogo comune della dizione poetica viene sempre accuratamente evitato e la lingua, sorvegliatissima, ne esce essiccata, rastremata. Eppure la situazione umana balza evidente in tutte le sue implicazioni. È una poetica quella di Strand che vuole guardare in faccia la vita e la morte con la “discretion” disillusa e l’acre ironia della tradizione scettica. La poesia di Strand ferma la vita su un palcoscenico silenzioso e ci costringe ad osservarla nella sua nullità, con occhi asciutti.” (Franco Nasi)

DUE CAVALLI1200

… al di là del parco, al di sopra dei campi fumiganti, scivolò dentro il paesaggio un arcobaleno …. , di Vladimir Nabokov, lettura di Domenico Pelini

Al di là del parco, al di sopra dei campi fumigan­ti, scivolò dentro il paesaggio un arcobaleno; i cam­pi finivano sul limitare oscuro e dentellato di un lontano bosco di abeti dove si inarcava una parte dell’arcobaleno, e in quel tratto il bordo della fore­sta scintillava magicamente attraverso il velo iride­scente verde pallido e rosa che lo schermava: una dolcezza e uno splendore tali da ridurre al rango di parenti poveri i colorati riflessi romboidali che il ri­torno del sole aveva proiettato sul pavimento del pa­diglione.
Un attimo dopo cominciava la mia prima poesia. Che cosa la scatenò? Credo di saperlo. In assenza di vento, il semplice peso di una goccia di pioggia che brillava, godendosi il suo parassitico lusso, su una foglia cordata, ne aveva inclinata la punta, e quello che pareva un globulo di mercurio aveva eseguito un improvviso glissando lungo la nervatura centra­le, quindi, ormai spoglia del suo lucente fardello, la foglia, sollevata, si era di nuovo distesa. Foglia, incli­nata, spoglia, sollevata – l’istante che ci volle perché questo accadesse non mi parve tanto una frazione di tempo quanto una fessura nel medesimo, una pulsazione omessa, subito compensata da un pic­chiettio di rime: dico volutamente «picchiettio» perché, quando arrivò una raffica di vento, gli albe­ri si diedero allegramente a gocciolare tutti insieme, in un’imitazione del recente rovescio di pioggia, rozza quanto lo era la strofa che già mormoravo se paragonata al mio brivido di meraviglia nell’istante in cui cuore e foglia erano stati una cosa sola.




Mark Strand, era … era l’inizio di una sedia, tradotta da Damiano Abeni e letta da Mimmo Pelini

Cos’era

I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; la sua azzurrezza, l’ombra che lasciava,
che cadeva, riempiva l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori da se stesso, fuori da qualsiasi idea
di se’ descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto in un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in se’, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo tenero, piccolo vuoto che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e cosi’ sempre,
e sempre perche’, e solo perche’, essendo stato, era…

II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sulla chioma.
Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai piu’ chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne ando’, come doveva, nessun dolore riusciva
a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
dimenticato da lei, la penna che lei lascio’ sul tavolo.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, per giorni. Era quello. Solo quello.

(da Mark Strand: “Blizzard of One” – 1998, traduzione di Damiano Abeni, pubblicata in: L’INIZIO DI UNA SEDIA, a cura di Damiano Abeni, Donzelli editore, 1998, ora in “West of your cities” – a cura di M. Strand e D. Abeni – Minimum fax – Roma 2003)

il testo della poesia è tratto da: http://www.gironi.it/poesia/strand.php

Sandro Penna, Mi nasconda la notte, letta da Mimmo Pelini

Mi nasconda la notte e il dolce vento.
Da casa mia cacciato e a te venuto
mio romantico antico fiume lento.

Guardo il cielo e le nuvole e le luci
degli uomini laggiù così lontani
sempre da me. Ed io non so chi voglio
amare ormai se non il mio dolore.

La luna si nasconde e poi riappare
– lenta vicenda inutilmente mossa
sovra il mio capo stanco di guardare.

Sandro Penna

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