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Testo del pezzo che ho denominato “Breanza”:
Questa terra felice, denominata Breanza, da ‘bre’ che significa fortunato, è tra le più ridenti e verdi della provincia nostra ed è la natural sedia di quelle amplissime e venustissime ville ch”e i maggiori nostri edificarono a loro dimora per l’ozio loro, dopo le urbane contenzioni e li affanni delle politiche invidie: piantandovi d’attorno convenienti ed acconcissime piante, che superstiti sopra la banalità popolano d’uno fantasioso e nobile popolo antichi giardini.
I discendenti de’ vecchi signori intristirono nelle democratiche giostre, nel corso delle quali vennero tra le nuvole de’ molti coriàndoli quasi al tutto disarcionati. Altri infetidirono nel commercio del borbonzola, sorta di odorosissimo e pedagno escremento venato d’un suo borbomiceto verde-azzurro che ne fa ghiotti i deglutitori sua. Sicché le antiche ville, o ne vennero segati appiè i grandissimi ed alti sogni d’alberi, per cavarne legno d’opera e sul terreno edificarvi le scuole di chi non impara, o siffattamente diradarono nella verde piana, da parer pochi e verdi cespi fra le distrette d’un fumoso cantiere; dove comandano i capimastri e i bozzolieri.
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Questa felice Breanza gode di otto generazioni di felicità, di cui voglio dire. Prima è quella che ne’ pozzi neri non accoglie i doni soltanto de’ suoi naturali e gutturali inabitanti,ma quelli anche preziosissimi della signoria che vi va in villa, la di cui qualità è così ricca d’ogni fecondativa sustanzia, che quésta sola cagione basterebbe a implorare da Dio quella prelodata signoria, se l’onnipotente Iddio a nostro sostegno e allegrezza non l’avesse già di per sé procurata. Tu vedi qui la dama e i dami, la ex dama e li ex dami condescendere con caritatevole e dolce guardo e labbro all’eloquio e al commercio de’ cavernicoli, prendere soave informazione de’ ricolti e delle loro patate, o suggerir medicina alle femmine, affaticate ogni dì più da que’ duo mali temibilissimi verso di cui per solito non usano la medicina, che sono la miseria e il mastio. Il mastio le astringe a promulgare la prole, e la miseria a ringhiottir le lacrime, e frenare lo sbadiglio. Ma il sorriso de’ marchesi è di tanto loro conforto, che esse dopo quello sorriso, corrono a uno nuovo figlio, e a un nuovo digiuno. Come vedi, non è piccolo dono che nel salvadanaio tu vi metta non il tuo soldo solo, ma il mio pure, che l’Italia Letteraria me ne consente d’averne uno sì lauto. E così non è felicità poca a questa già così felice Breanza, lo aver ne’ pozzi neri una doppia restituzione delle susine sue, con quella di quelle che la signoria comporta d’altronde, di Bosnia, o California, o Provenza.
La seconda generazione di felicità è nelle mosche, che vi vengono ancor più numerose che i signori, sebbene non ne abbino le insigni qualità e virtù sue. Dal Campanone di Teodolinda Regina alla Ritonda del Cagnola sopr’Inverigo l’agosto e tutto un campanare di campane e uno volo di molteplicissime mosche, delle quali la qual si da ne’ formaggi, la qual nelli frutti, la qual nelli deretani de’ cavalli, la qual nella perniciosa defecazione de’ viventi e dipoi subito nel risotto loro, che è uno buonissimo condito di Lombardia. E quale osa pervenire, per difetto di riverenza qual è propio delle mosche, a mettersi a generare con la compagna in sull’ appisolato naso della precommemorata Signoria. E come, anco in sul naso de’ Grandi di mosche si genera mosche, così tu ne vedi venire delle nuvole sopra la costoletta, ch’è altro buonissimo condito di Lombardia. Donde vedi quanto sia più saggio quel povero villanello che si astiene dal mangiar costoletta, con che si astiene ad un tempo e dal gravame dello stomaco e dalla perenne insidia di queste felicissime mosche.
La terza generazione di felicità di Breanza è le campane, che distendono il loro metallo ne’ cuori di tutti: appena addormito che tu sie, ecco ti risvegliano subite, chiamandoti senza indugio alle lodi del Signore. Queste laudi tu le puoi dire in diversi modi, e cioè nel volgare nostro o anche per chiaro e preciso latino. Il latino compiace a Dio, pur che sie latino d’una sorta che non l’offenda o con la durezza de’ propositi o con la varietà delle comparazioni animalesche. Ed è in Breanza alcuna sorta di preti che fanno sermoni buonissimi e con esempli grandi e propiamente suasivi, su qual tu vogli de’ comandamenti d’Iddio N.S. e de’ peccati ch’Elli ne difende dal fare e che noi, o per pravità inveterata di nostra natura o calore alcuno che si genera ne’ visceri nostri dopo la cena, o per il freddo che vi ha in mancanza di quella, del continovo facciamo, dico questi peccati proibitissimi et anco di venerdì. Uno vizio solo hanno purtuttavia questi cotali preti ch’io dico, ed è che quando li da il farnetico, si missono in la mente che le sua campane non suonino bastante per intronare la gloria di Dio nelli orecchi de’ peccatori e delle peccatrici. Ed è in quello farneticante zelo che fatto il consiglio e persuaso della bisogna, subito imprendono a mutar campane, e sempre le mutano facendole duo volte le priori campane; e come l’onda del suono è nel peso, e il peso è nel volumine, e per duo volte la misura il volumine è otto volte, così d’otto in otto fanno cotali campane che il campanile non l’ha da reggere. E allora o rirsaldano il campanile o rifanno quello: che la prima è migliore che la seconda, che se a rifare bisogna primo tu lo levi dal sópra in giù, rinsaldare bisogna tu lo rifacci dal sotto in su. Ma perché l’appetito del doppio suonare non istia così lungo quanto dura il rifar campane e campanile nella chiesa, ne vengono questi cotali e soavissimi preti con alcuni messeri di Fabbrica, a casa de’ marchesi per l’obolo. Ed è marchesi di duo nature, e cioè quelli che innanzi le ville hanno pan d’oro da mangiare e quelli che dietro le ville hanno croste da ródere. E dar dinaio nelle campane, è per li uni una gloria celeste: e per gli altri è una gloria verde. E quando questi secondi Marchesi hanno figli difettivi che non si contentano a mangiar l’ugne in sopra il latino, ma vogliono pane dopo il latino, così per la gloria delle campane ci sarà l’obolo e per i figli le lacrime, senza speranza.
Ma dirò della quarta generazione di felicità, ch’è in la ditta Breanza. Ed è nello ingresso di detta terra; dove soffia uno treno che ti fa nel viso uno fummo buonissimo, e tu te ne lavi dipoi in uno bacile di tua casa, che con quel fummo che hai preso ne li cigli fai un brodo da otto. Questo treno pertiene a una compagnia, che forse la fece Moisè profeta quando volse lasciare la terra di Egitto e rasciugati li mari andorno per La Magna e la Breanza a Milano a deporvi l’ova della compagnia di questo venusto treno. Dicono altri che li fussero alcuni mercatanti della Belgica a far primi quel treno dove sono officine denominate « La Meuse »; e in uno monumento ch’io vedo eretto in Erba dove detto treno più piffera, vedo ch’è scritto il nome del Senatore Giuseppe Gadda, come di principe del fare quel treno. Ma il mio zio di nobile e onesta memoria fece far quello da mezzo secolo in qua, e se fu allora buono, è oggi buonissimo. Io dico che le ova di Moisè le si dischiusero in una gallina che la fece poi mille polli: e piffete e puf fé te con quel treno tu ne giugni felicemente a Breanza. Puoi pensare che ‘l postremo di que’ treni, con che pervenghi a Erba, si diparta di Milano all’ore di notte, conchiusi li negozi tua, ma tu erri: che a notte si dorme, e quel treno pure. Puoi pensare che se ne venghi, come dicono li Spagnoli, «uno poco liviano, pero livianito livianito». E che no! Che viene cacagio cacagio, quanto e più Biagio, a suo dolce e bell’agio. Fa prima, a venire, messer marchese Checco Pedolzi, detto il Cocco: che vi viene in uno suo calesse, e con il venire in calesse ha servato li duo rognoni tanto sani e suavi, che più sani e più dolci di quelli ha soltanto li piedi.
Dirò ora della quinta generazione di felicità ch’è infitta nella felice Breanza. Et è dessa quell’antiquo e felice modo dell’aucupio che dicesi da noi della bressanella, come che provenghi da quella nobile villa che Druso chiamavala Brixia e noi diciam Bressa. Questo gradevole aucupio è nel paretaio, sovr’alle coste che soprapprendono più nel piano, dove tu vi ti ascondi, dentro le verzure e ‘l bosco di dette costole, e vi stai sufolando con intenzione grande de’ tua nervi, dall’alba a mezzo il mattino. Li augelli purtuttavia non vi vengono, non perché abbino essi alcuna astuzia o una froda siffatta da scansare quello ingegno, che poi così temibilmente li occupa, ma perché non v’ha in Lombardia nissuno augello volante, se non balsamato ne’ musei, oltracché le galline, quando tu queste vogli pur dire che son augelli. Ma «l’uomo è cacciatore» dice uno modo da noi: e tu, che sei vuomo e cacciatore e lombardo, sùfola per l’augello,e così puoi augellare per il sùfolo.
E, lasciando dell’aucupio, dirò che altri animali sono in la terra, che non sono nel cielo. Che v’ha la donnola, ovver bellòla, lo scorpio, la sanamandra, il ghiro, il tasso, l’ariccio detto l’istrice, la volpe, e ‘l più di tutti ghiotto che da noi li cacciatori grandi lo chiaman «légora», et io lo chiamo, dato l’un caso o l’altro, o gatto ovverosìa coniglio. Questa légora la fa mettere li stivali grandi a costoro, che per cacciar légora vuole calzar duo grandi stivali. Fa prendere cadauno un fucile, detto schioppo o doppietta, e tre o quattro cani ansimanti, che «tirano», che «puntano», che fanno ù, ù, ù quanto è lunga la mane; e con mille puntamenti e mille tirature e ù, ù non ne vengono a capo di nissuna légora, avvegnacché siano quaranta schioppi, ottanta stivali e cani centoventi. Solo v’ha centoventi palmi di lingua e dugentoquaranta mantici in soffio che basterebbono a Vulcano d’accender li fochi dello scudo. E v’ha di grandi e gloriosi ritorni, e poco a poco, tra li stivali e i cani, quella légora che di terra lombarda è onninamente fugitiva, se non che la entrò con l’anima dentro nel corpo di messer lo micio gnào gnào, quella légora, dico, tu te la trovi imaginata, stanata, puntata, tirata ed ancisa nei discorsi che ne fanno: e dipoi come di légora si genera légora, quella medemà doventa duo, e le duo quattro, e le quattro increscono fino a quel nòvero che quelli boriando e trionfando, con passi di Marte e stivaloni di Vinciguerra, possono sustenere col nòvero de’ conigli, o de’ gatti, o d’entrambi li generi che faranno cotti la gran festa di Nembrot in nella osteria del suo vico. Tu li senti nel treno, che con la légora e con il cane e con la pinna e con il pelo e col punta e col tira, già ti vincono il soffiare del pìffete pàffete. Tu li senti dentro cucina del trattore, urlare circa la sua imaginata légora e dirne grandissime laudi, e dipingerla così presta, così scaltra, così feroce, che quasi ella li avrebbe mangiati, se elli non erano quei virtuosi che sono. Ma incontra a loro neppur potè quella légora, benché légora la fusse al certo: che incontra a uomini così fatti, con tanto stivale nel suo pie, gli è d’uopo alla légora che infine dopo una infinita corsa la si persuada daddovero esser légora se pure al principio la fussi buon’anima del gatto, ch’era fuggito alla ciavatta di monna Perpetua.
Ed è pure, in questa generazione di felicità, una terza sottospezie, dopo l’aria e la terra: e cioè dopo lo star a sufolare nell’aucupio e il circuire nella légora. E la è questa propiamente uno stare, come l’aucupio, ma ti bisogna qui tutto il contrario che sufolare: che lo animale a che tu intendi qui non vuoi sùfolo, ma uno vermicino minimo di che si ciba, tanta è la varietà delli appetiti dei detti animali, ch’è come quella dell’uomini, che qual ciba il vermine e qual ciba lo sùfolo. Dico che questo animale non è se non il pesce, la di cui nazione è più propia nella marina, ma quando il suo regno nativo vi vengon soverchio, o è il regno troppo salso per chi non ami salsedine, vengono simili pesci a far l’ova sua in sui fiumi e di questi nei laghi. Così v’ha pesci anco nei lachi di Breanza che son cinque, e cioè l’Eupili, il laco di Oggiono, che può nelle sciutte divenir duo; e i lachi di Alserio, Segrino e Montorfano. Tu non vi peschi però né cavedoni, né trote, né anguille, né rombi, né scorfani, né naselli; e neppur quelli pesci tenche, o lucci, o lavarelli, né agoni (Corno), che i trisavoli nostri, di memoria santa, stati cent’anni in sui detti laghi, vi pescarono per la festa del Buonaparte dopo essersi lasciati pescare essi col vermicino trino, che ebbe il capo di libertà, il mezzo di egualità, e la coda di fraternità. Tu non vi peschi altro pesce che i gobbetti, o gobitt, il di cui seme fu immesso ne’ detti laghi dall’alta provvidenza di chi lo importò non so se d’America o d’Affrica o d’Oceania; che quella materia centuplicante, ch’è il seme del pesce, è bene venga dal di fuori a migliorare il di dentro. Questi gobbi hanno duo virtù grandi, che li fanno principi e civi soli delle nostrane lacustri città. Prima virtù è quella ch’essi mangiano tutti li altri infanti pesci (che nissun pesce è fante), li quali per esser più dolci e men gobbi, non hanno possa all’incontro. Seconda è ch’elli sono tanto suavi nel fritto, che men dolce non è né l’assenzio, né il fiele. Non so qual cattedra né quale ambulanza li suggerì per suo profitto a’ Lombardi, correndo gli anni di nostro Signore da 1900 a 1910. Ma la provvidenza fu certa, che, con tanta dolcezza di detti pesci gobbi, ogni villano d’Eupili ama più tosto pescar carote di pentola, che uno viperone fuor dal laco.
E v’ha una felicità sesta, ch’è uno arbore pungentissimo, ed è la robinia. Questa robinia, sopra a la terra lombarda, è più feconda che non le mosche sopra al risotto o i pesci gobbi in Eupili. Ignota in antico ai maggiori, uno grande scrittor nostro, che fece scritture assai buone e castissime, e compiacevasi a un tempo medesimo in nell’agricoltura, dicono l’avesse fatta venir d’Oceania. Ah! quanto amerei che il detto scrittore non avesse ad aver fatto quest’opera, ch’è la pessima sua: egli propagò la robinia come nessun santo apostolo ha mai propagato la Fede di N.S. In quella terra che tutta la ricopriva il folto e sano popolo delli abeti, e la mormorante abetaia, nel vento, pareva dare agli umani il suspiro e la resina, egli vi fece venire questo arbore nuovo, ch’è a quelli nobilissimi come uno signor nuovo a uno vecchio signore. Neppure li virtuosi discepoli di Nembrot vi andrebbono a cercar la légora con li stivali, dentro cotali spine della robinia. Ma la robinia cresce in tre anni quanto l’abete in trenta: più celere che la zucca dell’Ariosto salita in sul pero, da notte a mattina, e va in passo con le voglie del celere tempo; nel quale si sente che tutto ciò che è materia si muove così celermente, che messer domine Giove, se l’ fusse oggi qua e tramutatosi in toro, non arriverebbe a ingredire nella ritrosa vacca Europa; e che detta vacca al vederlo già la si sarebbe ritramutata in una comune femina, con grande berleffo del detto Giove. Ela Pasifae ch’era per contro una femina invereconda di quelli rimotissimi secoli l’avrebbe potuto con questo gran toro venire in quel suo nefandissimo connubio, sendoli mancata l’Europa in sul meglio.
Ed è settima felicità di Breanza che il vino vi viene dal colle, e la grandine vi arriva dal cielo. Tu metti l’uve ne’ filari, | poi le pigi e fai vino crodello: le torchi e ne spiccia il torchiato. Ogni cosa propiamente vi arriva da quella parte che arrivar; suole e degge: così di Milano il piffete puffete, e la reverendissima signoria; del campanile il suono delle campanone,
come lustrale acqua si spande secondo disse in una buonissima e serena poetica l’abate Giacomo Zanella; ch’era un animo alto e buono: e le campane ti mettono in corpo il giuraddìo, le mosche d’ogni dove vi vengono, la légora in ogni dove la corre e fino dentro alle spoglie delli gnàvoli, gnàvoli, il di cui principe è il grande Gnào-Gnào.
… Il vino ecc.
Ed è ottava felicità di Breanza che potrà murare un dì marmora publiche, inscritte al mio nome con dire:
Qui sul colle ch’è aperto al cielo e ridente
Non si accomunò con i vivi
II Marchese della Nobile Miseria.
Da: Carlo Emilio Gadda, Racconti dispersi, Viaggi di Gulliver, cioè del Gaddus, in Romanzi e racconti II, a cura di Dante Isella, Garzanti, Milano 1989, pagg. 960-966
Indispensabile per collocare sul piano letterario e su quello biografico questo testo consiglio questa colta analisi:
Mario Porro (cur.), Gadda e la Brianza, nei luoghi della “cognizione del dolore”, Edizioni Medusa, Milano 2007, p. 226
Il racconto che inizia con la frase “Il signor Francesco Pellegatta credeva in Dio” è stato pubblicato qui:
Carlo Emilio Gadda, Villa in Brianza, a cura di Giorgio Pinotti, Adelphi, 2007, p. 70