G sta per giardino, ma quale giardino non so. Forse l’angolo di un certo particolare giardino; forse un giardino in cui c’è una sedia in attesa di qualcuno che vi si sieda. Non è un giardino astratto, non un giardino dell’Eden, né un giardino infernale come Bomarzo, né ordinato come il Doria Pamphili, a Roma, né trasandato come il giardino di Boboli a Firenze. Non é un giardinetto dietro casa. Deve essere quel che penso quando dico “Giardino” tra me e me: uno spazio verde che è contenuto da e che conterrà un po’ dell’azione della poesia, o nemmeno un po’. Forse vi sono alberi, forse le foglie sono cadute. Potrebbe esservi la neve, e dei passeri potrebbero essersi raggruppati attorno alla base del frassino che vi cresce. Non so. Ci vorrà parecchio prima che lo sappia.
Categoria: Strand Mark
Mark Strand, LA FINE, in Tutte le poesie, Mondadori, collana Oscar Baobab, 2019
La fine
Non ogni uomo sa cosa canterà alla fine,
guardando il molo mentre la nave salpa, o cosa sentirà
quando sarà preso dal rombo del mare, immobile, là alla fine,
o cosa spererà una volta capito che non tornerà più.
Quando il tempo è passato di potare la rosa, coccolare il gatto,
quando il tramonto che infiamma il prato e la luna piena che lo gela
non compariranno più, non ogni uomo sa cosa scoprirà al loro posto.
Quando il peso del passato non si appoggia più a nulla, e il cielo
non è più che luce ricordata, e le storie di cirro
e cumulo giungono alla fine, e tutti gli uccelli stanno sospesi in volo,
non ogni uomo sa cosa lo attende, o cosa canterà
quando la nave su cui si trova scivola nel buio, là alla fine.
Quando parlo con la finestra …, Mark Strand
Quando parlo con la finestra
dico che tutto
è tutto
MARK STRAND
Mark Strand, RESPIRO, letta da Domenico Pelini, da ‘L’uomo che cammina un passo avanti al buio’, Poesie 1964-2006, a cura di Damiano Abeni
Il nuovo manuale di poesia – Mark Strand
Povero nord – Mark Strand
L’INIZIO DI UNA SEDIA, da Cos’era, di Mark Strand, tradotta da Damiano Abeni, Donzelli Poesia, 1999
Cos’era
da “Blizzard of one”
I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; la sua azzurrezza, l’ombra che lasciava,
che cadeva, riempiva l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori da se stesso, fuori da qualsiasi idea
di se’ descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto in un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in se’, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo tenero, piccolo vuoto che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e cosi’ sempre,
e sempre perche’, e solo perche’, essendo stato, era…
II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di…
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Come è – Mark Strand
Sto a letto.
Mi rigiro tutta notte
nel freddo indisturbato abisso
delle lenzuola senza dormire.
Il mio vicino cammina per la sua stanza,
indossa la maschera
lucente di un falco dal grande becco.
Sta alla finestra. Una piuma viola
sale dalla sommità del suo elmo.
La luce della luna
si versa come latte su di lui e il vento sciacqua le bianche
coppe vitree dei suoi occhi.
Con l’elmo in un sacchetto della spesa
siede nel parco, sventola una bandierina americana.
Non lo si sente quando si sposta
dietro alle siepi e alle piante,
sempre sui confini consunti
del paese, e punta una pistola a qualcuno come me. Mi accuccio
sotto il tavolo della cucina, e mi dico
sono un cane, chi ucciderebbe mai un cane?
La moglie del vicino torna a casa.
Entra in salotto,
si spoglia, la chioma le ricade sulla schiena.
Pare che lei guadi
lunghi fiumi placidi d’ombra.
Ha le piante dei piedi nere.
Bacia il marito sul collo
e gli infila le mani nei calzoni.
I miei vicini ballano.
Rotolano sul pavimento, lui le mette la lingua
nell’orecchio, i suoi polmoni
esalano il fetore della broda e del clima dell’inferno.
Per strada c’è gente che si sdraia
ginocchia all’aria, con occhi
colmi di lacrime, ceneri
che penetrano nelle orecchie.
I vestiti gli vengono strappati
di dosso. Hanno le facce estenuate.
Cavalieri gli galoppano intorno, spiegando perché
dovrebbero morire.
La moglie del vicino mi chiama, la bocca schiacciata
contro il muro alle spalle del mio letto.
Dice: «Mio marito è morto».
Io mi giro sul fianco,
sperando che non abbia mentito.
Le pareti e il soffitto di camera mia sono grigi−
il colore della luna visto dalle finestre di un lavasecco.
Chiudo gli occhi.
Mi vedo a galla
sul mar morto del mio letto, risucchiato via,
e chiedo aiuto, ma l’urlo vago
mi si strozza in gola.
Mi vedo nel parco
a cavallo, circondato dal buio,
che conduco gli eserciti di pace.
Le zampe di ferro del cavallo non si flettono.
Lascio le redini. Dove finiranno i disordini?
Flotte di taxi si fermano
nella nebbia, i passeggeri
si addormentano. Della benzina cola
da un tubo di scappamento tricolore.
Chiudendo a chiave le porte,
le persone che escono dagli uffici si stringono l’un l’altra,
raccontando sempre daccapo la stessa storia.
Tutti quelli che si sono venduti vogliono ricomprarsi.
Non si fa nulla. La sera
consuma le loro membra
come una carestia.
Tutto si offusca.
Il futuro non è più quello di una volta.
Le tombe sono pronte. I morti
erediteranno i morti.
Mark Strand
(Traduzione di Damiano Abeni)
da “Il futuro non è più quello di una volta”, minimum fax, Roma, 2006
∗∗∗
Mark Strand
La vita tranquilla
Sei in piedi alla finestra.
C’è una nube di vetro a forma di cuore.
I sospiri del vento sono caverne in ciò che dici.
Sei il fantasma sull’albero di fuori.
La strada è muta.
Il clima, come il domani, come la tua vita,
è in parte qui, in parte per aria.
Non puoi farci niente.
La vita tranquilla non dà preavvisi.
Consuma i climi dello sconforto
e compare, a piedi, non riconosciuta, senza offrire nulla,
e tu sei lì.
da L’uomo che cammina un passo avanti al buio (Mondadori, 2011), trad. it. D. Abeni
Mark Strand, COS’ERA (What It Was). Lettura di Domenco Pelini
Cos’era
I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; la sua azzurrezza, l’ombra che lasciava,
che cadeva, riempiva l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori da se stesso, fuori da qualsiasi idea
di se’ descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto in un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in se’, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo tenero, piccolo vuoto che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e cosi’ sempre,
e sempre perche’, e solo perche’, essendo stato, era…
II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sulla chioma.
Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai piu’ chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne ando’, come doveva, nessun dolore riusciva
a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
dimenticato da lei, la penna che lei lascio’ sul tavolo.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, per giorni. Era quello. Solo quello.
(da Mark Strand: “Blizzard of One” – 1998, traduzione di Damiano Abeni, ora in “West of your cities” – a cura di M. Strand e D. Abeni – Minimum fax – Roma 2003)
La vita tranquilla – Mark Strand
La fine, di MARK STRAND
La collina – Mark Strand
La storia delle nostre vite – Mark Strand
Cos’era – Mark Strand
Mare nero – Mark Strand
MARK STRAND, Preservare la compiutezza delle cose, traduzione di Damiano Abeni, in L’inizio di una sedia, Donzelli editore, 1999, pag. 101
In un prato
io sono l’assenza
del prato.
E’
sempre così.
Ovunque sia
sono ciò che manca.
Quando cammino
fendo l’aria
e sempre
l’aria rifluisce
a colmare gli spazi
in cui è stato il mio corpo.
Tutti abbiamo motivi
per muoverci.
Io mi muovo
per preservare la compiutezza delle cose.
I am the absence
of field.
This is
always the case.
Wherever I am
I am what is missing.
When I walk
I part the air
and always
the air moves in
to fill the spaces
where my body’s been.
We all have reasons
for moving.
I move
to keep things whole.
Mappe nere – Mark Strand
Tenere insieme le cose – Mark Strand
È vero, come ha detto qualcuno… – Mark Strand
MARK STRAND, Cos’era? … era l’inizio di una sedia, tradotta da Damiano Abeni e letta da Mimmo Pelini
Cos’era
I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; la sua azzurrezza, l’ombra che lasciava,
che cadeva, riempiva l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori da se stesso, fuori da qualsiasi idea
di se’ descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto in un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in se’, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo tenero, piccolo vuoto che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e cosi’ sempre,
e sempre perche’, e solo perche’, essendo stato, era…
II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sulla chioma.
Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai piu’ chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne ando’, come doveva, nessun dolore riusciva
a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
dimenticato da lei, la penna che lei lascio’ sul tavolo.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, per giorni. Era quello. Solo quello.
(da Mark Strand: “Blizzard of One” – 1998, traduzione di Damiano Abeni, ora in “West of your cities” – a cura di M. Strand e D. Abeni – Minimum fax – Roma 2003)
Mark Strand, LA FINE | da Interno poesia
Non ogni uomo sa cosa canterà alla fine,
guardando il molo mentre la nave salpa, o cosa sentirà
quando sarà preso dal rombo del mare, immobile, là alla fine,
o cosa spererà una volta capito che non tornerà più.
Quando il tempo è passato di potare la rosa, coccolare il gatto,
quando il tramonto che infiamma il prato e la luna piena che lo gela
non compariranno più, non ogni uomo sa cosa scoprirà al loro posto.
Quando il peso del passato non si appoggia più a nulla, e il cielo
non è più che luce ricordata, e le storie di cirro
e cumulo giungono alla fine, e tutti gli uccelli stanno sospesi in volo,
non ogni uomo sa cosa lo attende, o cosa canterà
quando la nave su cui si trova scivola nel buio, là alla fine.
DUE CAVALLI tengono assieme Mark Strand, Jan Garbarek, Giorgio De Chirico e Domenico Pelini
Mark Strand, uno sguardo poetico sulla “quotinianità crepuscolare”. Ma anche un potente evocatore di immagini potenti, nitide, fortissime, come qui:
Due cavalli
Una calda sera di giugno
scesi al lago, mi misi carponi
e mi abbeverai come un animale. Due cavalli
mi si affiancarono, per abbeverarsi anch’essi.
È stupefacente, pensai, ma chi lo crederà?
I cavalli mi scrutavano di tanto in tanto, sbuffando
e scrollando la testa. Sentii il bisogno di rispondere, così anch’io
sbuffai, ma esitando, come se in realtà non volessi essere udito.
I cavalli dovevano avere percepito che mi reprimevo.
Si scostarono un poco. Poi pensai che forse mi avevano conosciuto
in un’altra vita – quella in cui ero stato poeta.
Forse avevano persino letto le mie poesie, perché a quell’epoca,
in quel tempo vago in cui il nostro ardore non aveva limiti,
cambiavamo stile quasi con la stessa frequenza con cui cadevano giorni nell’anno.
Two Horses
On a warm night in June
I went to thè lake, got on ali fours,
and drank like an animai. Two horses
carne up beside me to drink as well.
This is amazing, I thought, but who will believe it?
The horses eyed me from time to time, snorting
and nodding. I felt thè need to respond, so I snorted, too,
but haltingly, as though not really wanting to be heard.
The horses must have sensed that I was holding back.
They moved slightly away. Then I thought they might have known me
in another life – thè one in which I was a poet.
They might have even read my poems, for back then,
in that shadowy time when our eagerness knew no bounds,
we changed styles almost as often as there were days in thè year.
In Mark Strand, Uomo e cammello, Mondadori, 2007, p. 14-15, traduzione di Damiano Abeni
Sottofondo di Knot Of Place And Time di Jan Garbarek in “In Praise of Dreams”
Lettura di Domenico Pelini:
L’impatto con Mark Strand è arrivato per strati, per momenti successivi. Non proprio di colpo.
Nato nel 1934 a Summerside, nella Prince Edward Island in Canada, cresciuto negli Stati Uniti, vive a New York. 73 anni. A vederlo sembra un attore. Altissimo, bello, «in tutto e per tutto simile a Clint Eastwood», diceva Enzo Siciliano. Anche mia moglie, vedendo la fotografia, ha esclamato: “ … che bello!”.
Quella che racconto, dichiara Strand, è sempre la stessa «vecchia storia»: quella «sui minuti che muoiono e le ore, e gli anni». E anche se tu che mi ascolti sai già di cosa sto parlando (e come potresti non saperlo?), questa è la storia «di me stesso, di te, di tutti».
Dicono di lui:
“Ci sono poeti che hanno il dono raro della semplicità uno di questi è Mark Strand, classe 1934, americano. La semplicità unita alla profondità di sguardo crea una miscela unica. Questa miscela unica costituisce il suo mondo poetico. Un mondo poetico che si nutre della quotidianità, una quotidianità quasi crepuscolare, decadente, anzi in decadenza: il suo universo, a tratti kafkiano come spiega la seconda di copertina di questo pregevole raccolta pubblicata da Minimum Fax, Il futuro non è più quello di una volta, è un universo nel quale la tristezza dei giorni è metodicamente disegnata con una precisione di sguardo e di dettato davvero unici. E nei giorni che scorrono implacabili si delinea una metafisica dell’assenza tutta terrena, immanente” (Mauro Fabi)
“Scenari struggenti di sconsolata felicità, densità ed evanescenza, presenze perdute e morte in vita. Atmosfere romantiche, l’assenza della vita, “fissare il nulla è imparare a memoria / quello in cui noi tutti verremo spazzati”: dinanzi a un simile scenario non possiamo che limitarci a contemplare la sua attività poetica. La capacità dell’autore di sfruttare un immaginario al margine del conscio appare unica,” (Marco Milone)
“Dovessi sintetizzare in un unico aggettivo cosa penso del corpus poetico di Mark Strand, non avrei dubbi: userei il superlativo interessantissimo. Mai, per esempio, mi verrebbe in mente di catalogare una sua poesia nella categoria del bello, con quanto di edonistico – di esteticamente godereccio – a questo termine si fa corrispondere. Piuttosto nella categoria dell’etico: infatti, quelle di Strand sono incursioni coraggiose sul terreno minato dell’esistere, eseguite con lo scandaglio dell’ironia.” (Ciro Bestini)
“la poesia di Strand è una poesia di domande più che di risposte, che non ha il compito di cambiare il mondo né di comunicare nessuna verità teologica, ideologica o etica. Non è una poesia confessionale né sentimentale: l’io lirico sembra addirittura abdicare a se stesso, annullandosi continuamente anche e soprattutto nell’uso prevedibile e canonico di certa lingua poetica: ogni luogo comune della dizione poetica viene sempre accuratamente evitato e la lingua, sorvegliatissima, ne esce essiccata, rastremata. Eppure la situazione umana balza evidente in tutte le sue implicazioni. È una poetica quella di Strand che vuole guardare in faccia la vita e la morte con la “discretion” disillusa e l’acre ironia della tradizione scettica. La poesia di Strand ferma la vita su un palcoscenico silenzioso e ci costringe ad osservarla nella sua nullità, con occhi asciutti.” (Franco Nasi)
Mark Strand: … Poi, adagio, il lago si schiuse come un occhio bianco e lui si ritrovò bambino …
Si chinò sul foglio
e a lungo non vide niente.
Poi, adagio, il lago si schiuse
come un occhio bianco
e lui si ritrovò bambino,
a giocare con i cugini,
e c’era un prato
e un filare di piante
che scendeva fino all’acqua.
Era un caldo pomeriggio d’agosto
e una festa
stava per iniziare.
Si chinò sul foglio
e scrisse:
…
segue qui Mark Strand/La denarrazione | Rablè – scuola di scrittura creativa.
Mark Strand sul libro IL MONUMENTO, Fandango Libri
DUE CAVALLI tengono assieme Mark Strand, Jan Garbarek, Giorgio De Chirico e Domenico Pelini
Mark Strand, uno sguardo poetico sulla “quotinianità crepuscolare”. Ma anche un potente evocatore di immagini potenti, nitide, fortissime, come qui:
Due cavalli
Una calda sera di giugno
scesi al lago, mi misi carponi
e mi abbeverai come un animale. Due cavalli
mi si affiancarono, per abbeverarsi anch’essi.
È stupefacente, pensai, ma chi lo crederà?
I cavalli mi scrutavano di tanto in tanto, sbuffando
e scrollando la testa. Sentii il bisogno di rispondere, così anch’io
sbuffai, ma esitando, come se in realtà non volessi essere udito.
I cavalli dovevano avere percepito che mi reprimevo.
Si scostarono un poco. Poi pensai che forse mi avevano conosciuto
in un’altra vita – quella in cui ero stato poeta.
Forse avevano persino letto le mie poesie, perché a quell’epoca,
in quel tempo vago in cui il nostro ardore non aveva limiti,
cambiavamo stile quasi con la stessa frequenza con cui cadevano giorni nell’anno.
Two Horses
On a warm night in June
I went to thè lake, got on ali fours,
and drank like an animai. Two horses
carne up beside me to drink as well.
This is amazing, I thought, but who will believe it?
The horses eyed me from time to time, snorting
and nodding. I felt thè need to respond, so I snorted, too,
but haltingly, as though not really wanting to be heard.
The horses must have sensed that I was holding back.
They moved slightly away. Then I thought they might have known me
in another life – thè one in which I was a poet.
They might have even read my poems, for back then,
in that shadowy time when our eagerness knew no bounds,
we changed styles almost as often as there were days in thè year.
In Mark Strand, Uomo e cammello, Mondadori, 2007, p. 14-15, traduzione di Damiano Abeni
Sottofondo di Knot Of Place And Time di Jan Garbarek in “In Praise of Dreams”:
http://mp3shake.com/en/jan_garbarek/398241-knot_of_place_and_time_mp3_download_song.html
Lettura di Domenico Pelini:
Il mio incontro con con Mark Strand è arrivato per strati, per momenti successivi. Non proprio di colpo.
Nato nel 1934 a Summerside, nella Prince Edward Island in Canada, cresciuto negli Stati Uniti, vive a New York. 73 anni. A vederlo sembra un attore. Altissimo, bello, «in tutto e per tutto simile a Clint Eastwood», diceva Enzo Siciliano. Anche mia moglie, vedendo la fotografia, ha esclamato: “ … che bello!”.
Quella che racconto, dichiara Strand, è sempre la stessa «vecchia storia»: quella «sui minuti che muoiono e le ore, e gli anni». E anche se tu che mi ascolti sai già di cosa sto parlando (e come potresti non saperlo?), questa è la storia «di me stesso, di te, di tutti».
Dicono di lui:
“Ci sono poeti che hanno il dono raro della semplicità uno di questi è Mark Strand, classe 1934, americano. La semplicità unita alla profondità di sguardo crea una miscela unica. Questa miscela unica costituisce il suo mondo poetico. Un mondo poetico che si nutre della quotidianità, una quotidianità quasi crepuscolare, decadente, anzi in decadenza: il suo universo, a tratti kafkiano come spiega la seconda di copertina di questo pregevole raccolta pubblicata da Minimum Fax, Il futuro non è più quello di una volta, è un universo nel quale la tristezza dei giorni è metodicamente disegnata con una precisione di sguardo e di dettato davvero unici. E nei giorni che scorrono implacabili si delinea una metafisica dell’assenza tutta terrena, immanente” (Mauro Fabi)
“Scenari struggenti di sconsolata felicità, densità ed evanescenza, presenze perdute e morte in vita. Atmosfere romantiche, l’assenza della vita, “fissare il nulla è imparare a memoria / quello in cui noi tutti verremo spazzati”: dinanzi a un simile scenario non possiamo che limitarci a contemplare la sua attività poetica. La capacità dell’autore di sfruttare un immaginario al margine del conscio appare unica,” (Marco Milone)
“Dovessi sintetizzare in un unico aggettivo cosa penso del corpus poetico di Mark Strand, non avrei dubbi: userei il superlativo interessantissimo. Mai, per esempio, mi verrebbe in mente di catalogare una sua poesia nella categoria del bello, con quanto di edonistico – di esteticamente godereccio – a questo termine si fa corrispondere. Piuttosto nella categoria dell’etico: infatti, quelle di Strand sono incursioni coraggiose sul terreno minato dell’esistere, eseguite con lo scandaglio dell’ironia.” (Ciro Bestini)
“la poesia di Strand è una poesia di domande più che di risposte, che non ha il compito di cambiare il mondo né di comunicare nessuna verità teologica, ideologica o etica. Non è una poesia confessionale né sentimentale: l’io lirico sembra addirittura abdicare a se stesso, annullandosi continuamente anche e soprattutto nell’uso prevedibile e canonico di certa lingua poetica: ogni luogo comune della dizione poetica viene sempre accuratamente evitato e la lingua, sorvegliatissima, ne esce essiccata, rastremata. Eppure la situazione umana balza evidente in tutte le sue implicazioni. È una poetica quella di Strand che vuole guardare in faccia la vita e la morte con la “discretion” disillusa e l’acre ironia della tradizione scettica. La poesia di Strand ferma la vita su un palcoscenico silenzioso e ci costringe ad osservarla nella sua nullità, con occhi asciutti.” (Franco Nasi)
Mark Strand, La luce che viene, lettura di Domenico Pelini
Mark Strand letto da Domenico Pelini
Mark Strand, La tua ombra, letta da Domenico Pelini
categorie: destino mark strand
Mark Strand, La tua ombra, letta da Domenico Pelini | Tracce e Sentieri
Mark Strand, Il tuo morire, letta da Domenico Pelini | Tracce e Sentieri
Mark Strand, era … era l’inizio di una sedia, tradotta da Damiano Abeni e letta da Mimmo Pelini
Cos’era
I
Era impossibile da immaginare, impossibile
da non immaginare; la sua azzurrezza, l’ombra che lasciava,
che cadeva, riempiva l’oscurità del proprio freddo,
il suo freddo che cadeva fuori da se stesso, fuori da qualsiasi idea
di se’ descrivesse nel cadere; un qualcosa, una minuzia,
una macchia, un punto, un punto in un punto, un abisso infinito
di minuzia; una canzone, ma meno di una canzone, qualcosa che
affoga in se’, qualcosa che va, un’alluvione di suono, ma meno
di un suono; la sua fine, il suo vuoto,
il suo tenero, piccolo vuoto che colma la sua eco, e cade,
e si alza, inavvertito, e cade ancora, e cosi’ sempre,
e sempre perche’, e solo perche’, essendo stato, era…
II
Era l’inizio di una sedia;
era il divano grigio; era i muri,
il giardino, la strada di ghiaia; era il modo in cui
i ruderi di luna le crollavano sulla chioma.
Era quello, ed era altro ancora; era il vento che azzannava
gli alberi; era la congerie confusa di nubi, la bava
di stelle sulla riva. Era l’ora che pareva dire
che se sapevi in che punto esatto del tempo si era, non avresti
mai piu’ chiesto nulla. Era quello. Senz’altro era quello.
Era anche l’evento mai avvenuto – un momento tanto pieno
che quando se ne ando’, come doveva, nessun dolore riusciva
a contenerlo. Era la stanza che pareva la stessa
dopo tanti anni. Era quello. Era il cappello
dimenticato da lei, la penna che lei lascio’ sul tavolo.
Era il sole sulla mia mano. Era il caldo del sole. Era come
sedevo, come attendevo per ore, per giorni. Era quello. Solo quello.
(da Mark Strand: “Blizzard of One” – 1998, traduzione di Damiano Abeni, pubblicata in: L’INIZIO DI UNA SEDIA, a cura di Damiano Abeni, Donzelli editore, 1998, ora in “West of your cities” – a cura di M. Strand e D. Abeni – Minimum fax – Roma 2003)
il testo della poesia è tratto da: http://www.gironi.it/poesia/strand.php
Video-Intervista a Mark Strand, di Luigia Sorrentino
Mark Strand, L’unica canzone
L’unica canzone (Mark Strand)
Il massimo per me è stare tutto il giorno
come una pera cotta su una sedia
e giacere tutta notte
come un sasso nel mio letto.
Quando arriva da mangiare
apro la bocca.
Quando arriva il sonno
chiudo gli occhi.
Il mio corpo intona
un’unica canzone;
il vento vortica
grigio tra le mie braccia.
I fiori sbocciano.
I fiori muoiono.
Di più è meno.
Io bramo di più.
Mark Strand: L’uomo che cammina un passo avanti al buio, di Giorgio Linguaglossa, Lietocolle
….
Strand ama lo stile dichiarativo, la proposizione dichiarativo-comunicativa. Va per la semplicità assoluta (che è cosa ben diversa dal semplicismo!) verso le cose, usa verbi elementari (ma efficaci) coniugati nelle declinazioni che la sintassi richiede e reclama, non ama affatto giustapporre il proprio «io» (con tutte le sue intermittenze) al di sopra, o al di sotto, o di lato alle tematiche prese ad oggetto. Strand ama gli oggetti, ama le cose e, di conseguenza, va per la linea più diretta verso di essi, non tentenna mai, non diverge, non arzigogola, non bara (come molti poeti italiani contemporanei invece fanno) invertendo le immagini, i verbi e le relazioni causali tra le azioni e le cose. In breve, direi che qui c’è da imparare a iosa. E così, consiglio la lettura della poesia di Strand a tutti i poeti che vogliano migliorare le proprie prestazioni letterarie e a tutti i lettori intelligenti.
Sorprende, in questa poesia, la capacità che ha il poeta americano di creare soluzioni impreviste agli sviluppi imprevisti delle situazioni tematiche. La lezione di Wallace Stevens è stata ben digerita, così come anche quella di Witman. Sono i luoghi, nella loro concretezza e precisione, il loro essere qui ed ora, a rivelarci i loro segreti reconditi. I luoghi in quanto attraversati dall’esistenza, gli oggetti in quanto attraversati dalla temporalità, la temporalità in quanto intersecata e attraversata dal tempo. Inoltre, tutti i luoghi rimandano, all’indietro, al luogo originale, al luogo-metafora e metafisico, al luogo «simbolico» È questa la linea di demarcazione tra la scrittura poetica di Strand e i minimalisti italiani, i quali sconoscono e disconoscono del tutto la questione «simbolica». Di rara ed icastica precisione sono gli «oggetti», tutti nitidamente delimitati e come scolpiti e circoscritti nella quotidianità (e anche banalità) del loro aprirsi. Il traduttore a volte genericizza in italiano quello che invece nella lingua inglese è plastico, chiaro e preciso, ma non è una pecca del traduttore, hanno qui un peso preponderante le diverse caratteristiche delle due lingue, la diversa misura di plasticità delle espressioni idiomatiche.
Una lezione da prendere da Strand è la sua assoluta fedeltà alle parole e, di conseguenza, alle cose, l’assoluto rispetto del loro valore lessicale e metaforico della lingua.
Il poeta americano ha una andatura ritmico-sintattica controllata, evita ogni eccesso linguistico e tonale, le presunte ustioni del cuore, i bruciori, le ferite, i languori etc… non persegue una direzione ma, nella sua poesia, tutte le direzionisono possibili, contemporaneamente; la sua poesia abita, sì, i contorni fissi, nitidi degli oggetti ma è sempre problematica, aperta alla problematicità del «reale» e alla problematicità del discorso poetico… la reiterazione, la ripresa e l’anafora sono gli espedienti poetici di base della sua poesia, che rimane, sostanzialmente, una operazione «ottica», che deriva dall’occhio che guarda (non un occhio contemplativo ma un congegno ottico che insegue gli oggetti). Poesia che è attratta dagli oggetti come un magnete, priva di elettricità ma che è interamente attraversata dalle micro fratture telluriche degli oggetti, carica di esistenza diffusa e di riflessione sull’esistenza.
….
da: LietoColle: Mark Strand: L’uomo che cammina un passo avanti al buio.
Video-Intervista a Mark Strand : Poesia
Mark Strand, in assoluto una delle voci più rilevanti della poesia contemporanea, ha appena pubblicato in Italia per gli Oscar Mondadori una raccolta di tutte le poesie: L’uomo che cammina un passo avanti al buio, Oscar Mondadori, 2011 (euro 15,00).
In questa video-intervista realizzata da Luigia Sorrentino Mark Strand, premio Pulitzer per la poesia nel 1999, rivela un’inedita lettura di tutta la sua opera poetica.
vai a: Video-Intervista a Mark Strand : Poesia
Intervista di Luigia Sorrentino
Accademia Americana di Roma
18 marzo 2011
Siamo qui per parlare della sua opera di poeta, l’opera di un poeta definito ‘della montagna e del mare’, con tratti peculiari che lo differenziano da altri poeti suoi contemporanei statunitensi. Innanzitutto ci dica una cosa… Lei come altri scrittori, si era avviato alla pittura, scoprendo poi, di volersi dedicare totalmente alla scrittura… E’ successo a Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura del 2006, ed è accaduto a lei che nel 1957, a 24 anni, ha deciso di vivere da poeta. Ci racconta com’è andata?
“Ho sempre letto poesie, sebbene fossi un pittore, ero uno studente d’arte, non ero un pittore vero e proprio, bensì uno studente-pittore, ma, in un certo modo, l’essere uno studente d’arte mi aveva preparato per la scrittura, perché avevo il senso della formalità dell’impresa: prima davo forma alle immagini e in un secondo momento davo forma alla poesia. Deve esserci molta armonia tra la prima linea, quella centrale e quella alla fine, proprio come in un quadro, tutti gli elementi si uniscono. Ho rinunciato alla pittura perché ho capito che non ero un buon pittore, dopo mi sono dedicato alla poesia, ma non ero un bravo poeta. Ma ho sentito che avevo la possibilità di migliorare come poeta. Ci sono stati anche altri motivi. Nella mia famiglia i libri erano molto importanti, mi sono spesso sentito inadempiente come lettore e inadeguato come scrittore. E improvvisamente ho sentito il bisogno di compensare questa inadempienze e questa inedeguatezza scrivendo. E’ iniziato come un modo per rispondere ai desideri e alle speranze dei miei genitori.”
La sua prima poesia, quella degli anni Sessanta, sembra dominata dalla pittura di Edward Hopper su cui lei ha anche scritto una monografia negli anni Novanta. Ci spiega come entra l’opera di un grande artista visivo, quale fu Hopper, nella sua opera?
In realtà non era propriamente la pittura ad avermi influenzato così tanto all’inizio, ma piuttosto scrittori come Kafka, Borges, Calvino, questi erano gli scrittori che ritenevo interessanti, nessuno di loro era un poeta, eccetto Borges, ma comunque avevano scritto una prosa molto intensa, densa, ed erano in contatto con ciò che noi tutti oggi definiamo ‘misterioso’, lo strano, l’inaspettato. Ero affascinato da tutto questo nei loro lavori, ma, al contempo, ero anche affascinato dal lavoro dei surrealisti, perché si erano specializzati nell’inaspettato e nell’irrazionale. Sicuramente non si può scrivere qualcosa di sensato ed essere irrazionale, devi essere capace di trasformare l’irrazionalità in qualcosa che abbia una forma. In altre parole devi permettere al lettore disperimentare l’irrazionale, non in un modo programmato, ma in maniera formale. Perché, in generale, non viviamo le nostre vite in modo razionale, le nostre vite sono dominate dagli incidenti, e molto spesso siamo motivati da forze irrazionali che non comprendiamo. Siamo spinti a questo, spinti a fare quello, a volte contro il nostro interesse migliore. E queste contraddizioni interne erano qualcosa che io volevo esplorare nel mio lavoro, e che analizzavo nel lavoro degli altri.”
Tutta la sua opera è costellata dal tema dell’attesa, c’è qualcosa che non avviene, una poesia che rievoca, in qualche modo, che celebra qualcosa che non accade ma che prima o poi accadrà…
Come definirebbe la sua poesia?“Non posso definire la mia poesia. Non credo spetti a me. Di certo ci sono certi temi che si ripetono nella mia poesia, aspettative, attesa, delusione, il buio che avanza, tuttavia quando scrivo non ho in mente niente di tutto questo. Non considero il mio lavoro nella sua totalità, mai, ma considero le singole poesie mentre ci sto lavorando. Poi una volta che ho scritto la poesia, non ci penso più. Me ne sbarazzo. E inizio un’altra poesia. Se avessi pensato di avere dei temi sui quali dovevo ritornare ancora e ancora, mi sarei sentito paralizzato. Sarei stato prigioniero di una nozione astratta di ciò che stavo facendo. Sarebbe stata la mia morte.”
Lei potrebbe anche essere definito ‘Il poeta della disillusione’. Forse questa è una delle caratteristiche principali della sua opera di poesia. Lei dice che l’immaginazione è come svanita o affievolita. L’uomo contemporaneo ha perso l’immaginazione, la creatività. Perché è accaduto questo?
“Io mi considero un comico. Credo che le mie poesie siano divertenti. Credo che ‘L’uomo e il cammello’ sia una poesia piuttosto divertente, in cui l’uomo e il cammello della poesia si rivoltano contro il poeta, poiché ha interpretato il loro significato. Ed è questo il motivo per cui alla fine ritornano e dicono: ‘l’hai rovinata, rovinata per sempre!’ (riferendosi alla poesia). E’ la poesia stessa che si vendica con il poeta. Ma, voglio dire, un uomo e un cammello che cantano, è ridicolo!… Un uomo e un cammello che appaiono all’improvviso! A dire la verità ho avuto l’immagine di un uomo e di un cammello e mi sono detto: ‘Come posso metterli insieme in una poesia? Cosa posso fare con un uomo e un cammello in una poesia?’ E così ho inventato questa piccola storia, che ho pensato fosse divertente. Ma il termine disillusione è troppo forte, non mi sento disilluso. A volte provo disillusione, ma chi no lo fa? Credo che se si leggono le mie poesie con più attenzione diventano sempre più divertenti.”
———
Il mio nome
Una sera che il prato era verde oro e gli alberi,
marmo venato alla luna, si ergevano come nuovi mausolei
di strida e brusii di insetti, io stavo sdraiato sull’erba,
ad ascoltare le immense distanze aprirsi su di me, e mi chiedevo
cvosa sarei diventato e dove mi sarei trovato,
e quanto a malapena esistessi, per un attimo sentii
che il cielo vasto e affollato di stelle era mio, e udii
il mio nome come per la prima volta, lo udii
come si sente il vento o la pioggia, ma flebile e distante
come se appartenesse non a me ma al silenzio
dal quale era venuto e al quale sarebbe tornato.
Da: L’uomo che cammina a un passo avanti al buio Poesie 1964-2006 di Mark Strand, Oscar Mondadori, traduzione di Damiano Abeni
Mark Strand (1934) è nato a Summerside, nella Prince Edward Island (Canada). Vive a New York e insegna alla Columbia University. Uomo e cammello (Mondadori 2007) è la sua undicesima raccolta di poesie. Ha pubblicato anche un libro di racconti Mr and Mrs Baby, tre volumi di traduzioni, diverse antologie.
Ha ricevuto numerosi premi tra cui il Pulitzer per la raccolta di poesie Blizzard of One.
In Italia, oltre a tre plaquette per le Edizioni L’Obliquo sono disponibili due antologie delle sue poesie (L’inizio di una sedia Donzelli, 1999; Il futuro non è più quello di una volta, Minimum fax, 2006), un volume di scritti d’arte (Edward Hopper – Un poeta legge un pittore, Donzelli 2003) e la favola Il pianeta delle cose perdute (Beisler 2002).
Mark Strand nell’Enciclopedia Treccani
Strand ‹stränd›, Mark. – Poeta statunitense (n. Summerside, Isola Principe Edoardo, 1934). Dall’apparente linearità e accessibilità delle prime raccolte (Sleeping with one eye open, 1964; Reasons for moving, 1968; Darker, 1970) è approdato alla struttura elegiaca più complessa e compiuta di The story of our lives (1973), The late hour (1978) e The continuous life (1990), ponendo sempre al centro della sua poesia l’indagine sulla propria identità di artista; l’alternarsi di momenti di luce e di improvvise ombre rinvia, nei suoi versi, a una condizione di scissione e di precarietà sulla quale la poesia cerca di imporre un suo ordine. Con la raccolta Blizzard of one (1998) ha vinto il premio Pulitzernel 1999. Hanno fatto seguito, tra l’altro, Chicken, shadow, moon & more (2000) e Man and camel(2006). L’interesse di S. (che ha insegnato in varie università negli USA e all’estero) per le culture straniere è testimoniato, oltre che dalle sue traduzioni da R. Alberti (The owl’s insomnia, 1973), da diverse antologie, tra cui Another republic: 17 European and South American writers (1976). Ha scritto anche libri per bambini (p. es., The planete of lost things, 1984). Nel 2004 ha ricevuto il Wallace Stevens Award.
Mark Strand al XVI festival internazionale della poesia di Genova
nNOTIZIA: A Genova fino al 21 giugno si svolge il XVI Festival internazionale di poesia. Dal blog Poesia di Ottavio Rossani. Corriere Della Sera: “Si �aperto – e chiuder�il 21 giugno – la 16esima edizione del festival della poesia di Genova “Parole Spalancate 2010”.� Anche quest’anno saranno ospiti grandi nomi della poesia mondiale. Per la serata di apertura, il 10 giugno,� nel Cortile Maggiore del Palazzo Ducale, Mark Strand, considerato il maggiore poeta statunitense, vincitore di numerosi premi, dal Pulitzer al D’Annunzio, ha letto le sue poesie. A introdurre Mark Strand e a leggere le traduzioni dei suoi versi tratte da Uomo e Cammello e da Il futuro non �pi�quello di una volta”
TartaRugosa ha letto e scritto di: Mark Strand (2003) 89 nuvole, Ed. L’Obliquo Traduzione di Damiano Abeni | TartaRugosa
Mark Strand (2003)
89 nuvole, Ed. L’Obliquo
Traduzione di Damiano Abeni
Semplicemente 89 linee di cui lo stesso Strand dice “Il libro è composto da una lista. La lista è costituita dall’uso ripetuto di un’unica parola … Il significato a volte importa, a volte no. Queste nuvole le si può leggere in tutta souplesse sia prima di addormentarsi che al risveglio”.
In questo periodo in cui la souplesse le è del tutto negata, TartaRugosa immobilizzata e più che mai rannuvolata legge e guarda il cielo.
Dice Strand:
20. Le nuvole sono pensieri senza parole
Allora TartaRugosa sceglie per rincuorarsi queste 5 linee:
42. Le nuvole svaniscono prima che sia dato loro un nome
45. Una nuvola con la testa non è una nuvola
57. Una nuvola buona non tuona
61. La giostra delle nuvole la si guarda a bocca aperta
66. Le nuvole non possono sbarrarti il passo
Se è vero che:
21. Le nuvole sono schiave del vento
TartaRugosa, fiduciosa, attende che:
87. Ecco che torna la nuvola, tutta spuma e bagliore
Mark Strand a Genova. Festival Internazionale di Poesia il 10 giugno 2010 | Mentelocale.it
Il Festival raccoglierà l’eccellenza della poesia mondiale, se l’inaugurazione, il 10 giugno, vedrà infatti la presenza dello statunitense Mark Strand, molto amato in Italia, ormai considerato il maggiore poeta americano e vincitore di numerosi premi dal Pulitzer al D’Annunzio, saranno poi due premi Nobel provenienti dal continente africano a costituire le perle dell’edizione 2010: il sudafricano John Coetzee e il nigeriano Wole Soyinka.Altrettanto prestigiose le presenze del francese Bernard Noël, considerato a ragione come uno degli esponenti di vertice della poesia transalpina, quella di Wolf Biermann, il più importante cantautore tedesco e Evgenj Evtushenko, figura mitica dell’arte poetica russa.
Genova. Festival Internazionale di Poesia | Mentelocale.it
Mark Strand – AOL Video
Mark Strand, Per lei
Potrebbe essere ovunque
una notte qualsiasi a tua scelta,
nella tua camera vuota e buia
o per strada
o su quelle tenui frontiere
che scorgi a malapena, a malapena sogni.
Non proverai alcun desiderio,
niente ti metterà in guardia,
non un vento improvviso, non l’immobilità dell’aria.
Lei apparirà,
l’aspetto di una donna che conoscevi:
l’amica che ha buttato via la vita,
la ragazza seduta all’ombra della palma.
I bracciali le brilleranno,
diverranno le luci
di un paese cui volgesti le spalle anni fa.
Mark Strand
Mark Strand, … in un mondo senza paradiso tutto è addio …
E’ vero, come ha detto qualcuno, che
in un mondo senza paradiso tutto è addio.
Sia che tu saluti con la mano o no,
è addio, e se non ti salgono lacrime agli occhi
è addio lo stesso, e se fingi di non accorgerti,
odiando ciò che passa, è addio lo stesso.
Addio e basta. E le palme nel piegarsi
sulla laguna verde e splendente, e i pellicani
in picchiata, e i corpi lustri dei bagnanti che riposano,
sono stadi in un’immobilità estrema, e il movimento
della sabbia, e del vento, e le movenze segrete del corpo
sono parte dello stesso insieme, una semplicità che trasforma l’essere
in occasione di lutto, o in un’occasione
per cui valga far festa, perché che altro si fa,
nel sentire il peso delle ali dei pellicani,
la densità delle ombre delle palme, le cellule che scuriscono
le schiene dei bagnanti? Sono al di là delle distorsioni
del caso, oltre le evasioni della musica. La fine
è messa in atto senza tregua. E la sentiamo
nelle lusinghe del sonno, nella luna che matura,
nel vino mentre attende nel bicchiere.
(da Porto oscuro, 1993
Mark Strand, Seven Days, Sette giorni
First day
I sat in a room that was almost dark,
looking out to sea. There was a light on the water
that released a rainbow which landed near the stairs.
I was surprised to discover you at the end of it.
Second Day
I sat in a beach chair surrounded by tall grass
so that only the top of my hat showed.
The sky kept shifting but the sunlight stayed.
it was a glass pillar filled with bright dust, and you were inside.
Third day
A comet with two tails appeared. You were between them
with your arms outspread as if you keeping the tails apart.
I wished you would speak but you didn’t. I knew then
that you might remain silent forever
Fourth day
This evening in my room there was a pool of pink light
that floated on the wooden floor and I thought of the night
you sailed away. I closed my eyes and tried to think
of ways we might be reconciled; I could not think of one.
Fifth day
A light appeared and I thought the dawn had come.
But the light was in the mirror and became brighter
the closer I moved. You were staring at me.
I watched you until morning but you never spoke.
Sixth day
It was in the afternoon but I was sure
there was moonlight trapped under the plates.
You were standinf outside the windows, saying, «Lift them up.»
When I lifted them up the sea was dark,
the wind was from the west, and you were gone.
Seventh day
I went for a walk late at night wondering whether
you would come back. The air was warm and the odor of roses
made me think of the day you appeared in my room,
in a poll of light. Soon the moon would rise
and I hoped you would come. In the meantime I thought
of the old stars falling and the ashes of one thing and another.
I knew that I would be scattered among them,
that the dream of light would continue without me,
for it was never my dream, it was yours. And it was clear
int the dark of the seventh night that my time would come soon.
I looked at the hill, I looked out ever the calm water.
Already the moon was rising and you were here.
Sette giorni
Primo giorno
Sedevo in una stanza semibuia,
e guardavo il mare. C’era una luce sull’acqua
che emanava un arcobaleno che ricadeva vicino alle scale.
Fui sorpreso di scoprire te lì dove finiva.
Secondo giorno
Sedevo su una sdraio in mezzo all’erba alta
da cui spuntava solo la cima del mio cappello.
Il cielo si muoveva senza posa ma il sole restava.
Era un pilastro di vetro ricolmo di pulviscolo lucente, e dentro c’eri tu.
Terzo giorno
Apparve una cometa con due code, e tu ci stavi in mezzo
a braccia spalancate come se stessi divaricandone le code.
Avrei voluto che parlassi, ma non fu così. Allora seppi
che saresti potuta restare in silenzio per sempre.
Quarto giorno
Stasera in camera mia c’era una polla di luce rosa
che galleggiava sul parquet e ho pensato alla sera
in cui te ne sei andata. Ho chiuso gli occhi e ho cercato di pensare
ai modi per poter fare pace; non me ne è venuto in mente nessuno.
Quinto giorno
Apparve una luce e pensai fosse giunta l’alba.
Ma la luce era nello specchio e si faceva più intensa
man mano che mi avvicinavo. Tu mi fissavi.
Ti ho guardata fino al mattino ma non hai mai parlato.
Sesto giorno
Era pomeriggio ma io ero sicuro
che la luna fosse rimasta intrappolata sotto i piatti.
Tu stavi in piedi fuori dalla finestra, dicevi: «Sollevali».
Quando li sollevai il mare era scuro,
il vento veniva da ponente, e tu eri scomparsa.
Settimo giorno
Uscii a passeggiare una sera tardi chiedendomi se
saresti tornata. L’aria era tiepida e il profumo delle rose
mi fece pensare al giorno che eri apparsa in camera mia,
in una polla di luce. La luna sarebbe sorta di lì a poco
e io speravo che saresti venuta. Intanto pensavo
alle stelle antiche che cadono e alle ceneri di questa o quell’altra cosa.
Sapevo che io sarei stato disperso tra di esse,
che il sogno della luce sarebbe continuato senza di me,
poiché non era mai stato il mio sogno, era il tuo. Ed era chiaro
nel buio della settima sera che la mia ora sarebbe presto arrivata.
Guardai la collina, alzai lo sguardo sulla superficie calma dell’acqua.
Già sorgeva la luna e tu eri qui.
Mark Strand
The late hour
1978
Mark Strand, Intervista
Rai Fahrenheit: Ospite in studio Mark Strand
Si può riascoltare l’ intervista di Felice Cimatti sul sito ma soprattutto la prossima settimana ascolteremo ogni giorno una sua poesia, letta dall’autore e tradotta Damiano Abeni, nello spazio quotidiano della Poesia del Giorno.
Mark Strand, Due cavalli
Mark Strand, uno sguardo poetico sulla “quotinianità crepuscolare”.
Ma anche un evocatore di immagini potenti, nitide, fortissime, come qui:
DUE CAVALLI
Una calda sera di giugno
scesi al lago, mi misi carponi
e mi abbeverai come un animale. Due cavalli
mi si affiancarono, per abbeverarsi anch’essi.
È stupefacente, pensai, ma chi lo crederà?
I cavalli mi scrutavano di tanto in tanto, sbuffando
e scrollando la testa. Sentii il bisogno di rispondere, così anch’io
sbuffai, ma esitando, come se in realtà non volessi essere udito.
I cavalli dovevano avere percepito che mi reprimevo.
Si scostarono un poco. Poi pensai che forse mi avevano conosciuto
in un’altra vita – quella in cui ero stato poeta.
Forse avevano persino letto le mie poesie, perché a quell’epoca,
in quel tempo vago in cui il nostro ardore non aveva limiti,
cambiavamo stile
quasi con la stessa frequenza
con cui cadevano giorni nell’anno.
TWO HORSES
On a warm night in June
I went to thè lake, got on ali fours,
and drank like an animai. Two horses
carne up beside me to drink as well.
This is amazing, I thought, but who will believe it?
The horses eyed me from time to time, snorting
and nodding. I felt thè need to respond, so I snorted, too,
but haltingly, as though not really wanting to be heard.
The horses must have sensed that I was holding back.
They moved slightly away. Then I thought they might have known me
in another life – thè one in which I was a poet.
They might have even read my poems, for back then,
in that shadowy time when our eagerness knew no bounds,
we changed styles almost as often as there were days in thè year.
In Mark Strand, Uomo e cammello, Mondadori, 2007, p. 14-15, traduzione di Damiano Abeni
Ho provato a rileggerla con il sottofondo di Knot Of Place And Time di Jan Garbarek in “In Praise of Dreams”, ma la rovinavo.
[youtube:http://youtu.be/Tav-dnFLIw8%5D
L’impatto con Mark Strand mi è arrivato per strati, per momenti successivi. Non proprio di colpo.
Nato nel 1934 a Summerside, nella Prince Edward Island in Canada, cresciuto negli Stati Uniti, vive a New York. 73 anni. A vederlo sembra un attore. Altissimo, bello, «in tutto e per tutto simile a Clint Eastwood», diceva Enzo Siciliano.
Anche mia moglie, vedendo la fotografia, ha esclamato: “ … che bello!”.
Quella che racconto, dichiara Strand, è sempre la stessa «vecchia storia»: quella «sui minuti che muoiono e le ore, e gli anni».
E anche se tu che mi ascolti sai già di cosa sto parlando (e come potresti non saperlo?), questa è la storia «di me stesso, di te, di tutti».
Dicono di lui:
“Ci sono poeti che hanno il dono raro della semplicità uno di questi è Mark Strand, classe 1934, americano. La semplicità unita alla profondità di sguardo crea una miscela unica. Questa miscela unica costituisce il suo mondo poetico. Un mondo poetico che si nutre della quotidianità, una quotidianità quasi crepuscolare, decadente, anzi in decadenza: il suo universo, a tratti kafkiano come spiega la seconda di copertina di questo pregevole raccolta pubblicata da Minimum Fax, Il futuro non è più quello di una volta, è un universo nel quale la tristezza dei giorni è metodicamente disegnata con una precisione di sguardo e di dettato davvero unici. E nei giorni che scorrono implacabili si delinea una metafisica dell’assenza tutta terrena, immanente” (Mauro Fabi)
“Scenari struggenti di sconsolata felicità, densità ed evanescenza, presenze perdute e morte in vita. Atmosfere romantiche, l’assenza della vita, “fissare il nulla è imparare a memoria / quello in cui noi tutti verremo spazzati”: dinanzi a un simile scenario non possiamo che limitarci a contemplare la sua attività poetica. La capacità dell’autore di sfruttare un immaginario al margine del conscio appare unica,” (Marco Milone)
“Dovessi sintetizzare in un unico aggettivo cosa penso del corpus poetico di Mark Strand, non avrei dubbi: userei il superlativo interessantissimo. Mai, per esempio, mi verrebbe in mente di catalogare una sua poesia nella categoria del bello, con quanto di edonistico – di esteticamente godereccio – a questo termine si fa corrispondere. Piuttosto nella categoria dell’etico: infatti, quelle di Strand sono incursioni coraggiose sul terreno minato dell’esistere, eseguite con lo scandaglio dell’ironia.” (Ciro Bestini)
“la poesia di Strand è una poesia di domande più che di risposte, che non ha il compito di cambiare il mondo né di comunicare nessuna verità teologica, ideologica o etica. Non è una poesia confessionale né sentimentale: l’io lirico sembra addirittura abdicare a se stesso, annullandosi continuamente anche e soprattutto nell’uso prevedibile e canonico di certa lingua poetica: ogni luogo comune della dizione poetica viene sempre accuratamente evitato e la lingua, sorvegliatissima, ne esce essiccata, rastremata. Eppure la situazione umana balza evidente in tutte le sue implicazioni. È una poetica quella di Strand che vuole guardare in faccia la vita e la morte con la “discretion” disillusa e l’acre ironia della tradizione scettica. La poesia di Strand ferma la vita su un palcoscenico silenzioso e ci costringe ad osservarla nella sua nullità, con occhi asciutti.” (Franco Nasi)
Mark Strand: Libri di poesia e prosa
STRAND MARK, REASONS FOR MOVING, DARKER, ALFRED A. KNOPF, 2006. Prima edizione:1963
STRAND MARK, THE STORY OF OUR LIVE. With THE MONUMENT and THE LATE HOUR. Poems, ALFRED A. KNOPF, 2002. Prima edizione:1971
STRAND MARK, a cura di Damiani Abeni, L’ INIZIO DI UNA SEDIA, DONZELLI, 1999. Prima edizione:1979
STRAND MARK, SELECTED POEMS, ALFRED A. KNOPF, 2005. Prima edizione:1979
STRAND MARK, Traduzione di Damiano Abeni e con una nota di Virginia Arati, IL PIANETA DELLE COSE PERDUTE, BEISLER EDITORE, 2002. Prima edizione:1982
STRAND MARK, IL SIGNOR BABY E SIGNORA, FELTRINELLI, 1987. Prima edizione:1985
STRAND MARK, DARK HARBOR. A POEM, ALFRED A. KNOPF, 2003. Prima edizione:1993
STRAND MARK, a cura di Damiano Abeni, EDWARD HOPPER. Un poeta legge un pittore, DONZELLI, 2003. Prima edizione:1994
STRAND MARK, BLIZZARD OF ONE. Poems, ALFRED A. KNOPF, 2006. Prima edizione:1998
STRAND MARK, CHICKEN, SHADOW MOON & more, turtle point press, 2000. Prima edizione:1999
STRAND MARK, THE WEATHER OF WORDS. POETIC INVENTION, ALFRED A. KNOPF, 2001. Prima edizione:2000
STRAND MARK, a cura di Damiano Abeni e con una nota di Marco Giovenale, 89 NUVOLE, EDIZIONI L’OBLIQUO, 2003. Prima edizione:2003
Mark Strand e Damiano Abeni (cur.) traduzione di Damiano Abeni, West of your cities : nuova antologia della poesia americana, Minimum fax, 2003. Prima edizione:2003
STRAND MARK, a cura di Damiano Abeni, LA DENARRAZIONE, EDIZIONI L’OBLIQUO, 2005. Prima edizione:2005
STRAND MARK, a cura di Damiano Abeni, IL FUTURO NON E’ PIU’ QUELLO DI UNA VOLTA, MINIMUM FAX, 2006. Prima edizione:2006
STRAND MARK, traduzione di Damiano Abeni, UOMO E CAMMELLO, MONDADORI, 2007. Prima edizione:2007
Leggere Mark Strand
Giovedì 15 gennaio alle 19.30
presso l’Auditorium
della St. Stephen’s Cultural Center Foundation a Roma
(Via Aventina, 3)
il grande poeta americano
Mark Strand
legge le sue poesie
il "A sudden Excess of Desire" di Mark Strand, anche in ricordo di Tullio Aymone
Nello sguardo poetico di Mark Strand ricorre spesso il tema dell’ “ero stato” o quello, complementare, di “in un’altra vita”.
Ero stato un esploratore polare in gioventù
e avevo trascorso innumerevoli giorni e notti a ghiacciare
di luogo deserto in luogo deserto. In seguito,
lasciai le spedizioni e rimasi a casa,
e lì crebbe in me un improvviso eccesso di desiderio,
come se un fulgido torrente di luce simile a quello che si vede
dentro un diamante mi attraversasse.
Riempivo pagine e pagine con le visioni di ciò che avevo osservato –
mari ruggenti di pack, ghiacciai immensi, e il bianco degli iceberg sferzato dal vento. Poi, senza altro da dire, smisi
e fissai lo sguardo su ciò che era vicino. Quasi immediatamente
un uomo in cappotto scuro e con un cappello a larghe tese
comparve sotto gli alberi davanti a casa.
Il modo in cui fissava davanti a sé e stava lì,
ben piantato sui piedi, con le braccia abbandonate lungo
i fianchi, mi fece pensare che lo conoscevo.
Ma quando alzai la mano a salutarlo
egli fece un passo indietro, si volse e cominciò a svanire
E vengo irrimediabilmente preso dal sudden excess of desire di costellarmi questo pezzo di passato.
Leggo con troppo ritardo un numero della rivista Inchiesta ed apprendo, in un articolo di una docente brasiliana (Ana Maria Rabelo Gomez – Universitade Federal de Minas Gerais, Facultade de Educaçao), che è morto Tullio Aymone (1931-2002, 71 anni). “Prematuramente scomparso”, dice.
Non posso trattenere la mia commozione, ma lascio anche affiorare i ricordi. Fondamentali e forti. Perché Tullio Aymone, in un periodo troppo popolato da “cattivi maestri” cui la televisione dà un palcoscenico per le loro debolissime teorie , è stato un vero maestro. Un ricercatore dal “pensiero forte”.
L’ho inseguito in tutte le sue lezioni che ha potuto tenere a Trento nel periodo 1969-1973. Non era facile, perché l’attività didattica era allora , a dir poco, discontinua. Continuamente interrotta dalla prepotenza dei leader e leaderini di Lotta Continua che letteralmente “occupavano” ogni spazio fisico e mentale dell’Università. Per loro chi faceva lezione e chi ci andava era un “nemico asservito al capitalismo” (“maturo”, naturalmente).
Nel gorgo, solo per certi versi creativo, di quegli anni, Tullio Aymone è stato un ancoraggio sicuro. Una presenza per me indimenticabile. Da lui ho imparato alcune cose fondamentali che mi hanno accompagnato per sempre: l’importanza della storia, cioè della necessità di “storicizzare” ogni evento (l’educazione, la sociologia, gli strumenti metodologici, …); il ruolo del sociologo come “operatore del sociale”; la politica come scelta etica; lo stimolo a studiare Antonio Gramsci, Giorgio Candeloro, Eugenio Garin . Da lì è poi venuta la mia successiva e lunga militanza nel PCI, dove ho cercato di mettere assieme (purtroppo con scarsi esiti) lo stare in un partito e produrre trasformazione sociale, anche attraverso gli strumenti della conoscenza.
L’ho conosciuto nella sua capacità didattica: parlava calmo seduto sulla cattedra, mettendo insieme lezioni che intrecciavano sociologia, antropologia, psicanalisi, filosofia marxista, ricordi di lavoro. In lui le teorie non avevano mai pretese dogmatiche: le usava solo come strumenti per comprendere ed agire. Con lui ho appreso nel vivo cosa è l’ “immaginazione sociologica” e cosa può voler dire essere “impegnati” nella storia collettiva ed individuale. Suggeriva di studiare lo psichiatra Harry Stack Sullivan, ma collocando le sue pratiche terapeutiche nel quadro della struttura sociale degli Stati Uniti. Sapeva connettere le teorie della psicanalista Melanie Klein al più generale processo storico dell’educazione nelle società europee. Di Marx puntava a cogliere il metodo analitico e a mettere in ombra il dogmatismo dottrinario. Considerava Freud un rivoluzionario del pensiero, ma consigliava di mettere da parte la sua matrice biologistica.
Oggi sono diventati molto di moda i libri di Zigmunt Bauman: chissà quanti ricordano che Tullio Aymone fece tradurre, nel 1971, dagli Editori Riuniti il libro Lineamenti di una sociologia marxista, scrivendone l’introduzione ?
Agli inizi degli anni ’70 sono poi andato a trovarlo a Milano, in una semplicissima casa popolare carica di libri. Cercavo consigli, cercavo una guida. Ero una persona confusa, sempre alla ricerca di piste, di orientamenti. E da lui trovavo sempre le parole giuste. Mi accennava al suo lavoro di sociologo urbano, appreso all Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, con Chombart de Lauwe. Di questo autore ha scritto una introduzione alla edizione italiana di Des hommes e des villes, pubblicato da Marsilio. La sua vita professionale mi sembrava una avventura (Ivrea, l’Olivetti, Parigi, le ricerche nelle periferie urbane ….) e io avrei voluto fare qualcosa di simile:
Ancora mi ha ricevuto nella sua nuova fase di vita a Bologna, forse nel 1972. Mi disse che era stufo della rudezza della vita milanese e che lì trovava nuove e più ricche esperienze nelle quali collegare, nel suo irripetibile stile di vita, partecipazione sociale e ricerca. In quelle pochissime ore bolognesi è praticamente iniziata la mia professione. Mi disse di non occuparmi di scuola (volevo fare una tesi su quell’argomento, allora molto trattato) ma di sanità.
“Occupati delle Usl e di politiche sulla salute” mi disse. Io non sapevo neppure cosa fossero. Ma da allora inseguii quel tema. E la costruzione del sociale attraverso i servizi alle persone è diventato il mio oggetto di studio, di esperienza lavorativa e di scrittura. Così ho fatto la tesi sulla storia della sanità italiana e lui me l’ha presentata a Trento. Attraverso quella tesi ho conosciuto Laura Conti, di cui lui è stato amico ed anche ospite in casa sua, in una fase di difficoltà economiche. Così era la militanza del Pci: una comunità in cui, anche nell’asprezza della vita politica, c’erano azioni di mutuo aiuto.
Poi l’ho perso. Ho saputo dei suoi incarichi universitari successivi e ne sono stato contento: passava da una vita precaria ad una nuova situazione di insegnamento e di ricerca. Ma ho sempre cercato i suoi programmi, le sue bibliografie. Invidio gli studenti modenesi che hanno potuto, forse, ascoltarlo con più ampiezza di tempo.
Ho tenuto, come compagni di viaggio, tutti i suoi scritti. Lezioni registrate, appunti di articoli, libri, rapporti di ricerca. Ha scritto solo due libri, a mia conoscenza, ma centinaia fra articoli, relazioni a convegni, tracce per guppi di lavoro, progetti. Il suo ruolo di sociologo se lo è giocato giorno per giorno, intrecciando solide teorie e azione pratica. Intendo dire che lui organizzava la sua vita attorno all’agire nelle situazioni sociali, che fossero le periferie urbane, o le scuole dell”hinterland di Milano, o gli amministratori locali o, ancora, le culture dell’Amazzonia. E su questo costruiva i suoi saperi, talvolta concettualmente ardui.
Il suo è certamente un pensiero sistematico, ma questa sistematicità la si può ricavare dalle molecolari tracce scritte e dal suo parlare. Solo il filo della memoria può tentare di mettere assieme tutto questo.
Io mi sono fatto una idea di questo pensiero, perché ho a lungo frequentato le sue riflessioni, le sue argomentazioni, il suo modo di connettere esperienza personale e flusso della storia.
Il mio modo di rendere onore alla sua memoria ed al suo valore è quello di rendere disponibili le sue tracce frammentarie:
Forse qualcuno rintraccerà a sua volta queste pagine e potrà aggiungerle ai propri ricordi e magari aiutarmi a “scolpire” ancora la sua persona attraverso altre tracce biografiche.
Ho lanciato nella rete questo ricordo: sarei molto grato a chiunque volesse inviarmi ricordi o altre testimonianze sulla sua vita ed il suo lavoro intellettuale.
Le NUVOLE di Mark Strand, Audio Lettura di Paolo e Luciana
Quando si sfiora la felicità entrando in contatto fisico e mentale con un artefatto.
Il libriccino ha 30 pagine.: “di questo volumetto sono stati ultimati presso la Tipolitografia S. Eustachio 300 esemplari” dice il fronte di copertina.
Già questo, nell’epoca dei consumi di massa, è un fatto raro. Possedere un oggetto che ha incontrato le pulsioni desideranti di solo poche decine di persone … potrei incontrale una ad una …
Poi queste pagine contengono “89 nuvole” di Mark Strand.. Proprio così: 89 nuvole. Non una di più, non una di meno.
Dice il poeta: “Il libro è composto da una lista. La lista è costituita dall’uso ripetuto di un‘ unica parola. La si può leggere nella sua interezza, o per frammenti. Ogni apparizione della parola ripetuta ha un carattere diverso, un tono diverso. A tratti si potrà pensare le apparizioni appartengano alla poesia, a tratti alla prosa, e persone diverse le penseranno in modo diverso. Il significato a volte importa, a volte no. Queste nuvole le si può leggere in tutta souplesse sia prima di addormentarsi che al risveglio”
Poi, ancora, la traduzione è di Damiano Abeni, un medico epidemiologo che traduce poesie americane da 35 anni in modo assolutamente mirabile. Con una aderenza ai significati ed ai suoni ed alle loro relazioni che lascia attoniti per la ammirazione. Dice Damiano Abeni: “Le traduzioni sono piane e tendono ad essere fedeli. Per quanto riguarda la nuvola 23, Strand privilegia “Le nuvole sono trascinate da uccelli invisibili” . Ma il lettore sappia che interpretazioni altrettanto legittime sono: “Le nuvole sono disegnate da uccelli invisibili”, e “ Le nuvole sono attratte da uccelli invisibili”.
Ai più curiosi potrà interessare che sulla nuvola 25 (una ‘cloud’ senza ‘u’ – che si pronuncia come ‘you’, ovvero ‘te’ o ‘voi’ – è una ‘clod’, ovvero una ‘zolla’) ho giocato al gioco dell’autore, dimenticandomi del significato dell’originale: qui ‘una parte di voi’ è ‘vo’:
Provo a rendere una approssimativa delizia della mente nel leggere questa lista.
Dunque … Dice Mark Strand: “Ogni apparizione della parola ripetuta ha un carattere diverso, un tono diverso”
Entriamo in questo sguardo, lo sguardo immaginifico di Strand.
Quindi: anche le parole sono evanescenti. Fluttuano … si muovono
E se c’è qualche evento esterno?
E poi ci sono le relazioni. Il processo che lega le cose della vita-mondo.
Le nuvole hanno anche un’etica. Riflettiamo … riflettiamo noi che cerchiamo appigli per le azioni ed i comportamenti:
Il dolore delle nuvole non riusciamo nemmeno ad immaginarcelo
E poi c’è qualcosa di molto particolare nei loro amori. Qualcosa che ora, dopo avere accolto lo sguardo di Mark Strand, potremmo percepire quando le guardiamo, di sera, di mattina presto, nei pomeriggi di blu e bianco.
Per le altre nuvole invito a leggere:
Mark Strand, 89 nuvole (89 Clouds), a cura di Damiano Abeni con una nota di Marco Giovenale, Edizioni l’Obliquo, Brescia 2003
Mark Strand e Richard Hawley: sotto l’influsso della Luna, mirabilmente tradotto da Damiano Abeni
Luna
Apri il libro della sera alla pagina
in cui la luna, la luna sempre, appare
tra due nuvole, spostandosi così piano che parrà
siano trascorse ore prima che tu giunga alla pagina seguente
dove la luna, ora più luminosa, fa scendere un sentiero
per condurti via da ciò che hai conosciuto
entro i luoghi in cui quello che ti eri augurato si avvera,
la sua sillaba solitària come una frase sospesa
sull’orlo del significato, in attesa che tu ne dica il nome
una volta ancora mentre alzi gli occhi dalla pagina
e chiudi il libro, sentendo ancora com’era
soffermarsi in quella luce, quell’improvviso paradiso di suono.
(mirabilmente tradotto da Damiano Abeni, che ha scritto:
“Vi ho trovati su google – e vi ringrazio per lo spazio concesso a Mark, il consiglio musicale, e le buone parole spese per il modesto traduttore. Ma se vi piace questo “ambiente” vi piacerà tutto il libro, e anche i precedenti.
Comunque, continuate così!
Un saluto da Damiano Abeni,
14 marzo 2007)
MoonOpen the book of evening to the page
where the moon, always the moon, appears
between two clouds, moving so slowly that hours
will seem to have passed before you reach the next page
where the moon, now brighter, lowers a path
to lead you away from what you have known
into those places where what you had wished for happens,
its Ione syllable like a sentence poised
at the edge of sense, waiting for you to say its name
once more as you lift your eyes from the page
and dose the book, stili feeling what it was like
to dwell in that light, that sudden paradise of sound.
Mark Strand, Uomo e cammello, Mondadori, 2007
Che associo alla voce di Richard Hawley :
Cry a Tear for the Man On the Moon
in Late Night Final
Mark Strand, La vita tranquilla, 26 novembre 2006
La vita tranquilla
Sei alla finestra.
C’è una nube di vetro a forma di cuore.
I sospiri del vento sono caverne in ciò che dici.
Sei il fantasma sull’albero lì fuori.
La strada è muta.
II tempo, come il domani, come la tua vita,
è in parte qui, in parte sospeso in aria.
Non puoi farci niente.
La vita tranquilla non da preavvisi.
Consuma i climi dello sconforto
e compare, a piedi, non riconosciuta, senza offrire nulla,
e tu sei lì.
Mark Strand, da Darker (1970), pubblicata in Il futuro non è più quello di una volta, traduzione di Damiano Abeni, Minimum Fax, 2006, p. 5