“La menopausa, senza offesa, è meglio della pubertà”, la Signora Coriandoli a Che tempo che fa, Rai3, 21 maggio 2023

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Davide FENT, A letto dopo il carosello, Youcanprint editore

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La pubblicità in Italia non ha mai goduto di chiara fama. Era vista come qualcosa di negativo, si parlava di ‘persuasori occulti’. Negli anni Trenta, per superare questa ‘vergogna’, la cartellonistica si affidò agli artisti. In televisione, nel ’57, proprio su questo interdetto, nacque invece Carosello”. A raccontare ”l’altra faccia” della pubblicità è il critico Aldo Grasso, alla mostra ”Il cibo immaginario. 1950-1970 pubblicità e immagini dell’Italia a tavola”, prodotta da Artix in collaborazione con Gruppo Cremonini e Coca-Cola Italia, che al Palazzo delle Esposizioni ha ripercorso vent’anni del paese attraverso iconografia, stili e linguaggi della pubblicità del cibo e dei riti del mangiare.”Carosello – spiega Grasso – è un’invenzione tipicamente italiana. Si aveva così paura della pubblicità, che si doveva inventare tutta una storia, un piccolo film, prima di nominare il prodotto, che poteva comparire solo nel codino finale”.Fondamentali, prosegue il critico, furono i testimonial, invenzione presa in prestito dagli Stati Uniti. ”I maggiori – prosegue – furono Ugo Tognazzi, che con Raimondo Vianello aveva inventato il programma ‘Uno due tre’; e poi Mina, che che dopo ‘Studio 1’ rappresentava il massimo dell’eleganza. L’idea era che ‘se lo dicono loro, allora si può fare’. La cosa più curiosa – aggiunse Grasso – è l”insegnamento’, al di là del prodotto, sul quale pesa molto il mito dell’America e la visione del futuro. Quello era il tempo dei voli spaziali e non a caso il primo Carosello della Coca-Cola, ad esempio, fu un cartone animato nello spazio con Joe Galassia dei fratelli Gavioli. Con questa formula – conclude – si potè sfatare quel mito dei persuasori occulti. Ecco perché tutta quella gioia, quello stupore, quell’euforia e ingenuità nello scoprire l’utilità dei prodotti. Carosello non fu solo pubblicità, ma il primo grande galateo del dopoguerra”. Ma questa è anche una storia in quel miscuglio etnico dell’ Italia, mi è tornato in mente il suo e delle parlate familiari ascoltate durante il militare tanti anni fa. E questa mi ha dato voglia di scrivere, forse perché il suo sfondo (e quel modo di vita, con personaggi leggendari, collere furibonde, litigi e brame carnali senza ritegni) era così lontano da essere ormai soltanto un mondo immaginario. In questo mondo immaginario, come l’aldilà di Dante, le parlate, risalivano a zii, nonni, parenti: ma non è più di questo mondo. Inoltre, ritrovo qui la mia antica passione per i fumetti, che si vede nel modo di scrivere. Assieme ci metterei quella per i libri di avventure, e quella per il mio amato “Pinocchio” (libro che ho tentato tante volte di riscrivere).

A letto dopo Carosello

CI VUOLE UN FIORE, conducono Francesco Gabbani e Francesca Fialdini , Raiuno, 8/4/22

Rai 1 chiama a raccolta artisti e scienziati per una serata speciale dal titolo “Ci vuole un fiore”, ponendo l’attenzione su alcuni gravi problemi del Pianeta. Uno show in onda venerdì 8 aprile alle 21.25 con Francesco Gabbani, accompagnato da Francesca Fialdini, per ricordare con parole e musica che la transizione ecologica è una necessità imprescindibile e che ognuno può fare la propria parte. 

vai a ufficio stampa della Rai:

https://www.rai.it/ufficiostampa/assets/template/us-articolo.html?ssiPath=/articoli/2022/04/Ci-vuole-un-fiore-con-Francesco-Gabbani-e-Francesca-Fialdini-248c714b-4842-4c2d-acc2-fb4951e93c74-ssi.html

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https://www.raiplay.it/programmi/civuoleunfiore

b

OBLIVION, The Human Jukebox, Rai5, 2 aprile 2022

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https://www.raiplay.it/video/2022/03/Oblivion-The-Human-Jukebox-1c570eb8-8c3b-493a-8eb7-3569509a7ccf.html

vai al sito degli Oblivion:

https://www.oblivion.it/

Vai al canale youtube:

https://www.youtube.com/c/OblivionCanaleUfficiale

intervista di Walter Veltroni ad AMADEUS, in 7 Corriere della Sera, 18/3/2022

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Walter Veltroni:
Amadeus, mi racconti come era la tua stanza da bambino? «La condividevo con mio fratello Gilberto. Io sono del ‘62 e lui del ’66. Ricordo che c’erano due camere vicine, una però mia madre la teneva sempre vuota per gli ospiti. Ma la verità è che non veniva mai nessuno. E io non capivo perché mio fratello non potesse dormire nella stanza vuota. Non l’ho mai capito. In camera nostra c’erano due letti collocati testa contro testa, un comodino in mezzo, una piccola scrivania. E poster, musicali, ovunque».Di chi?«Sono cresciuto con la musica internazionale: Police, Pink Floyd, Eagles, Yes, Deep Purple, Led Zeppelin. Quel mondo fantastico mi faceva sognare: immaginavo di possedere una grande Jeep e di guidare sulle highways ascoltando la musica degli America o dei California. Nella camera c’erano uno stereo, un giradischi vecchio, e una marea di 45 giri. Qualsiasi soldo avessi in tasca lo spendevo in 45 giri. Mia madre impazziva, per questo. Li ascoltavo anche venti, trenta volte al giorno. Mamma si arrabbiava: “Studia! Stai sempre a sentire la musica, studia!”».
👉 Su 7 del 18 marzo l’intervista completa a @giovanna_e_amadeus

GENERAZIONE BELLEZZA, conduce Emilio Caslini, regia di Davide Rinaldi, Rai3, rivedibile tramite RaiPlay

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Rai Radio 1, programmi e Podcast per argomenti

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Rai Radio 1: SETTE SU SETTE

Raffaella Carrà (1943-2021). Tutta la nostra storia pop girerà sempre intorno al suo ombelico, di Beppe Cottafavi, in Domani 9 luglio 2021

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su UNA PEZZA DI LUNDINI, RAI 2; articolo di Raffaele Alberto Ventura, in Domani, 2 ottobre 2020; intervista in TeleSette; articolo di Andrea Minuz

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Lundini
di Andrea MinuzIl FoglioUna pezza di Lundini è il programma del momento, il programma che piace anche ai social, il programma che guardano persino i miei studenti che hanno vent’anni e non sanno cosa sia la tv (lo vedono su Instagram, su Twitch, su YouTube, al massimo su RaiPlay, che hanno scoperto grazie a “Lundini”). Una pezza di Lundini ha un titolo formidabile, misterioso come un incantesimo, un insegnamento esoterico, un richiamo per pochi adepti. «Un titolo che all’inizio non capiva nessuno», dice Giovanni Benincasa, principe degli autori televisivi, ultimo erede della nostra golden age, ideatore, creatore e lanciatore di Lundini, inteso come programma e personaggio tv. Chi è questo Lundini che finisce addirittura nel titolo della trasmissione, come Fiorello, Maria De Filippi, Barbara D’Urso?
Oppure capivano “Landini”. Pensavano a una docufiction sulla Fiom, una miniserie sulla Cgil, un talent sulle vertenze sindacali. Invece Lundini con la “u” è ormai diventato un modo di dire. Esiste la situazione kafkiana, esiste la situazione fantozziana, ora c’è la “situazione alla Lundini”. Chiunque abbia visto anche solo pochi minuti di una puntata qualsiasi sa bene cosa sia. Benedetta Rossi, nuova star dei cooking-show e versione amatorial-marchigiana di Benedetta Parodi, entra in studio magnificata da Lundini per i suoi «tre miliardi e mezzo di follower, quasi la metà della popolazione del Nepal» (ne ha comunque undici milioni, poco meno della metà di quella vera), si accomoda nella poltrona, quindi la presentano con una scheda che ripercorre la carriera di Andrea Roncato.
Alessandro Borghi chiede e ottiene una versione di La ragazza di Ipanema con Bobo Craxi alla chitarra. Sebastiano Somma si autodefinisce ripetutamente «un attore cane come pochi», ma il narcisismo prende il sopravvento e inizia a ricordare una serie di suoi ruoli “immortali”. La band deve rendere omaggio all’ospite della puntata, Piergiorgio Odifreddi, ma ha capito che veniva Otis Redding e attacca, Dock of the bay. La “situazione alla Lundini” è un momento di disagio, uno spaesamento. Può essere anche un tempo morto che precede il disastro, un malinteso che si piazza lì e paralizza la scena. «Un momento di grande imbarazzo che non viene risolto», spiega Benincasa, «un imbarazzo non coperto, ma che resta sotto gli occhi di tutti anche solo per pochi secondi».
Anche Giuseppe Conte che tossisce in faccia a Lilli Gruber mentre legge le risposte sul cellulare come gli studenti all’esame su Zoom è per esempio e senza volerlo un grande “momento Lundini”. Però, certo, ci vuole anche la faccia attonita e impassibile di Valerio Lundini. Ci vuole la comicità lunare e borgatara di Emanuela Fanelli. I due talenti su cui Benincasa ha costruito questo programma che si regge su un’idea semplice quanto folle. Nel suo artificio narrativo, Una pezza di Lundini è un riempitivo messo su in fretta per tappare il buco di una trasmissione immaginaria saltata all’improvviso, tipo Detto Fatto dopo il tragico tutorial sulla spesa sexy in tacco dodici.
Emanuela Fanelli annuncia che il programma previsto (con un titolo sempre diverso che è anche un piccolo, formidabile monologo dell’attrice) non potrà andare in onda. Al suo posto ci sarà Una pezza di Lundini. Con la sua completa impreparazione, Lundini dovrà intrattenere e intervistare ospiti, lanciare servizi, tenere in piedi venti minuti di trasmissione senza sapere bene che fare o che dire. Venti minuti di nonsense risucchiati dentro errori, sbagli, tragici tempi morti, applausi desolati dei quattro anziani presenti in studio. Come quando l’attrice Pilar Fogliati fissa la telecamera, non capisce se l’intervista è finita, non lo capiamo neanche noi e intanto arrivano messaggi incomprensibili dalla regia.
«Un amico una sera mi ha chiamato per dirmi che guardando il programma aveva la netta sensazione che da un momento all’altro potesse crollare il soffitto dello studio», racconta Benincasa. È così. Succede, peraltro, in Beetwen two ferns, il pazzo talk-show di Zach Galifianakis, poi film Netflix, che si apre con un’intervista sgangherata a Matthew McConaughey: l’attore si spazientisce, vorrebbe andare via, ma è sommerso da una cascata d’acqua che viene giù dal soffitto e finisce a nuotare in un acquario tipo quello dei dipendenti di “Fantozzi”.
Una “pezza di Lundini” richiama un po’ questa “nightmare television” americana dove al culmine della catarsi può succedere che lo studio venga sfasciato, cioè letteralmente fatto a pezzi, come Kurt Cobain sfasciava la chitarra o Mario Giordano le zucche di Halloween con una mazza da baseball. Una tv così da noi non esiste. Tanto meno sulla Rai. Per lo studio fatto a pezzi però è ancora un po’ presto. «Siamo in effetti nel genere crime-comedy», dice Benincasa, «mi piacerebbe che lo spettatore pensasse che il programma è in mano a un pazzo, un dirottatore di programmi; solo che, a differenza degli americani, noi in Rai non possiamo sfasciare lo studio, una puntata dura solo venti minuti, non si ammortizzerebbero i costi. Se ci allunghiamo intorno a un’ora, un’ora e mezzo, allora sì, forse sì».
E qui voglio credere con tutto me stesso che Benincasa non stia scherzando. Mi cullo all’idea di una futura puntata di “Una pezza di Lundini extended version”, in cui Lundini e Emanuela Fanelli sfasciano lo studio sotto gli occhi esterrefatti dei rappresentati dell’Usigrai. Benincasa mi racconta le difficoltà, ma anche la fortunata congiuntura astrale che c’è dietro l’arrivo in Rai di un programma del genere. Forse non hanno ancora capito cosa sta andando in onda. La Pezza è nata come striscia settimanale, com’era Battute? lo scorso anno: «All’inizio andavamo in onda quattro volte a settimana in orari cangurellanti, man mano che siamo andati avanti ci hanno trattato davvero come una pezza, finirò che dovremo spiegare che la pezza è un’invenzione narrativa». Ormai bisogna mettere le didascalie a tutto. Se c’è di mezzo la Rai, anche i sottotitoli per non udenti.
«Ho faticato anche a convincere il regista a riprendere male alcune scene». Ma ne è valsa la pena. In Una pezza di Lundini non ci sono quelle inquadrature aeree che ci catapultano nello studio, niente effettacci e balletti, ma inquadrature quasi sempre fisse. «In tv bisogna inquadrare chi parla». E qui con Benincasa si sodalizza parecchio. Si condivide tutto il fastidio. L’irritazione per quelle regie che “si fanno vedere”, si dimenticano i personaggi, se ne vanno a spasso per lo studio, come un qualsiasi dolly di Sorrentino. Anche spiegare a un ospite cosa deve venire a fare da Lundini non è facile. Ludovica Martino, attrice di Skam Italia, è stata la prima.
È stata bravissima a entrare nella “situazione Lundini”. «Non aveva idea di cosa la aspettasse, ma si è subito sintonizzata». Non è scontato trovarsi a proprio agio in un contesto del genere, ma, come dice Benincasa, «adesso c’è la fila di gente che vuole venire da noi». Sono tutti pazzi di Una pezza di Lundini. Ognuno ha il suo momento preferito. Il mio è la standing ovation per Dio. Aizzato da Lundini, in barba all’ateo Odifreddi, tutto lo studio si alza in piedi e applaude le meraviglie del Creato che risplendono in uno di quei filmati alla Quark con orrenda musica new-age in sottofondo. La critica, i social, le riviste di tendenza sono tutti d’accordo: Lundini è «una suprema forma di boicottaggio della televisione»; il «surrealismo in seconda serata»; una «grandiosa satira televisiva».
Anche lui in trasmissione ci gioca su: «Questo è un programma che ha solo recensioni positive». Le recensioni tirano già l’album di famiglia, tutta la genealogia culturale di Una pezza di Lundini: Arbore, Frassica, Guzzanti, i Monty Python, Cochi & Renato, il Fantastico di Celentano, la serie Boris, i The Pills; Fulvio Abbate cita addirittura le Tesi su Feuerbach di Marx, anche se non ricordo bene a che proposito. Ma Una pezza di Lundini è “satira televisiva”? No. Quella era roba di Arbore, era roba di Boncompagni. Quelli della notteIndietro tutta erano costruiti sopra i cliché delle tv di allora, coi salotti, la gente che si parlava addosso, gli sponsor improbabili, il dilagare di quiz assurdi nelle reti private, e tutti quei nuovi fenomeni che Umberto Eco avrebbe immortalato con il termine “neotelevisione”.
Lundini con questa roba non c’entra molto. Mi conforta sapere che anche Benincasa la pensi così: «La nostra non è satira sulla tv, e se c’è satira è involontaria. Lundini è satira della vita. Lundini sbaglia le domande, non sa nulla dell’ospite che deve intervistare. È un uomo impreparato chiamato a fare qualcosa che non sa fare, e questa è una coda che ha a che fare con la vita, non solo con la televisione». Altro che satira televisiva, qui siamo nel più puro degli zeitgeist. Siamo circondati da tantissimi Lundini costretti a esprimersi, rilasciare pareri, prendere decisioni, gestire cose di cui non sanno granché. A differenza di Lundini, la loro è un’impreparazione spesso molto euforica, assai tracotante, un’impreparazione che non conosce imbarazzo o vergogna (sentimenti scomparsi dalla sfera pubblica). Al massimo, ci sono le gaffe seguite dalla “rettifica”. E la rettifica è quasi sempre peggio.
«Quelle di Lundini, invece, non sono gaffe», spiega Benincasa, «i suoi sbagli restano lì, avvolti in un superbo silenzio antitelevisivo». Ecco perché l’idea di scrittura che sta dietro questo programma non è archiviabile alla voce “satira televisiva”. Tutta la tv è ormai satira più o meno involontaria della televisione. «E poi che senso avrebbe oggi fare satira televisiva avendo puntato su un pubblico giovane?», sottolinea giustamente Benincasa, «un pubblico che la tv generalista non l’ha vista mai e che forse si domanda cosa sia quel logo ‘Rai2’ sull’inquadratura mentre vede Lundini su Instagram?». Come fanno a ridere di una cosa che non conoscono? Casomai, Lundini è vero servizio pubblico: «Stiamo facendo l’alfabetizzazione umoristica agli ultrasessantenni e allo stesso tempo stiamo portando i ventenni sulla Rai».
I ventenni scopriranno magari su RaiPlay gli sceneggiati con Alberto Lupo. Gli ultrasessantenni saranno iniziati alla “meta-post ironia”, anche se non hanno mai letto David Foster Wallace. Prenderanno a dire “weird” e “cringe”, quel termine internettaro che indica “una situazione scomoda, il sentirsi estremamente in imbarazzo per il comportamento di qualcuno, per il suo aspetto o il suo carattere”, insomma un “momento Lundini”. Per ora l’esperimento pare soprattutto riuscito coi ventenni. Sono i social che stanno trascinando RaiDue. Come mi ha detto un mio studente, «ho provato a far vedere Lundini ai miei genitori, ma non capivano dove dovevano ridere e perché».
Sta qui anche la differenza fondamentale con Propaganda Live, un programma che si muove ancora nell’orbita del dandinismo. Uno dei tanti meriti di Lundini è la dimostrazione che è possibile fare una tv divertente ma laica, cioè senza passare dalla “satira-politica-de-sinistra”, ma esplorando casomai le sconfinate possibilità creative della noia. «Noi annoiamo in modo creativo, annoiamo divertendo». Certo ci vogliono Lundini e Fanelli. Un nerd geniale e un puro talento attoriale, la migliore performer femminile in circolazione. Ci vuole una squadra di giovani autori, quelli che Benincasa ha chiamato con sé a lavorare a una “Pezza”, che diventa quindi anche un programma-factory, una formidabile palestra per chi vuole scrivere televisione, per i nuovi che negli anni potranno crescere.
Lo scarto con la banda di Propaganda Live è poi tutto in quel completo blu con cravatta che indossa sempre Lundini, un completo “blu Lundini”, come il “blu di Prussia”. Con una t-shirt dei “Ramones”, Lundini sarebbe finito in quota “tv giovane e irriverente”. Non ce lo saremmo filati. Così invece buca lo schermo. «Lundini è un uomo impreparato ma elegantissimo. Io curo personalmente il suo nodo della cravatta. Non si va in onda finché non è perfetto. Supervisiono anche il trucco di Emanuela Fanelli e la curvatura degli anziani seduti in studio». È così che si fa la televisione.
Con una grande voglia di farla bene. Senza quello sprezzo annoiato, senza il malcelato fastidio o la vergogna che hanno molti colleghi di Benincasa che pensavano di diventare Borges o Orson Welles e allora si vendicano su di noi scrivendo brutta televisione. Invece, come dice Benincasa, «l’Abc della televisione è facile. Sono queste tre lettere: A di Arbore, B di Baudo, C di Costanzo. Hanno creato tutto ciò che ancora oggi va in onda. Idee, format, personaggi. Tutto. Tranne Una pezza di Lundini e poco altro». Andrea Minuz