“dato che quando noi siamo vivi essa non esiste, quando si presenta non esistiamo più noi”, nella traduzione di Giulio Cesare Maggi, Epicuro e oltre. Per un’etica della felicità, Obarra edizioni, 2012

“Perciò la morte, il più temuto di tutti i mali, per noi è nulla, dato che quando noi siamo vivi essa non esiste, quando si presenta non esistiamo più noi”

da:

Morire – prende solo poco tempo, in The Complete Poems of (Tutte le poesie di) Emily Dickinson – J251-300

Morire – richiede appena un breve momento –

Dicono che non faccia male –

È solo un perdere i sensi – per gradi – E poi – si è fuori di vista –

Un Nastro più scuro – per un Giorno –

Un Crespo sul Cappello –

E poi arriva la piacevole luce del sole –

E ci aiuta a dimenticare –

L’assente – mistica – creatura –

Che senza l’amore per noi –

Si sarebbe addormentata – nell’attimo estremo –

Senza fatica –

The Complete Poems of (Tutte le poesie di) Emily Dickinson – J251-300

La maggior parte degli uomini sono come una foglia secca … HERMAN HESSE

La maggior parte degli uomini sono come una foglia secca, che si libra nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come le stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in sé stessi la loro legge e il loro cammino.

La vita cambia in fretta … , di Joan DIDION, L’anno del pensiero magico, Il Saggiatore, 2006

La vita cambia in fretta

La vita cambia in un istante

Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita

Il problema dell’autocommiserazione

in Joan DIDION, L’anno del pensiero magico, Il Saggiatore, 2006

«Filastrocca della morte», di Mimmo Mòllica. Dedicata a Gigi Proietti nel giorno della morte

Chissà, io morirò forse domani,
triste e malato o sbranato dai cani?
Forse io me ne andrò senza parlare,
forse danzando, impegnato a ballare?
Magari morirò sotto Natale,
forse per Pasqua oppure a Carnevale?

Forse tra un anno tirerò le cuoia
ucciso dalla fame o dalla noia?

…..

Venga correndo, corra, salti, voli,
però non porti fiori né cannoli,
giacché non siamo antichi né moderni,
noi siamo il tempo, quindi siamo eterni.

vai alla intera poesia

https://parcodeinebrodi.blogspot.com/2020/11/filastrocca-della-morte-di-mimmo-mollica.html

MARCO AURELIO: La vita umana ha la durata di un istante … cosa resta che ci possa scortare? … conservare intatto il nostro demone interiore, che sarà così superiore ai piaceri e ai dolori …

MARCO AURELIO2504MARCO AURELIO2505

citazione tratta da

La sapienza degli antichi, Il Melangolo editore, Genova, 2014

UN PERSONAGGIO A TUTTO CAMPO: ANTONIO SPALLINO, POLITICO, INTELLETTUALE E SPORTIVO, il ricordo di Vincenzo Guarracino

SPALLINO UN RICORDO

UN PERSONAGGIO A TUTTO CAMPO: ANTONIO SPALLINO, POLITICO, INTELLETTUALE E SPORTIVO

Per molti, a Como, è rimasto “il Sindaco” per antonomasia, avendo ricoperto questa carica per tre mandati dal ’70 all’’85, interpretando la politica come servizio, con serenità e rigore, al punto da imprimere una fisionomia ben precisa alla città con interventi decisivi e fortemente innovativi (per tutti, la famosa Città Murata e la Spina Verde).

Uomo politico, sportivo, dirigente e intellettuale, era nato a Como il 1° di aprile del 1925.

Personaggio di indiscusso e prestigioso passato, è stato molte cose contemporaneamente: amministratore, politico, sportivo, dirigente, pubblicista, bibliofilo.

Impegnato in politica fin dagli anni ’60 nelle file della Democrazia Cristiana, nella quale aveva militato già suo padre, il senatore Lorenzo, è stato assessore all’urbanistica per il comune di Como dal 1965 al 1970 e poi Sindaco per tre mandati dal 1970 al 1985. Tra il ’77 e il ’79, era stato chiamato a far fronte al disastro ecologico dell’Icmesa di Seveso, in Brianza in qualità di Commissario straordinario della regione Lombardia.

Straordinaria, tra scherma e alpinismo, la sua carriera di sportivo. Nella scherma, era stato campione italiano assoluto di spada nel 1949, di fioretto nel 1958, campione del mondo a squadre di spada nel ’49 e di fioretto nel ’54 e ’55, e inoltre aveva vinto tre medaglie olimpiche, tra Helsinki nel ’52 e Melbourne nel ’56.

Nell’alpinismo, aveva fatto due scalate direttissime, l’una su roccia (1955), l’altra su ghiaccio (1956), nel gruppo dell’Ortles, in Alto Adige.

Come dirigente sportivo, era stato Presidente dapprima del Panathlon club di Como dal ’70 al ’74, e successivamente del Panathlon International dall’’88 al ’96, oltre che vice presidente del Comitato Internazionale “fair play”.

Presidente del Centro di Cultura Scientifica “A.Volta”, fin dalla sua origine nel 1981, è stato autore di importanti pubblicazioni che abbracciano ambiti diversi: dall’urbanistica, alla scherma, alla critica letteraria, alla poesia, alla bibliofilia.

Tra questi, vanno ricordati: Una frase d’armi (1997), sulla sua carriera di sportivo, “Ma perché tu non mi creda libero” (2001), sull’amore per i libri, e La Bibliothèque Moselliana. Les livres d’escrime (2005), monumentale compilazione su quanto è stato scritto nel tempo sul tema della scherma; oltre ciò, una raccolta di liriche, Le sepolte voci (1992), e la rivista di poesia e di critica letteraria “Sentimento”, di breve ma luminosa vita, pensata e realizzata nell’immediato dopoguerra, nel 1946, assieme ad alcuni amici (tra i quali, Francesco Somaini e Morando Morandini).

Nel 1995 gli era stata assegnata dalla città di Como l’onorificenza dell’Abbondino d’oro.

Poliedrico e versatile, dunque, dalle molteplici  applicazioni e competenze in ambiti diversi e apparentemente contrastanti, in ognuno rivelandosi capace di far tesoro dell’esperienza acquisita per riversarla in un armonico insieme.

Con in più il dono di saper coltivare e trasmettere un patrimonio di memorie, suo e di un’intera generazione, per mezzo della scrittura, lasciando trasparire attraverso la sua filigrana la dote di talenti ricevuti e posti a frutto e tali da comunicare agli altri la forza e ricchezza del suo stesso sistema di valori.

Il tutto, restando sempre fedele a una propria riconoscibile cifra esistenziale, intellettuale e soprattutto morale, corroborato da una serena fede fondata sui valori essenziali, quelli che lo sostenevano a livello intimo e privato ed erano non meno necessari nella vita pubblica: volontà di capire per incidere e cambiare, con competenza tecnica e sensibilità sociale, in una prospettiva trascendente, cercando di conciliare realismo e utopia, senza comunque farsi illusioni sui risultati del suo impegno, consapevole com’è dell’arditezza della sua sfida e rispettoso sempre della qualità dei suoi interlocutori.

VINCENZO GUARRACINO


Antonio Gramsci: “tutte le quistioni dell’anima e dell’immortalità dell’anima e del paradiso e dell’inferno non sono poi in fondo che un modo di vedere questo semplice fatto: che ogni nostra azione si trasmette negli altri secondo il suo valore”. Citazione ricordata da M.L.S

“…Se ci pensi bene tutte le quistioni dell’anima e dell’immortalità dell’anima e del paradiso e dell’inferno non sono poi in fondo che un modo di vedere questo semplice fatto: che ogni nostra azione si trasmette negli altri secondo il suo valore, di bene e di male, passa di padre in figlio, da una generazione all’altra in un movimento perpetuo. Poiché tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato le tue forze per tirarci sù, ciò significa che tu sei, già da allora, nell’unico paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli…”

Era … era il LARGO DEL NOCE (1989-2016)

LUOGHI del LARIO e oltre ...

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confidenze con  V.U.:

  • Il largo del noce (e dell’acero) è oltrepassato. Vedremo cosa succederà, caro Paolo
  • bellissima confidenza di cui ti sono grato
  • Pensieri anche, anzi soprattutto, leopardiani. Perdonami questo cedimento nichilistico. Ma il mio io individuale (come quello di ogni altro) non riesce sempre a far saldamente proprie le indicazioni del mio esser “Io del destino”. Lo dico sempre a Emanuele: è questo il mio limite, che è poi il limite di ognuno di noi rispetto allo sguardo del destino della verità.

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Paolo Ferrario, Como, 1948 – Disposizioni anticipate di trattamento e consenso informato in caso di malattia invalidante e grave

Paolo Ferrario, Como, 1948 –

Disposizioni anticipate di trattamento

e consenso informato in caso di malattia invalidante e grave

Scritto il 8  Ottobre 2008, confermato e aggiornato il 15 dicembre 2017 (dopo l’approvazione della  LEGGE 22 dicembre 2017, n. 219) e poi ancora il 5 febraio 2019.

“Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse forme di cui al comma 4, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici.”, articolo 1 della LEGGE 22 dicembre 2017, n. 219

Io sottoscritto, Paolo Ferrario, nato a Como il 26 novembre 1948 e residente in questa città, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e fisiche, dichiaro quanto segue.

Potrebbe accadere che, a un certo punto della mia vita, mi venga a trovare in uno stato di malattia allo stadio terminale, coma irreversibile, morte cerebrale e, in generale, in un qualsiasi stato fisico nel quale la mia sopravvivenza sia legata all’utilizzo non temporaneo di macchine o altri sistemi artificiali, compresa l’alimentazione e l’idratazione forzata.

Nel caso fossi nelle condizioni di esprimere il mio consenso informato sono certo che non accetterei una degradazione corporea oltraggiosa per il mio sentimento della dignità personale. E, dunque, rifiuterei le “cure”.

Nel caso, invece, in cui fossi impossibilitato a esprimere la mia volontà, chiedo ora a mia moglie, alle persone che mi hanno conosciuto, al personale di assistenza che incontrerò, ai detestabili comitati di bioetica che vorrebbero decidere per me, al giudice che sarà chiamato ad emettere una sua sentenza, un gesto di compassione (nel senso di “comunanza di dolore”).

Ritengo che ogni forma di accanimento terapeutico che venisse praticato contro la mia volontà  sia un atto di crudeltà, lesivo della mia dignità di essere umano. Di conseguenza, considero la sospensione di tali trattamenti come un gesto di compassione.

Ho paura della morte, e ancora più della sofferenza, tanto più se inutile e indotta da tecnologie mediche (delle quali apprezzo immensamente i progressi scientifici e tecnici) ormai impossibilitate a consentire una qualità di vita accettabile alla mia sensibilità psicologica ed esistenziale. Vorrei tuttavia poterla accogliere come un lungo ed eterno sonno dove le molecole momentaneamente aggregate nel mio attuale corpo si stanno riaggregando in altre forme di vita. Là, nell’infinito che mi pre-esisteva e che continuerà oltre il mio temporale Io.

Considero l’essere tenuto in vita da un macchinario che si sostituisce permanentemente alle mie funzioni vitali una violenza da me non voluta che ritarda l’appuntamento che comunque mi aspetta, come per qualunque essere vivente.
Il corpo che ho avuto in prestito in vita lo cedo per trapianti. Nel caso incerto che ci fosse ancora qualcosa di utilizzabile

Per quello che potrà contare, lascio, infine, questa volontà.

Non vorrò funerali alla mia morte.

Le regole burocratiche decidano dove dovranno andare le mie ceneri. Mi piacerebbe che fossero restituite alla terra, nel luogo che più ho amato, oppure al lago che non ho mai abbandonato in tutto il corso del tempo che il  destino mi ha affidato.

La morte è la soglia inevitabile che attende ciascuno.

Le religioni pretendono di parlare di una ipotetica vita che ci sarà oltre quella soglia. La loro parola è violenza, essendo le religioni le prime “omicide” di ogni uomo che, da “essente” è destinato alla “gioia”, prima ancora che esse volessero far valere il loro bisogno di dominio attraverso i loro mostruosi “ministri”

Al mortale non è dato sapere cosa effettivamente ci sarà. Conta solo e soltanto il tempo presente e il ricordo. Tempo presente e ricordo conducono agli “eterni”. Non c’è bisogno di religioni

L’unica cosa che effettivamente possiamo fare è dare grande importanza all’ogni attimo che si manifesta prima di quella soglia.

Le persone vanno trattate bene, o male, prima della morte. Prego, dunque, che mi sia socialmente risparmiata l’ipocrisia del falso cordoglio funebre nei riti dei funerali

Paolo Ferrario

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… Lasciandoci alle spalle il dolore e la morte, quella luce mostrerà all’infinito una Gioia sempre più infinita …, Emanuele Severino, in IL MIO RICORDO DEGLI ETERNI, Rizzoli, 2011, p. 11

Insieme a tutti i miei morti – e insieme a tutti i morti – mi aspetta. I nostri morti ci aspettano. Ora sono degli Dèi. Per ora stanno fermi nella luce. Come le stelle fisse del cielo.

Poi, quando la vicenda terrena dell’uomo sarà giunta al proprio compimento, sarà necessario che ognuno faccia esperienza di tutte le esperienze altrui e che in ognuno appaia la Gioia infinita che ognuno è nel profondo. Essa oltrepassa ogni dolore sperimentato dall’uomo.

Siamo destinati a una Gioia infinitamente più intensa  di quelle che le religioni e le sapienze di questo mondo permettono

E non riposeremo “in pace”. In pace riposano i cadaveri. Lasciandoci alle spalle il dolore e la morte, quella luce mostrerà all’infinito una Gioia sempre più infinita

 

in Emanuele Severino, IL MIO RICORDO DEGLI ETERNI, Rizzoli, 2011, P. 11

‘A livella di Totò

Ogn’anno, il due novembre, c’é l’usanza

per i defunti andare al Cimitero.

Ognuno ll’adda fà chesta crianza;
ognuno adda tené chistu penziero.

Ogn’anno,puntualmente,in questo giorno,
di questa triste e mesta ricorrenza,
anch’io ci vado,e con dei fiori adorno
il loculo marmoreo ‘e zi’ Vicenza.

St’anno m’é capitato ‘navventura…
dopo di aver compiuto il triste omaggio.
Madonna! si ce penzo,e che paura!,
ma po’ facette un’anema e curaggio.

‘O fatto è chisto,statemi a sentire:
s’avvicinava ll’ora d’à chiusura:
io,tomo tomo,stavo per uscire
buttando un occhio a qualche sepoltura.

“Qui dorme in pace il nobile marchese
signore di Rovigo e di Belluno
ardimentoso eroe di mille imprese
morto l’11 maggio del’31”

‘O stemma cu ‘a curona ‘ncoppa a tutto…
…sotto ‘na croce fatta ‘e lampadine;
tre mazze ‘e rose cu ‘na lista ‘e lutto:
cannele,cannelotte e sei lumine.

Proprio azzeccata ‘a tomba ‘e stu signore
nce stava ‘n ‘ata tomba piccerella,
abbandunata,senza manco un fiore;
pe’ segno,sulamente ‘na crucella.

E ncoppa ‘a croce appena se liggeva:
“Esposito Gennaro – netturbino”:
guardannola,che ppena me faceva
stu muorto senza manco nu lumino!

Questa è la vita! ‘ncapo a me penzavo…
chi ha avuto tanto e chi nun ave niente!
Stu povero maronna s’aspettava
ca pur all’atu munno era pezzente?

Mentre fantasticavo stu penziero,
s’era ggià fatta quase mezanotte,
e i’rimanette ‘nchiuso priggiuniero,
muorto ‘e paura…nnanze ‘e cannelotte.

Tutto a ‘nu tratto,che veco ‘a luntano?
Ddoje ombre avvicenarse ‘a parte mia…
Penzaje:stu fatto a me mme pare strano…
Stongo scetato…dormo,o è fantasia?

Ate che fantasia;era ‘o Marchese:
c’o’ tubbo,’a caramella e c’o’ pastrano;
chill’ato apriesso a isso un brutto arnese;
tutto fetente e cu ‘nascopa mmano.

E chillo certamente è don Gennaro…
‘omuorto puveriello…’o scupatore.
‘Int ‘a stu fatto i’ nun ce veco chiaro:
so’ muorte e se ritirano a chest’ora?

Putevano sta’ ‘a me quase ‘nu palmo,
quanno ‘o Marchese se fermaje ‘e botto,
s’avota e tomo tomo..calmo calmo,
dicette a don Gennaro:”Giovanotto!

Da Voi vorrei saper,vile carogna,
con quale ardire e come avete osato
di farvi seppellir,per mia vergogna,
accanto a me che sono blasonato!

La casta è casta e va,si,rispettata,
ma Voi perdeste il senso e la misura;
la Vostra salma andava,si,inumata;
ma seppellita nella spazzatura!

Ancora oltre sopportar non posso
la Vostra vicinanza puzzolente,
fa d’uopo,quindi,che cerchiate un fosso
tra i vostri pari,tra la vostra gente”

“Signor Marchese,nun è colpa mia,
i’nun v’avesse fatto chistu tuorto;
mia moglie è stata a ffa’ sta fesseria,
i’ che putevo fa’ si ero muorto?

Si fosse vivo ve farrei cuntento,
pigliasse ‘a casciulella cu ‘e qquatt’osse
e proprio mo,obbj’…’nd’a stu mumento
mme ne trasesse dinto a n’ata fossa”.

“E cosa aspetti,oh turpe malcreato,
che l’ira mia raggiunga l’eccedenza?
Se io non fossi stato un titolato
avrei già dato piglio alla violenza!”

“Famme vedé..-piglia sta violenza…
‘A verità,Marché,mme so’ scucciato
‘e te senti;e si perdo ‘a pacienza,
mme scordo ca so’ muorto e so mazzate!…

Ma chi te cride d’essere…nu ddio?
Ccà dinto,’o vvuo capi,ca simmo eguale?…
…Muorto si’tu e muorto so’ pur’io;
ognuno comme a ‘na’ato é tale e quale”.

“Lurido porco!…Come ti permetti
paragonarti a me ch’ebbi natali
illustri,nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?”.

“Tu qua’ Natale…Pasca e Ppifania!!!
T”o vvuo’ mettere ‘ncapo…’int’a cervella
che staje malato ancora e’ fantasia?…
‘A morte ‘o ssaje ched”e?…è una livella.

‘Nu rre,’nu maggistrato,’nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’o punto
c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme:
tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò,stamme a ssenti…nun fa”o restivo,
suppuorteme vicino-che te ‘mporta?
Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:
nuje simmo serie…appartenimmo à morte!”

Mariangela Melato (1941 – 2013), In cerca di te (sola me ne vò per la città)

Un ricordo di Renzo Arbore

L’ultima volta che lui è andato a trovarla, l’altro ieri in clinica, hanno cantato insieme. «Era una vecchia canzone degli anni 40, mi pare si intitoli “Americano non posso cantar”. E lei era felicissima, perché si ricordava tutte le parole… e mi prendeva in giro perché io invece…».
La voce si interrompe per la commozione. Renzo Arbore fa fatica a parlare, il dolore per la perdita di Mariangela Melato è troppo grande e le parole, di tanto in tanto, si spezzano, lasciando il posto alle lacrime.
«E pensare che con una canzone ci siamo fidanzati: fu una sera, quando Lucio Battisti ci fece ascoltare per la prima volta un brano che non era stato ancora pubblicato”

È morto Ando Gilardi uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, autore di libri davvero straordinari, fotografo lui stesso, direttore di riviste, giornalista, fotoreporter, e altro ancora, fondatore della Fototeca storica nazionale

conosciuto nei primi anni ’70, quando, per guadagnare qualche lira, facevo il correttore di testi per la enciclopedia I MONDI DELL’UOMO, editore il Libro del Mondo  (direttore editoriale Franco Salghetti-Drioli, caporedattore Maurizio Rosenberg Colorni)

Paolo Ferrario, 8 marzo 2012

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È morto Ando Gilardi uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, autore di libri davvero straordinari, fotografo lui stesso, direttore di riviste, giornalista, fotoreporter, e altro ancora; oltre che fondatore della Fototeca storica nazionale.

I suoi libri sono stati riediti negli anni da Bruno Mondadori, l’ultimo ha come titolo Meglio ladro che fotografo (2007). Michele Smargiassi ne ha tracciato un bel profilo su La Repubblica di lunedì 6 marzo, e lo ricorda nel suo blog; lo voglio qui ricordare con un pezzo scaturito dalla riedizione di Wanted! Storia, tecnica ed estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria uscito nel 2003 (Bruno Mondadori, Milano, pp. 210).


Ando Gilardi. Wanted! | Doppiozero

Il ricordo di Michele Smargiassi su La Repubblica: http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/2012/03/06/ricordando-e-ripensando/comment-page-1/

JAMES HILLMAN (1926-2011), L’ULTIMA INTERVISTA: “STO MORENDO MA NON POTREI ESSERE PIU’ IMPEGNATO A VIVERE”, di SILVIA RONCHEY, in TUTTOLIBRI 29 ott 2011


«Sto morendo, ma non potrei essere più impegnato a vivere». Così aveva scritto, nella sua ultima mail. E così l’ho trovato, quando sono andata a salutarlo per l’ultima volta nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, pochi giorni prima che morisse: il fantasma di se stesso, ma incredibilmente vitale; il corpo fisico ridotto al minimo, quasi mummificato, tutto testa, pura volontà pensante. Restare pensante era la sua scommessa, la sua sfida. Per questo aveva ridotto al minimo la morfina, a prezzo di un’atroce sofferenza sopportata con quella che gli antichi stoici chiamavano apatheia: un apparente distacco dalla paura e dal dolore che traduceva in realtà un calarsi più profondo in quelle emozioni. L’unica cosa che contava era analizzare istante dopo istante se stesso e quindi la morte come atto oltre che nella sua essenza. Se Steve Jobs, morendo, ha lasciato detto «stay hungry, stay foolish», l’ultimo insegnamento di James Hillman può riassumersi così: «Resta pensante» fino all’ultima soglia dell’essere
Il tempo qui sembra fermo, le lancette puntate sull’essenza ultima.

«Oh, sì. Morire è l’essenza della vita».

Com’è morire?
«Uno svuotamento. Si comincia svuotandosi. Ma, si potrebbe chiedere, che cos’è o dov’è il vuoto? Il vuoto è nella perdita. E che cosa si perde? Io non ho “perso” nel senso comune di “perdere”. Non c’è perdita in quel senso. C’è la fine dell’ambizione. La fine di ciò che si chiede a se stessi. E’ molto importante. Non si chiede più niente a se stessi. Si comincia a svuotarsi degli obblighi e dei vincoli, delle necessità che si pensavano importanti. E quando queste cose cominciano a sparire, resta un’enorme quantità di tempo. E poi scivola via anche il tempo. E si vive senza tempo. Che ore sono? Le nove e mezza. Di mattina o di sera? Non lo so».

E’ una condizione perseguita dai mistici.
«Oh sì, dall’induismo per esempio, gli induisti ne scrivono. Ma in questo caso è tutto unwillkürlich, involontario. E’ accidentale».

Comunque non credo non ti sia rimasta nessuna ambizione.«Davvero?» [Apre di scatto gli occhi finora socchiusi, con un lampo azzurro di sfida.]

Ti resta quella degli antichi romani: lasciare il tuo pensiero ai posteri.
«E’ vero. E’ molto importante per me che il mio pensiero rimanga. Ma la parola posteri mi rimanda a postea, a un dopo, a un futuro, in cui non voglio essere trasportato adesso».

Perché esisti solo al presente.
«Sì, e voglio tenere chiusa la porta con il cartellino “Exitus”. La potrò aprire a un certo punto, quando capirò come farlo nel modo giusto. [Tenta di scuotere il capo, ma il dolore lo ferma]. Non saprei ora come aprire quella porta senza che ne dilaghi una folla di creaturine che vogliono qualcosa. Molti degli antichi filosofi ne sono stati catturati, probabilmente tu sai chi lo è stato più degli altri. Io non voglio. Il mio compito è dialogare e tenere il dialogo aperto su quel che accade momento per momento. Il mio è piuttosto un reportage. Dal vivo. Dal vero»

Non potrebbe essere altrimenti: o non fai il reportage – come la maggior parte di chi si trova nella tua condizione – oppure ciò che riferisci è la verità. E penso che tutti siano affamati di questa verità.
«Tutti sono affamati di morte. La nostra cultura lo è. Io, qui, come vedi, ne parlo continuamente. Ma non la esprimo. Perché nella morte io sono impegnato. Non voglio uscirne, per esprimerla, per vederla o guardarla in trasparenza. Non cerco di formularla. Ogni tanto si realizza qualcosa che mi porta in un altro luogo dal quale posso osservarla. Magari anche di riflesso. Ogni sorta di cose si riflettono in questa introspezione, ma non l’attività essenziale di ciò in cui sono impegnato [ossia l’atto del morire]. Il tempo che mi dò è il qui e ora».
Capisco
«E’ molto importante ciò che semplicemente il giorno ci dà, ogni singola cosa che si realizza durante il giorno. La persona, l’osservazione che ha fatto, l’odore dell’aria in quel momento. E queste cose hanno bisogno di accettazione, di ricognizione, di riconoscimento... Adesso non ho ancora la parola giusta. Ma trovare le parole è magnifico. Trovare la parola giusta è così importante. Le parole sono come cuscini: quando sono disposte nel modo giusto alleviano il dolore».

E il dialogo aiuta a trovarle?
«Sì, e mi rende così felice. Sai, da qualche tempo le persone vengono da me come se avvertissero in me il richiamo di quel vuoto di cui parlavo. Se io non fossi così vuoto, non verrebbero».

Come un risucchio che attira.
«Dev’essere così».

O una condizione di saggezza?
«No. Una calamita. Cercano qualcosa cui attaccarsi. Vogliono qualcosa, ed è la mia capacità di cristallizzare e formulare. Due parole che sono usate per una delle ultime fasi dell’alchimia. Cristallizzazione e formulazione. Le persone sono in pessima forma di questi tempi, il mondo è in pessima forma. E in qualche modo il mio avere trovato qualche solidità li attrae.

Ma non parlavi di vuoto?
«Sì. Il mio stato di svuotamento esprime qualcosa che non avevo finora realizzato e che può riassumersi nella parola coagulatio. Due princìpi governano tutti i processi alchemici: la coagulatio e la dissolutio. Coagulatio in alchimia significa rapprendersi in un punto, diventare più solidi, più definiti, formati, dotati di morphe. Ora l’intero processo che sto attraversando è la coagulazione della mia vita nel tempo. Ma la coagulatio è sempre seguita dalla dissolutio. Che è esattamente il contrario: dissoluzione, le cose che si separano, si sciolgono, perdono la loro capacità di definirsi. La cosa interessante è che improvvisamente questo spiega i miei sintomi. Non faccio che pensare, morbosamente, che sto affondando sempre di più, che mi sto dissolvendo. Ma le due cose, dissoluzione e coagulazione, sono inscindibili. Non è fantastico? Non ci avevo riflettuto finché non mi è venuta per la prima volta in mente la coagulatio. E la rubefactio, che permette alla bellezza di mostrarsi. Così ora sono una persona diversa. Non avevo mai percepito queste cose dentro di me. O non le avevo mai riconosciute. Prima, non avevo mai saputo chi ero».

Da dove viene questa consapevolezza?
«Oh, decisamente dal morire».

Ti dici «impegnato nel morire». Vuoi arrivare alla morte in piena consapevolezza. Ma, come diceva Epicuro cercando di spiegare perché non bisogna averne paura, «se ci sei tu non c’è la morte, e se c’è la morte non ci sei tu». «Esatto».

Mi sto domandando se allora questo tuo morire non sia un’intensificazione del vivere. «Assolutamente sì, non c’è il minimo dubbio. Quando la morte è così vicina la vita cresce, si esalta. Ne sono certo. Ma non vorrei essere presuntuoso».

In che senso?«Orgoglio, arroganza, hybris: attenzione a non peccare contro gli dèi. Mai, in nessuna occasione».

Certo, ma non credo che la tua sia hybris. Credo sia puro coraggio affrontare la morte a occhi aperti. E’ raro, ed è per questo che il tuo reportage è così prezioso.«E’ prezioso, sì. Mi sto rendendo conto di qualcosa che non avevo mai realizzato prima. Ha a che fare con un certo argomento di cui Margot ed io dovremo parlare prima, una certa decisione che io potrei prendere. Sai, nel mondo di oggi mi è consentito, come lo sarebbe stato nel mondo greco».
Capisco a cosa alludi.
«Ma il punto è che dovrei mettermi nelle loro mani, e sarebbero loro a decidere. In qualche modo io sarei il loro strumento, non loro il mio. Intendiamoci, lo spero. Ma sarebbero loro a informarmi quand’è il mio momento. Oppure potrei prenderlo nelle mie mani, che sono lo strumento classico: la mano [Hillman fa il gesto di trafiggersi il petto], o la vasca da bagno, come Petronio. Ma il fatto è che l’intera cerimonia – perché la definirei così – non è ancora lontanamente immaginabile. O meglio, l’idea è immaginabile, dato che ne sto parlando ora. Ma c’è un’altra idea, sempre antica, che in qualche modo contrasta. Primum nil nocere. Primo, non fare del male. [Si tratta del giuramento di Ippocrate.]

E allora, qual è la decisione migliore? che ne pensi?
Gli antichi stoici dicevano, a proposito del suicidio: “C’è del fumo in casa? Se non è troppo resto, se è troppo esco. Bisogna ricordarsi che la porta è sempre aperta”. Evidentemente, la tua casa non è ancora piena di fumo. Quando lo sarà, lo sentirai.
«Riuscirò a sentirlo?»

Forse ti sentirai confuso. Quello che so è che ora stai respirando, non c’è fumo nel tuo cervello, nella tua psiche, nella tua anima. Quando ci sarà, forse prenderai in considerazione il suggerimento degli stoici. Non sei forse un pagano? non hai allenato per tutta la vita il tuo istinto a percepire le epifanie degli dèi?
«Oh sì che sono un pagano. E’ questo il punto».

E’ pagana anche la tua percezione della bellezza, del grande teatro verde della natura che hai scelto per questa tua ars moriendi, questa tua arte pagana del morire che è anche, o anzi è soprattutto un’arte estrema del vivere.

«Non mi piace definirla un’ars moriendi. E’ piuttosto un’arte dello stare in prossimità dell’essere, tenersi più stretti possibili a ciò che è».(fonte: Tuttolibri, in edicola sabato 29 ottobre)

James Hillman (1926-2011) raccontato da Nicole Janigro | in Doppiozero

Il suicidio e l’animaSenex et puerSaggio su PanIl mito dell’analisiRe-visione della psicologia,Il sogno e il mondo inferoLe storie che curanoLa cucina del Dottor FreudSaggi sul PuerCento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggioFuochi bluIl codice dell’animaPuer aeternus,Politica della bellezzaLa forza del carattereL’anima dei luoghiUn terribile amore per la guerra,La ricerca interiore. Da mezzo secolo i libri di James Hillman accompagnano un’infinità di esistenze, i suoi titoli hanno segnato la via di chi crede che conoscere l’anima sia uno stato dell’essere, la psicologia una metafora per rappresentare la spaccatura tra cultura e natura, la psicoanalisi quell’illusione capace di trasformare il mondo.

l’intero articolo è qui: Nicole Janigro racconta James Hillman | Doppiozero

La Techne non ha scandito ancora l’inizio del ciclo del dolore

è stata una giornata importante.
Infatti con ansia ho portato gli esami diagnostici
(che noi in prospettiva severiniana
consideriamo sentenze della tecnica dell’Occidente)
dunque ho attraversato la città
pensando alla poesia “un passo dopo l’altro” di Mark Strand.
Ho pensato di propiziare il destino regalando una tartarughina 
alla mia tartarugosa.
A casa sento la sua telefonata nella quale mi dice
che forse le cose non sono gravi.
Forse abbiamo ancora del tempo che resta.
Facciamone un uso buono, mite e denso di comunicazione amorevole
 e intersoggettiva

Emanuele Severino: … di tutte le cose è necessario dire che è impossibile che non siano, cioè è necessario affermare che tutte sono eterne | da Coatesa sul Lario e dintorni

… la follia essenziale si esprime nella persuasione che le cose escono e ritornano nel niente. Il mortale è appunto questa volontà che le cose siano un oscillare tra l’essere e il niente.

Al di fuori della follia essenziale, di tutte le cose è necessario dire che è impossibile che non sianocioè è necessario affermare che tutte – dalle più umili e umbratili alle più nobili e grandi – tutte  sono eterne

Tutte, e non solo un dio, privilegiato rispetto ad esse.

se il divenire non appare come annientamento, ma come l’entrare e l’uscire delle cose dal cerchio dell’apparire, allora l’affermazione dell’eternità del tutto stabilisce la sorte di ciò che scompare: esso continua a esistere, eterno, come un sole dopo il tramonto.

Non solo la legna fiammeggiante, le braci, la cenere, il vento che le disperde sono eterni astri dell’essere che si succedono nel cerchio dell’apparire, ma anche tutte le fasi dell’albero che

nella valle ove fresca era la fonte/e il giovane verde dei cespugli/giocava al fianco delle calme rocce/e l’etere tra i rami traluceva/e quando intorno i fiori traboccavano (Holderlin),

hanno preceduto la legna tagliata per il fuoco.

Quando gli astri dell’essere escono dal cerchio dell’apparire, il destino della verità li ha già raggiunti e impedisce loro di diventare niente.

Appunto per questo essi – tutti – possono ritornare

Emanuele Severino

in La strada. La follia e la gioia (1983), Rizzoli Bur, 2008, p.  103-104

Audio: di tutte le cose è necessario dire che è impossibile che non siano

da: Emanuele Severino: … di tutte le cose è necessario dire che è impossibile che non siano, cioè è necessario affermare che tutte sono eterne | Coatesa sul Lario e dintorni.

Edoardo Boncinelli, Ogni essere vivente è come una bolla di ordine che si genera e si sostiene per qualche tempo in un mare di disordine, da Guy Brown, Una vita senza fine? invecchiamento, morte, immortalità (The Living End, 2008), edizione italiana a cura di Edoardo Boncinelli, traduzione di Gianbruno Guerrerio, Raffaello Cortina, Milano 2009

Ogni essere vivente è come una bolla di ordine che si genera e si sostiene per qualche tempo in un mare di disordine

Edoardo boncinelli

da: Antologia del tempo che resta: Guy Brown, Una vita senza fine? invecchiamento, morte, immortalità (The Living End, 2008), edizione italiana a cura di Edoardo Boncinelli, traduzione di Gianbruno Guerrerio, Raffaello Cortina, Milano 2009

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Berselli Edmondo, 1951-2010

Un mio contemporaneo.
Abbiamo attraversato lo stesso arco storico e biografico.
Ed abbiamo condiviso interessi e passioni simili: la musica, la politica.
Quando cominciano a morire i coetanei occorre fare un atto di contrizione e pensare e pensarsi.
La curva del tempo è inesorabile.
Restano i suoi libri, fra cui il bellisimo racconto del suo rapporto con la Labrador Liù:


Liù è una labrador nera. È arrivata per un ricatto affettivo, ha gettato lo scompiglio prevedibile, ha occupato una famiglia progressista e ne ha rivoluzionato la vita.

Quella che si narra in questo libro, però, non è la storia di un cane. È la «biografia morale» di un animale non immaginario ma esemplare, che racconta come intelligenze diverse, umana e canina, cominciano a sfiorarsi. Ma proprio qui iniziano le sorprese. E sono sorprese filosofiche. E dolori ideologici. E dilemmi intellettuali.
Infatti, grazie allo stile «lunatico» di Berselli, al suo divagare un po’ picaresco, decollano subito, con vari scodinzolii, storie molto italiane e politiche, disincantate e ironiche, in cui avventure e disavventure di razze differenti si specchiano in una visione di pura tolleranza, all¿insegna di un relativismo assoluto, di un italianissimo «sì, vabbè…».
Perché non ci sono verità o regole, nel regno dei labrador. In natura ci sono solo abitudini. Non sarà per caso una buona descrizione dell’Italia di sempre? Allora non stupitevi se la biografia «reazionaria» di Liù si intreccia con quelle di Montanelli e De Felice, di Cacciari e Agnelli, di Pasolini e Nanni Moretti, fra aneddoti memorabili e detti molto celebri o strazianti (con qualche cenno alle avanguardie del Novecento, allo strutturalismo, alla Mitteleuropa, alla teoria dei giochi e alla filosofia medievale, perché se tutto è relativo ogni lasciata è persa). Intorno all’«idea di un cane», ecco allora una società italiana che guarda attonita se stessa, la sua cultura e il suo modo di essere, e alla fine si convince che un metodo, o un rimedio, per la convivenza ci dev’essere: basta accontentarsi di raccontare storie, accoccolati su un divano, immaginando magari una portentosa festa con tutti gli amici che abbiamo, mentre fra i piedi scalzi si diffonde il tepore dolce, filosofico e irrimediabilmente, deliziosamente poco progressista dell’ultimo riferimento politico rimasto, la pancia calda di Liù. in http://www.liberonweb.com/asp/libro.asp?ISBN=8804593571

MARIO CALABRESI su La Stampa

Edmondo Berselli aveva due grandi doti non comuni: l’ironia e l’originalità. Era una persona che valeva la pena conoscere e avere la fortuna di incontrare, anche solo per pochi minuti in mezzo a una strada. In quattro frasi riusciva a illuminare una giornata e a sintetizzare tutto quello che c’era da ricordare dei giornali di quella mattina. Saltava da un argomento all’altro, mescolando l’alto e il basso con naturalezza, spiazzandoti continuamente con i suoi guizzi; ti parlava di una canzone, poi scartava sulla politica per chiudere con un pettegolezzo fulminante. Sottolineava questa brillantezza e il suo estro con un’impercettibile irrequietezza del corpo e con un continuo muoversi in treno per l’Italia, quasi un modo per dare sfogo a tutta l’energia che attraversava la sua testa.

Aveva un modo di pensare libero, mai stereotipato: aveva le radici in una terra di valori solidi e pensiero unico come l’Emilia, di cui manteneva la cadenza dialettale come vezzo, ma a lui piaceva scartare e dissacrare, rompere il conformismo e salutarti con una battuta feroce che ti rimaneva in testa per tutta la giornata.

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Parmenideo, tendenza Severino: … nella verità si mostra il vero Essere che è sempre salvo dal nulla …

Parmenideo, tendenza Severino:

” Il pensiero dell’opposizione infinita tra l’essere e il nulla viene alla luce, nel popolo greco, insieme al pensiero che ci si possa salvare dall’annientamento, in cui la morte consiste, solo con la vera salvezza – quella che appare e si produce con l’apparire della verità. Nella verità si mostra il vero Essere che è sempre salvo dal nulla e in cui l’uomo trova la salvezza di ciò che più gli sta a cuore”

in Emanuele Severino, Immortalità e destino, Rizzoli, 2006, p. 10-11

Ricordo di Giovanni Jervis

Ricordo di Giovanni Jervis

immagine evento

E’ morto a Roma Giovanni Jervis, grande intellettuale del 900 che iniziò la sua carriera con Ernesto De Martino e passò poi a lavorare con Basaglia diventando uno dei padri dell’antipsichiatria. Lo ricordiamo ascoltando alcuni dei suoi ultimi interventi a Fahrenheit scelti dall’archivio. La puntata del 25 agosto 2008, quando presentò il libro Un filo tenace, e quella del 18 aprile 2008, una puntata speciale che mandammo in onda in occasione dei 30 anni dalla Legge Basaglia ( prima parte della puntata sulla 180, seconda parte della puntata sulla 180).

Articolo su La Stampa di Mario Baudino

Radio 3 – Fahrenheit

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In morte di Gino Giugni

Venezia, 6 ott. – (Adnkronos) – “Apprendo con profondo dolore la morte di Gino Giugni. Ero legato al professor Giugni da un vincolo di grande stima e amicizia. Ricordo la sua intensa collaborazione alla Fondazione Gramsci Veneto in anni tragicamente difficili, durante i quali Giugni fu vittima di un gravissimo attentato da parte delle Brigate Rosse proprio per il suo impegno riformatore, nel pieno di una battaglia, che condividevo in tutto, per la riforma degli arcaici sistemi di organizzazione sindacale e del lavoro ancora esistenti nel nostro Paese”.

Lo sottolinea, in una nota, il sindaco di Venezia, Massimo Cacciari.

“Giugni e’ stato uno dei rappresentanti piu’ alti di quel socialismo davvero riformistico e innovatore che in questo Paese purtroppo e’ stato gettato a mare insieme all’acqua sporca dei trasformisti, degli opportunisti, dei tangentisti, con le conseguenze della crisi morale e politica del Paese che ancora viviamo. Ricordare e denunciare tutto questo credo sia il modo migliore per rendere omaggio alla figura di Gino Giugni”, conclude il sindaco di Venezia.

Gianni Basso 1931-2009

Gianni Basso 1931-2009

È morto il sassofonista astigiano, tra i più influenti solisti italiani del dopoguerra

Il sassofonista Gianni Basso, tra i maggiori solisti italiani del dopoguerra, è morto all’età di 78 anni. Nato ad Asti nel 1931, Basso esordisce in Belgio, dove aveva passato l’infanzia, nella big band di Raoul Falsan, nel 1946. Al ritorno in Italia dà vita, insieme al trombettista Oscar Valdambrini, al Basso-Valdambrini Quintet, esperienza fondamentale del jazz di casa nostra. Molte le collaborazioni internazionali, già a partire dai Cinquanta: con big band (la Clarke/Boland, la Maynard Ferguson Big Band…) e con solisti (Chet Baker, Gerry Mulligan, Lee Konitz, Zoot Sims, Art Farmer…). Recenti, nonostante la malattia, le sue ultime apparizioni dal vivo presso il Jazz Club Torino di cui era presidente onorario.

Una buona ragione per morire (attorno al 2050, a 100 anni)

Ecco una buona ragione per morire:

“la popolazione musulmana
nell’Unione Europea è più che raddoppiata nell’ultimo trentennio e raddoppierà di nuovo entro il 2015.
Secondo l’Istituto per le politiche migratorie degli Stati Uniti, nel 2050 sarà di fede islamica un cittadino europeo ogni cinque”

in : http://www.corriere.it/esteri/09_agosto_13/focus_jacomella_europa_islamica_05a305f6-87d5-11de-94f5-00144f02aabc.shtml

La questione è: come scamparla all’infarto, al tumore, all’attentato terrorista, al violento di strada

Hadot P., Ricordati di vivere, Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, Raffaello Cortina

Hadot P.
Ricordati di vivere
Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali

Il libro

Come i Greci, Goethe era convinto della necessità di vivere nel presente, di cogliere la felicità nell’istante anziché perdersi nella nostalgia romantica del passato o nel vagheggiamento del futuro.
Gran lettore di Goethe, Hadot analizza qui come il maestro tedesco si inserisca nella tradizione della filosofia greca. Una magnifica meditazione sull’epicureismo e sullo stoicismo antichi attraverso la poesia di Goethe che faceva dire a Faust: “Solo il presente è la nostra felicità”.

L’autore

Pierre Hadot, filosofo e storico della filosofia, è professore onorario al Collège de France. Tra i suoi testi pubblicati in italiano Wittgenstein e i limiti del linguaggio (Bollati Boringhieri 2007) e La filosofia come modo di vivere (Einaudi 2008).

CAMMINARSI DENTRO (51): Imparare a morire : le mie Pratiche filosofiche, di Gabriele De Ritis

Imparare a vivere, imparare a dialogare, imparare a morire, imparare a leggere sono i quattro esercizi spirituali suggeriti dalla cultura pagana, dentro le pratiche filosofiche adottate dall’uomo greco come esercizio morale e ‘terapia’ dell’anima.

Testamento biologico, aggiornato con il diniego alla alimentazione e idratazione forzata

Io sottoscritto, Paolo Ferrario, nato a Como il 26 novembre 1948 e residente in questa città, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e fisiche, dichiaro quanto segue.
Potrebbe accadere che, a un certo punto della mia vita, mi venga a trovare in uno stato di malattia allo stadio terminale, coma irreversibile, morte cerebrale e, in generale, in un qualsiasi stato fisico in cui la mia sopravvivenza sia legata all’utilizzo non temporaneo di macchine o altri sistemi artificiali, compresa l’alimentazione e l’idratazione forzata.

Nel caso fossi nelle condizioni di esprimere il mio consenso informato sono certo che non accetterei una degradazione corporea oltraggiosa per il mio sentimento della dignità personale.

Nel caso, invece, in cui fossi impossibilitato a esprimere la mia volontà, chiedo ora a mia moglie, alle persone che mi hanno conosciuto, al personale di assistenza che incontrerò, ai detestabili comitati di bioetica che vorrebbero decidere per me, al giudice che sarà chiamato ad emettere una sua sentenza, un gesto di compassione.

Faccio mia la definizione di “compassione” nella sua accezione buddhista di “un sentimento considerato portatore, per ogni essere senziente, del desiderio del bene per gli altri”.
Ritengo ogni forma di accanimento terapeutico come un atto di crudeltà, lesivo della mia dignità di essere umano. Di conseguenza, considero la sospensione di tali trattamenti come un gesto di compassione.
Ho paura della morte, e ancora più della sofferenza, tanto più se inutile e indotta da tecnologie mediche (delle quali apprezzo immensamente i progressi scientifici e tecnici) ormai impossibilitate a consentire una qualità di vita accettabile alla mia sensibilità psicologica ed esistenziale. Vorrei tuttavia poterla accogliere come un lungo ed eterno sonno dove le molecole momentaneamente aggregate nel mio attuale corpo si stanno riaggregando in altre forme di vita. Là, nell’infinito che mi pre-esisteva e che continuerà oltre il mio temporale Io.

Considero l’essere tenuto in vita da un macchinario che si sostituisce permanentemente alle mie funzioni vitali una violenza da me non voluta che ritarda l’appuntamento che comunque mi aspetta, come per qualunque essere vivente.
Il corpo che ho avuto in prestito in vita lo cedo per trapianti.

Il resto vorrei che fosse cremato, e le mie ceneri restituite alla terra, nel luogo che più ho amato, oppure al lago che non ho mai abbandonato in tutto il corso del tempo.

Paolo Ferrario

8 Ottobre 2008, confermato il 7 febbraio 2009

Pubblicato anche qui:

Il diritto, almeno, al proprio corpo

rodin, PENSATORE, in MARMODisgustato per la violenza e mancanza di carità che i religiosi espongono, in questi giorni, sul mercato della rappresentazione sociale, rileggo le parole che dovrebbero sancire il più umanissimo e personale diritto soggettivo:

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana

Costituzione della Repubblica, art. 32

«Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona.

Testamento biologico in vita di Paolo Ferrario

Io sottoscritto, Paolo Ferrario, nato a Como il 26 novembre 1948 e residente in questa città, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali e fisiche, dichiaro quanto segue.
Potrebbe accadere che, a un certo punto della mia vita, mi venga a trovare in uno stato di malattia allo stadio terminale, coma irreversibile, morte cerebrale e, in generale, in un qualsiasi stato fisico in cui la mia sopravvivenza sia legata all’utilizzo non temporaneo di macchine o altri sistemi artificiali, compresa l’alimentazione e l’idratazione forzata.

Nel caso fossi nelle condizioni di esprimere il mio consenso informato sono certo che non accetterei una degradazione corporea oltraggiosa per il mio sentimento della dignità personale.

Nel caso, invece, in cui fossi impossibilitato a esprimere la mia volontà, chiedo ora a mia moglie, alle persone che mi hanno conosciuto, al personale di assistenza che incontrerò, ai detestabili comitati di bioetica che vorrebbero decidere per me, al giudice che sarà chiamato ad emettere una sua sentenza, un gesto di compassione.

Faccio mia la definizione di “compassione” nella sua accezione buddhista di “un sentimento considerato portatore, per ogni essere senziente, del desiderio del bene per gli altri”.
Ritengo ogni forma di accanimento terapeutico come un atto di crudeltà, lesivo della mia dignità di essere umano. Di conseguenza, considero la sospensione di tali trattamenti come un gesto di compassione.
Ho paura della morte, e ancora più della sofferenza, tanto più se inutile e indotta da tecnologie mediche (delle quali apprezzo immensamente i progressi scientifici e tecnici) ormai impossibilitate a consentire una qualità di vita accettabile alla mia sensibilità psicologica ed esistenziale. Vorrei tuttavia poterla accogliere come un lungo ed eterno sonno dove le molecole momentaneamente aggregate nel mio attuale corpo si stanno riaggregando in altre forme di vita. Là, nell’infinito che mi pre-esisteva e che continuerà oltre il mio temporale Io.

Considero l’essere tenuto in vita da un macchinario che si sostituisce permanentemente alle mie funzioni vitali una violenza da me non voluta che ritarda l’appuntamento che comunque mi aspetta, come per qualunque essere vivente.
Il corpo che ho avuto in prestito in vita lo cedo per trapianti.

Il resto vorrei che fosse cremato, e le mie ceneri restituite alla terra, nel luogo che più ho amato, oppure al lago che non ho mai abbandonato in tutto il corso del tempo.

Paolo Ferrario

8 Ottobre 2008, confermato il 7 febbraio 2009