Categoria: Memoria storica
ZACK, CANE EROE, di Lynn Roth, con Ayelet Zurer, August Maturo, Ken Duken, Levente Molnar, 2020
La città murata di Como. Atti della ricerca promossa dall’Amministrazione Comunale negli anni 1968 e 1969, a cura del Comune di Como, 1970. Prefazione di Antonio Spallino
La CANZONE ITALIANA 1871 – 2011. Storie e testi, a cura di Leonardo Colombati, Mondadori/Ricordi, 2 Volumi, 2011, 2848 pagine. Indice del libro
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In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, Mondadori presenta la prima storia e antologia della canzone popolare e d’autore: un fenomeno di grandissima rilevanza culturale che ha accompagnato la nostra storia, anno dopo anno. Un’opera di immensa ricchezza, contestualizzata con cura rigorosa, un avvincente percorso a tappe che documenta l’evoluzione di un talento naturale degli italiani. Spesso connotata come “leggera” rispetto alla musica classica, la canzone rappresenta una delle forme più autentiche e originali d’espressione, specchio fedele di una società nelle sue varie sfaccettature, voce dei suoi desideri e anima delle sue passioni. Partendo dall’Inno di Mameli, passando dalla canzone napoletana di Libero Bovio alle atmosfere del Cafè-chantant, dagli autori sconosciuti dei canti popolari in dialetto ai poeti della formacanzone e ai più recenti successi di Sanremo, l’autore accompagna il lettore alla scoperta di epoche e vibrazioni diverse: un’occasione per comprendere chi eravamo e chi siamo.
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https://www.ansa.it/web/notizie/unlibroalgiorno/news/2011/11/30/visualizza_new.html_12103460.html
















ESCH Arnold, Viaggio nei paesaggi storici italiani, Leg edizioni, 2020. Indice del libro
Mostra fotografica dell’ex Sindaco di Como ANTONIO SPALLINO e inaugurazione dell’archivio sulla sua attività, venerdì e sabato 21-22 giugno 2019. Articolo di Stefano Ferrari in La Provincia 7 giugno 2019 e di Alessio Brunialti in La Provincia del 20 giugno 2019. La mostra sarà liberamente visitabile dalle ore 15:00 fino alle 18:30 di venerdì 21 giugno e dalle 10:00 alle 12:30 di sabato 22 giugno
MOSTRA FOTOGRAFICA E PRESENTAZIONE ARCHIVIO ANTONIO SPALLINO
21/22 giugno 2019
Dopo un anno di lavoro, nella mattinata di venerdì 21 giugno presenteremo alla stampa l’archivio “Antonio Spallino“.
Contenendo l’archivio anche numerose immagini, con Enzo Pifferi abbiamo colto l’occasione per organizzare una mostra fotografica che ne ripercorre il sentiero di vita, mentre in salone sarà proiettato un video di circa 200 immagini digitalizzate.
La mostra sarà liberamente visitabile dalle ore 15:00 fino alle 18:30 di venerdì 21 giugno e dalle 10:00 alle 12:30 di sabato 22 giugno.
Risorse:
mi ricordo CARLO TULLIO – ALTAN … , La coscienza civile degli italiani. Valori e disvalori nella storia nazionale, Gaspari editore, 1997
mi ricordo CARLO TULLIO – ALTAN
La “profezia” di Filippo Turati (Canzo, 26 novembre 1857 – Parigi, 29 marzo 1932) al Congresso di Livorno del 1921, citazione ripresa da Wikipedia
« Ciò che ci distingue non è la generale ideologia socialista – la questione del fine e neppure quella dei grandi mezzi (lotta di classe, conquista del potere ecc.) – ma è la valutazione della maturità della situazione e lo apprezzamento del valore di alcuni mezzi episodici.
Primo fra questi la violenza, che per noi non è, e non può essere, programma, che alcuni accettano pienamente e vogliono organizzare [commenti], altri accettano soltanto a metà (unitari comunisti o viceversa). Altro punto di distinzione è la dittatura del proletariato, che per noi, o è dittatura di minoranza, e allora non è che dispotismo, il quale genererà inevitabilmente la vittoriosa controrivoluzione, o è dittatura di maggioranza, ed è un evidente non senso, una contraddizione in termini poiché la maggioranza è la sovranità legittima, non può essere la dittatura. Terzo punto di dissenso è la coercizione del pensiero, la persecuzione, nell’interno del Partito, dell’eresia, che fu l’origine ed è la vita stessa del Partito, la grande sua forza salvatrice e rinnovatrice, la garanzia che esso possa lottare contro le forze materiali e morali che gli si parano di contro. Ora tutti e tre questi concetti si risolvono poi sempre in un solo: nel culto della violenza, sia esterna sia interna, e hanno tutti e tre un presupposto, nel quale è il vero punto di divergenza tra noi: la illusione che la rivoluzione sia il fatto volontario di un giorno o di un mese, sia l’improvviso calare di un scenario o l’alzarsi di un sipario, sia il fatto di un domani e di un posdomani del calendario; e la rivoluzione sociale non è un fatto di un giorno o di un mese, è il fatto di oggi, di ieri e di domani, è il fatto di sempre, che esce dalle viscere stesse della società capitalista, del quale noi creiamo soltanto la consapevolezza, e così agevoliamo l’avvento; mentre nella rivoluzione ci siamo; e matura nei decenni, e trionferà tanto più presto, quanto meno lo sforzo della violenza, provocando prove premature e suscitando reazioni trionfatrici ne deriverà ed indugierà il cammino. Ond’è che per noi gli scorcioni sono sempre la via più lunga, e la via, che altri crede più lunga, è stata e sarà sempre la più breve. La evoluzione si confonde nella rivoluzione, è la rivoluzione stessa, senza sperperi di forze, senza delusioni e senza ritorni. (…) Questo culto della violenza, che è un po’ negli incunaboli di tutti i partiti nuovi, che è strascico di vecchie mentalità che il Socialismo marxista ha disperse, della vecchia mentalità insurrezionista, blanquista, giacobina, che volta a volta sembra tramontata e poi risorge di nuovo, e a cui la guerra ha ridato un enorme rigoglio, non può essere di fronte alla complessità della lotta sociale moderna, che una reviviscenza morbosa ed effimera. Organicamente la violenza è propria del capitalismo, non può essere del socialismo. E propria delle minoranze che intendono imporsi e schiacciare le maggioranze, non già delle maggioranze che vogliono e possono, con le armi intellettuali e coi mezzi normali di lotta, imporsi per legittimo diritto. La violenza è il sostitutivo, è il preciso contrapposto della forza. È anche un segno di scarsa fede nella idea che si difende, di cieca paura delle idee avversarie. È, insomma, in ogni caso, un rinnegamento, anche se trionfi per un’ora, poiché apre inevitabilmente la strada alla reazione della insopprimibile libertà della coscienza umana, che ben presto, diventa controrivoluzione, che diventa vittoria e vendetta dei comuni nemici. (…) Con la violenza che desta la reazione, metterete il mondo intero contro di voi. Questo è il nostro pensiero di oggi, di ieri, di sempre, ma sopra tutto in periodo di suffragio universale: quando voi tutto potrete se avete coscienza e, se no, nulla potrete ad ogni modo. Perché voi siete il numero e siete il lavoro, e sarete i dominatori necessari del mondo di domani a un solo patto: che non mettiate, con la violenza, tutto il mondo contro di voi. Ecco il tondo del solo nostro dissenso, che è di oggi come di ieri, nel quale sempre insorgemmo e ci differenziammo. E quando Terracini ci dice, credendo coglierci in contraddizione: lanci la prima pietra chi in qualche momento, nel Partito, non fece appello alle violenze più pazze, io posso francamente rispondergli: eccomi qua! quella pietra io posso lanciarla [applausi vivissimi]. Sì, a noi può dolere che questa mostruosa fioritura psicologica di guerra ci divida fra noi, ci allontani tutti quanti dalla mèta, ci faccia perdere anni preziosi, facendo involontariamente il massimo tradimento al proletariato, che noi priviamo di tutte le enormi conquiste che potrebbe oggi conseguire, sacrificandolo alle nostre divisioni ed alle nostre impazienze, suscitando tutte le forze della controrivoluzione. Si, noi lottiamo oggi troppo spesso contro noi stessi, lavoriamo per i nostri nemici, siamo noi a creare la reazione, il fascismo, ed il partito popolare. Intimidendo ed intimorendo, proclamando (con suprema ingenuità anche dal punto di vista cospiratorio) l’organizzazione dell’azione illegale, vuotando di ogni contenuto l’azione parlamentare che non è già l’azione di pochi uomini, ma dovrebbe essere, col suffragio universale, la più alta efflorescenza di tutta l’azione, prima di un partito, poi di una classe; noi avvaloriamo e scateniamo le forze avversane che le delusioni della guerra avevano abbattute, che noi avremmo potuto facilmente debellare per sempre. (…) Le vie della storia non sono facili. Noi possiamo cercare di abbreviarle con sincerità, sdegnosi di popolarità, facilmente accettate a prezzo di formule ambigue. E questo noi facciamo e faremo, e con voi e fra voi, o separati da voi, perché è il nostro preciso dovere. Noi saremo sempre col Proletariato che combatte la sua lotta di classe. (…) Fu unicamente il culto di alcune frasi isolate da comizio (la violenza levatrice della nuova storia” e somiglianti), avulse dal complesso dei testi, e ripetute per accidia intellettuale che, in unione alle naturali ribellioni del sentimento, velò a troppi di noi il fondo e la realtà della dottrina marxista. Quel culto delle frasi, in odio al quale Marx amava ripetere che egli, per esempio, “non era marxista”, e anche a me – di cento cubiti più piccolo – a udire le scemenze di certi pappagalli, accadde di affermare che io non sono turatiano [Ilarità]. Perché nessuna formula – neanche quella di Mosca – sostituirà mai il possesso di un cervello, che, in contatto coi fatti e con le esperienze, ha il dovere di funzionare. (…) Sul terreno pratico, quarant’anni o poco meno di propaganda e di milizia mi autorizzano ad esprimervi sommariamente un’altra convinzione. Potrei chiamarla (se la parola non fosse un po’ ridicola) una profezia, facile profezia e per me di assoluta certezza. Vi esorto a prenderne nota. Fra qualche anno – io non sarò forse più a questo mondo – voi constaterete se la profezia si sia avverata. Se avrò fallito, sarete voi i trionfatori. Questo culto della violenza, violenza esterna od interna, violenza fisica o violenza morale – perché vi è una violenza morale, che pretende sforzare le mentalità, far camminare il mondo sulla testa (…), e che è ugualmente antipedagogica e contraria allo scopo – non è nuovo (…), nella storia del socialismo italiano, come di altri Paesi. E il comunismo critico di Marx e di Engels ne fu appunto la più gagliarda negazione. Ma, per fermarci all’arretrata Italia, che, come stadio di evoluzione economica, sta, a un dipresso, di mezzo fra la Russia e la Germania, la storia dei nostri Congressi, che riassume in qualche modo le fasi del Partito, (…) quella storia dimostra a chiare note come cotesta lotta fra il culto della violenza che pretende di imporsi col miracolo ed il vero socialismo che lo combatte, è stata sempre, nelle più diverse forme, a seconda dei momenti e delle circostanze, il dramma intimo e costante del partito socialista. Ma il socialismo, in definitiva, fu sempre il trionfatore contro tutte le sue deviazioni e caricature. (…) nella storia del nostro partito l’anarchismo fu rintuzzato, il labriolismo finì al potere, il ferrismo, anticipazione, come ho detto, del graziadeismo [nuova ilarità], fece le capriole che sapete, l’integralismo stesso sparì e rimase il nucleo vitale: il marcio riformismo, secondo alcuni, il socialismo, secondo noi, il solo vero, immortale, invincibile socialismo, che tesse la sua tela ogni giorno, che non fa sperare miracoli, che crea coscienze, sindacati, cooperative, conquista leggi sociali utili al proletariato, sviluppa la cultura popolare (senza la quale saremo sempre a questi ferri e la demagogia sarà sempre in auge), si impossessa dei Comuni, del Parlamento, e che, esso solo, lentamente, ma sicuramente, crea con la maturità della classe, la maturità degli animi e delle cose, prepara lo Stato di domani e gli uomini capaci di manovrarne il timone. (…) La guerra doveva rincrudire il fenomeno. La lotta sarà più dura, più tenace e più lunga, ma la vittoria è sicura anche questa volta. (…) Fra qualche anno il mito russo, che avete il torto di confondere con la rivoluzione russa, alla quale io applaudo con tutto il cuore (Voce – Viva la Russia!) …. il mito russo sarà evaporato ed il bolscevismo attuale o sarà caduto o si sarà trasformato. Sotto le lezioni dell’esperienza (…) le vostre affermazioni d’oggi saranno da voi stessi abbandonate, i Consigli degli operai e dei contadini ( e perché no dei soldati?) avranno ceduto il passo a quel grande Parlamento proletario, nel quale si riassumono tutte le forze politiche ed economiche del proletariato italiano, al quale si alleerà il proletariato di tutto il mondo. Voi arriverete così al potere per gradi… Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo, che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile, e, se possibile fosse, ci ricondurrebbe al Medio evo. Avrete capito allora, intelligenti come siete [ilarità], che la forza del bolscevismo russo è nel peculiare nazionalismo che vi sta sotto, nazionalismo che del resto avrà una grande influenza nella storia del mondo, come opposizione ai congiurati imperialismi dell’Intesa e dell’America, ma che è pur sempre una forma di imperialismo. Questo bolscevismo, oggi – messo al muro di trasformarsi o perire – si aggrappa a noi furiosamente, a costo di dividerci, di annullarci, di sbriciolarci; s’ingegna di creare una nuova Internazionale pur che sia, fuori dell’Internazionale e contro una parte di essa, per salvarsi o per prolungare almeno la propria travagliata esistenza; ed è naturale, e non comprendo come Serrati se ne meravigli e se ne sdegni, che essa domandi a noi, per necessità della propria vita, anzi della vita del proprio governo, a noi che ci siamo fatti così supini, e che preferiamo esserne strumenti anziché critici, per quanto fraterni, ciò che non oserà mai domandare né al socialismo francese né a quello di alcun altro paese civile. Ma noi non possiamo seguirlo ciecamente, perché diventeremmo per l’appunto lo strumento di un imperialismo eminentemente orientale, in opposizione al ricostituirsi della Internazionale più civile e più evoluta, l’Internazionale di tutti i popoli, l’Internazionale definitiva. Tutte queste cose voi capirete fra breve e allora il programma, che state (…) faticosamente elaborando e che tuttavia ci vorreste imporre, vi si modificherà fra le mani e non sarà più che il vecchio programma. Il nucleo solido, che rimane di tutte queste cose caduche, è l’azione: l’azione, la quale non è l’illusione, il precipizio, il miracolo, la rivoluzione in un dato giorno, ma è l’abilitazione progressiva, libera, per conquiste successive, obbiettive e subiettive, della maturità proletaria alla gestione sociale. Sindacati, Cooperative, poteri comunali, azione parlamentare, cultura ecc., ecc., tutto ciò è il socialismo che diviene. E, o compagni, non diviene per altre vie. Ancora una volta vi ripeto: ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve… perché è la sola. E l’azione è la grande educatrice e pacificatrice. Essa porta all’unità di fatto, la quale non si crea con le formule e neppure con gli ordini del giorno, per quanto abilmente congegnati, con sapienti dosature farmaceutiche di fraterno opportunismo. Azione prima e dopo la rivoluzione – perché dentro la rivoluzione – perché rivoluzione essa stessa. Azione pacificatrice, unificatrice. (…) Ond’è, che quand’anche voi avrete impiantato il partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione, perché siete onesti – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe. E dovendo fare questa azione graduale, perché tutto il resto è clamore, è sangue, orrore, reazione, delusione; dovendo percorrere questa strada, voi dovrete fino da oggi fare opera di ricostruzione sociale. Io sono qui alla sbarra, dovrei avere le guardie rosse accanto… [Si ride], perché, in un discorso pronunziato il 26 giugno alla Camera: Rifare l’Italia!, cercai di sbozzare il programma di ricostruzione sociale del nostro paese. Ebbene, leggetelo quel discorso, che probabilmente non avete letto, ma avete fatto male [Ilarità]. Quando lo avrete letto, vedrete che questo capo di imputazione, questo corpo di reato, sarà fra breve il vostro, il comune programma. [Approvazioni]. Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite di lasciar crollare la casa comune, e fate vostro il “tanto peggio, tanto meglio!” degli anarchici, senza pensare che il “tanto peggio” non dà incremento che alla guardia regia ed al fascismo. [Applausi]. Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per se stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il miglior slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Ed allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno: troppa gente nuova è venuta che renderà aspra la via, ma non importa. Maggioranza o minoranza non contano. Fortuna di Congressi, fortuna di uomini, tutto ciò è ridicolo di fronte alle necessità della storia. Ciò che conta è la forza operante, quella forza per la quale io vissi e nella cui fede onestamente morrò uguale sempre a me stesso. Io combatterei per essa. Io combatterei per il suo trionfo: e se trionferà anche con voi, è perché questa forza operante non è altro che il socialismo. Evviva il Socialismo! » |
(Filippo Turati – dal “Discorso al XVII Congresso Socialista del 1921”) |
EL ME’ INDIRIZZ, idea scenica da una idea di Gianni Giolo, con le MUSICHE di Fo, Jannacci, Della Mea, Carpi, Strehler e i TESTI di Pietro Collina, Riccardo Borzatta e Federico Piadeni, Fondazione CA’ D’INDUSTRIA, Via Brambilla, 61, COMO. Organizzazione: Pierangela Torresani, Marco Bonacina, Omar Dodaro, 22 DICEMBRE 2016. VIDEO postato su youtube da O. Dodaro, 1 ore e 8 minuti
LAURA GIACOMOZZI, IL LAGER DI BOLZANO, 2001
LAURA GIACOMOZZI, IL LAGER DI BOLZANO, 2001
- qui in formato Dbf: Giacomozzi_ita lager di bolzano
L’ombra del buio : lager a Bolzano 1945-1995 – Comune di Bolzano/assessorato alla cultura, 1996
Fondazione memoria della deportazione, OLTRE QUEL MURO, LA RESISTENZA NEL CAMPO DI BOLZANO, 1944-45, mostra documentaria a cura di Dario Venegoni e Leonardo Visco Gilardi, 2008
La Resistenza nel campo di Bolzano. Una mostra della Fondazione Memoria della Deportazione
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“Oltre quel muro – La Resistenza nel campo di Bolzano 1944-45“. Questo il titolo della mostra documentaria realizzata da Dario Venegoni e Leonardo Visco Gilardi per conto della Fondazione Memoria della Deportazione. La mostra è stata presentata giovedì 5 dicembre presso il Teatro Cristallo di Bolzano sotto l’Alto Patronato del Capo dello Stato.
Il progetto ha beneficiato di un contributo della Commissione Europea. Il progetto grafico è di Franco e Silvia Malaguti.
In 26 pannelli vengono presentati per la prima volta decine e decine di documenti inediti che testimoniano di un’incessante attività clandestina che coinvolse centinaia di persone dentro e fuori il Lager di via Resia, in aperta sfida alle SS. Si tratta di fotografie, lettere e documenti reperiti in diversi archivi italiani e tra le carte personali dei familiari di molti ex deportati nel Lager.
La mostra è disponibile per altre esposizioni. Le organizzazioni e gli enti che desiderassero presentarlapossono scaricare l’apposito modulo da presentare alla Fondazione Memoria della Deportazione. Il modulo contiene tutte le informazioni necessarie per predisporre l’allestimento della mostra.
E’ online il filmato in cui i due autori presentano la mostra.
E’ possibile vedere i pannelli della mostra in fomato A4 (PDF).
Scarica la mostra in italiano:
Pannelli 1-14 (PDF, 4,14 Mb)
Pannelli 15-26 (PDF, 5,64 Mb)
Scarica la mostra in tedesco:
Deutsch 1-14 (PDF, 4,14 Mb)
Deutsch 15-26 (PDF, 5,64 Mb)
Ada Buffulini, QUEL TEMPO TERRIBILE E MAGNIFICO. Lettere clandestine da San Vittore e dal lager di Bolzano e altri scritti, a cura di Dario Venegoni, prefazione di Tiziana Valpiana, Mimesis editore, 2015
Siamo tutti Charlie! – Una mostra contro la censura, per la libertà di espressione –
ARTHUR SCHOPENHAUER (1788-1860): Il CORANO, questo cattivo libro …
“Il Corano, questo cattivo libro, fu sufficiente per fondare una religione mondiale, per soddisfare il bisogno metafisico di milioni e milioni di uomini, per definire il fondamento della loro morale – e di un notevole disprezzo della morte, ma anche per esaltarli convolgendoli in guerre sanguinose e nelle conquiste più estese.
Nel Corano troviamo la forma più squallida e più povera di teismo…
In quest’opera, io non sono riuscito a scoprire nemmeno un pensiero dotato di valore”
Arthur Schopenhauer (1788-1860)
Questo testo è stato scritto nella prima metà dell’800. Noto, per inciso, che oggi per molto meno i vittimisti perdenti radicali mettono a ferro e fuoco le democrazie occidentali e sgozzano i loro apostati
notte insonne. ricevo un messaggio di idem sentire politico e storico, ore 1 e 10 del 5 settembre 2014
è notte. Sono in ospedale, al sesto piano del Valduce.
mi metto in rete e, su un mio blog, ricevo questo messaggio da un (altro) Paolo:
Sono pienamente, pienamente d’accordo con te. Ti ringrazio per la tua onestà, quella
con cui tratti un argomento che, tra l’altro sei uno dei pochi a trattare. Sei uno dei pochissimi, non so perché.
Accorgersi della miseria morale di un Morucci o di un Moretti è facile, possibile in pochi secondi, quando li si legge o li si ascolta specialmente.
La loro visione capovolta della realtà, la loro ipocrisia, che è l’anima di una parte della sinistra, è un aspetto ancora poco chiarito, perché è ancora poco chiaro il fatto che, oltre a trattarsi di esseri miseri umanamente, si tratta di gente ignorante (per Morucci esiste la “lectospirosi”, vedere la lettera che ha indirizzato a Saviano), ma brava a mostrare una cifra intellettualoide, a mo’ di pantomima di acculturati, quella certa aria sessantottina che non è altro che cinismo, frustrazione, nichilismo assoluti. Non importa se siano di destra o di sinistra, se siano Curcio o Fioravanti, quell’aria è una caratteristica comune a tutti questi personaggi.
Il fatto che durante le interviste e le loro divulgazioni abbiano lasciato (e continuino a lasciare tuttora) messaggi in codice sotto forma di errori e imprecisioni volute, non li qualifica affatto. Perché loro vogliono dire: “non è così, non posso parlare, posso soltanto sbagliare apposta per farti capire”; ma vogliono, al contempo, anche scagionarsi, e questo gli fa vergogna.
Penso anche, naturalmente, che siano stati usati, che abbiano svolto le loro missioni come si svolge un temino, un compitino in classe: con una logica da tavolino.
Immaginare quelle azioni come completamente eterodirette è sicuramente un modo usato dalla sinistra per assolverli; va anche detto, d’altra parte, che l’assoluzione l’hanno avuta anche da Cossiga, che di sinistra non è di certo, ma che doveva far credere che la tragedia di Moro fosse stata opera “soltanto” delle BR, e frutto marcescente “soltanto” della storia della Resistenza; in realtà, in questa storia gli esecutori contano, contano quanto e più dei mandanti.
Hai ragione, è una storia italiana, tutta interna al nostro costume, parla di come funzionava la DC, parla dei ricatti dei comunisti ai democristiani, e parla anche dei rapporti ambigui della sinistra “extra” con la Mafia. Se Camilla Cederna non avesse scritto quel libro, forse (forse) Leone non si sarebbe dimesso; né forse si sarebbe creata, dall’una né dall’altra parte, la terribile acredine sfociata nel delitto di Moro. Per quanto riguarda il “dopo”, penso che alcuni avrebbero fatto meglio a tacere: Massimo Fini, Indro Montanelli, Giorgio Bocca e, mi duole dirlo, anche Rossana Rossanda. E’ solo dietrologia, naturalmente. Anch’io stimo Aldo Moro, lo ammiro soprattutto per la fede che ha mantenuto fulgida, ferrea fino alla fine.
Una fede incrollabile, vera; che io non ho, ma che mi trova rispettosamente arreso. Saluti
rispondo:
ricevo questo tuo commento in piena notte, mentre sono ricoverato in ospedale per curare gli esiti di un infarto.
le tue parole sono una medicina.che si aggiunge alle altre cure
ti ringrazio e mi sento felice per il nostro “idem sentire” politico e storico
il carteggio notturno è stato propiziato da questo post di qualche anno fa:
la miseria personale ed etica del brigatista rosso Valerio Morucci e la grandezza umana e politica di Aldo Moro: la telefonata che anticipa l’assassinio, quella dopo l’assassinio e le lettere prima della morte, 16 marzo 2008
Yvonne Sherratt, I FILOSOFI DI HITLER, Bollati Boringhieri, 2014
“MI CHIEDETE DI PARLARE”, Monica Guerritore dà la parola a Oriana Fallaci, Como, Teatro Sociale, 14 marzo 2013
In questo monologo, con grande coraggio personale e altissima capacità interpretativa, Monica Guerritore ha fatto il più grande gesto di restituzione della memoria a Oriana Fallaci: quello di far sentire la sua parola il suo modo di consegnarsi totalmente alla scrittura. Dopo che è stata vilipesa, massacrata moralmente, assassinata nella sua personalità, qui le si restituisce tutto il suo onore, tutta la sua intelligenza, tutta la sua dimensione espressiva.
Esce nella sua interezza quello che è stata ed è: una straordinaria costruttrice di documenti storici scritti “al momento” del formarsi della “storia”. E scritti con la fatica di usare le parole giuste per produrre conoscenza.
Grande gratitudine innanzitutto a Oriana Fallaci e poi alla stupenda Monica Guerritore che ha tramutato la scena teatrale in un affresco biografico.
gli avvertimenti in tempo reale di Oriana Fallaci dopo l’attentato alle torri gemelle di New York:
Paolo Ferrario, Annotazione sul risultato delle ELEZIONI POLITICHE 24 /25 febbraio 2013 | Tracce e Sentieri.
In precedenza avevo QUI motivato il mio voto alle elezioni politiche 2013, argomentando su questi punti:
1. necessità per la crisi italiana dentro la vecchia ed esausta Europa di una GRANDE COALIZIONE di lunga durata
2. sostegno con il voto alla offerta politica centrale e autenticamente riformista delle Liste Monti
Non ho “errato” nel dare questo voto. Lo rifarei.
E’ il bersaglio che è fallito, perchè:
- esce un Parlamento con tre minoranze, ciascuna impossibilitata a governare
- le liste Monti sono ininfluenti, se non per la competenza indiscutibile del professore a negoziare per l’Italia in Europa. Ma il sistema politico italiano e le sue culture sono così meschini che lo isoleranno (non prima di insultarlo e denigrarlo con il metodo dell’assassinio della personalità)
- il Pd in crisi profonda per avere in precedenza nullificato la linea Renzi;
- ora un comico comanda a bacchetta i suoi cloni usando un linguaggio prefascista e prenazista (il “siete morti” e il “andatevene a casa”)
E’ un problema di “funzionamento” delle democrazie rappresentative i tempi di comunicazione diffusa.
La Polis nei momenti elettorali funziona così:
a) una testa un voto (e questa è la responsabilità individuale, l’unica che ciascuno può agire), la cui somma fa
b) la decisione collettiva
L’elettorato italiano, nella sua somma, ha prodotto il risultato peggiore dentro il sistema europeo, ossia:
l’ingovernabilità
Dal punto di vista psicologico il mio stato è depressivo: si passa da un corruttore e puttaniere adescatore di minorenni al potere da 20 anni a un comico che usa come un manganello le tecnologie del web. Da berlusconia alla grillocrazia.
Dal punto di vista della scienza della politica quella della ingovernabilità è la soluzione peggiore, nelle condizioni date.
C’è solo un faro di luce nella terra desolata a causa dei suoi abitatori: la figura smagliante di Giorgio Napolitano.
Nel deserto non c’è altro.
Il grande vecchio metterà in atto tutta l’arte delle (stressate e e logorate) istituzioni incarnate nella Costituzione.
C’è una sola via di uscita di sicurezza:
una Grande coalizione per adeguare le regole del gioco alla nuova situazione
Non più di lunga durata, come auspicavo, ma a termine.
Ma le impotenti, violente e primitive culture della infeconda contrapposizione Destra/Sinistra rendono quasi impossibile questa soluzione.
Sento appeso ad un passaggio linguistico dal “quasi” al “forse” il destino individuale e collettivo inscritto nella cosiddetta svolta storica delle elezioni del 24/25 febbraio 2013.
Paolo Ferrario
in quel del 26 febbraio 2013
Paolo Ferrario, Annotazione sul risultato delle ELEZIONI POLITICHE 24 /25 febbraio 2013
In precedenza avevo QUI motivato il mio voto alle elezioni politiche 2013, argomentando su questi punti:
1. necessità per la crisi italiana dentro la vecchia ed esausta Europa di una GRANDE COALIZIONE di lunga durata
2. sostegno con il voto alla offerta politica centrale e autenticamente riformista delle Liste Monti
Non ho “errato” nel dare questo voto. Lo rifarei.
E’ il bersaglio che è fallito, perchè:
- esce un Parlamento con tre minoranze, ciascuna impossibilitata a governare
- le liste Monti sono ininfluenti, se non per la competenza indiscutibile del professore a negoziare per l’Italia in Europa. Ma il sistema politico italiano e le sue culture sono così meschini che lo isoleranno (non prima di insultarlo e denigrarlo con il metodo dell’assassinio della personalità)
- il Pd in crisi profonda per avere in precedenza nullificato la linea Renzi;
- ora un comico comanda a bacchetta i suoi cloni usando un linguaggio prefascista e prenazista (il “siete morti” e il “andatevene a casa”)
E’ un problema di “funzionamento” delle democrazie rappresentative i tempi di comunicazione diffusa.
La Polis nei momenti elettorali funziona così:
a) una testa un voto (e questa è la responsabilità individuale, l’unica che ciascuno può agire), la cui somma fa
b) la decisione collettiva
L’elettorato italiano, nella sua somma, ha prodotto il risultato peggiore dentro il sistema europeo, ossia:
l’ingovernabilità
Dal punto di vista psicologico il mio stato è depressivo: si passa da un corruttore e puttaniere adescatore di minorenni al potere da 20 anni a un comico che usa come un manganello le tecnologie del web. Da berlusconia alla grillocrazia.
Dal punto di vista della scienza della politica quella della ingovernabilità è la soluzione peggiore, nelle condizioni date.
C’è solo un faro di luce nella terra desolata a causa dei suoi abitatori: la figura smagliante di Giorgio Napolitano.
Nel deserto non c’è altro.
Il grande vecchio metterà in atto tutta l’arte delle (stressate e e logorate) istituzioni incarnate nella Costituzione.
C’è una sola via di uscita di sicurezza:
una Grande coalizione per adeguare le regole del gioco alla nuova situazione
Non più di lunga durata, come auspicavo, ma a termine.
Ma le impotenti, violente e primitive culture della infeconda contrapposizione Destra/Sinistra rendono quasi impossibile questa soluzione.
Sento appeso ad un passaggio linguistico dal “quasi” al “forse” il destino individuale e collettivo inscritto nella cosiddetta svolta storica delle elezioni del 24/25 febbraio 2013.
Paolo Ferrario
in quel del 26 febbraio 2013
Noi, la Storia e Paolo Ferrario: l’intervista di Gaspare Armato in babilonia61
Terrorismo: colpire Pietro Ichino significava ”aprire la strada dell’insurrezione armata”
Pietro Ichino rappresenta ”un uomo di cerniera” per le nuove Br, convinte che colpire il giuslavorista significava ”aprire la strada dell’insurrezione armata”. Ne e’ sicura Laura Barbaini, sostituto procuratore generale al processo d’appello bis avviato nei confronti di Alfredo D’Avanzo e degli altri esponenti delle cosiddette nuove Br.
da Terrorismo: Pg, colpendo Ichino nuove Br puntavano a insurrezione armata.
ROMANZO DI UNA STRAGE, di Marco Tullio Giordana, 2012
… Romanzo di una strage aderisce in maniera piuttosto fedele alle verità processuali e lascia aperti tutti gli interrogativi che sono rimasti senza risposta. Tanto per citare un caso, quando Pinelli muore, sfracellandosi nel cortile della questura, l’obiettivo segue il commissario Calabresi, che in quel momento è fuori dalla stanza dell’interrogatorio: un modo per far vedere senza mostrare chi ha commesso quell’atto, se qualcuno l’ha commesso, e senza accettare la versione ufficiale del suicidio. Lo stesso omicidio di Calabresi viene rappresentato un attimo dopo che è stato compiuto: non si vede – e Giordana si rifiuta di fare supposizioni – chi preme il grilletto. Oggetto della rappresentazione cinematografica è dunque ciò che si sa, cosa che forse toglie “pathos” narrativo a chi è abituato a vedere gialli o thriller a sfondo politico in cui alla fine tutti i tasselli del puzzle combaciano e indicano un colpevole certo. La stessa ipotesi della “doppia bomba” – una piazzata dagli anarchici, che sarebbe dovuta scoppiare solo a banca chiusa, a notte fonda, senza mietere vittime e l’altra, micidiale, innescata dai neofascisti – viene presentata appunto per quello che è: un’ipotesi …
tutta la recensione qui: http://cadavrexquis.typepad.com/cadavrexquis/2012/05/romanzo-di-una-strage.html
ANTONIA ARSLAN RACCONTA IL GENOCIDIO ARMENO, a WikiRadio di Radio3, 24 aprile 2012
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Ascolta l’Audio di ANTONIA ARSLAN RACCONTA IL GENOCIDIO ARMENO, a WikiRadio di Radio3, 24 aprile 2012.Mp3
La notte del 24 aprile 1915 iniziava l’orrendo sterminio del popolo armeno
Mappe nel Sistema dei Servizi alla Persona e alla Comunità
Recupero una vecchia traccia informativa (del 1999 !), dopo gli assassinii compiuti da Mohammed Merah in Francia.
Ho il “vizio della memoria”
Questo post è icastico. Le argomentazioni sono nei tre link contenuti nel testo.
Paolo Ferrario
Marzo 2012
dalle parole di “S.E. Mons. Ernesto Vecchi, Vescovo Ausiliare, Vicario Generale, Moderatore della Curia” di Bologna.
“Durante la Seconda Assemblea Speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi, S.E. Mons. Giuseppe Germano Bernardini, Arcivescovo di Izmir in Turchia, dove è rimasto per oltre 40 anni e dove i musulmani sono il 99,9%, ha messo in evidenza la persuasione di tanti autorevoli personaggi musulmani così formulata:
“Grazie alle vostre leggi democratiche vi invaderemo; grazie alle nostre leggi religiose vi domineremo”.
Tale persuasione fu espressa anche al Cardinale Oddi di v.m., durante il suo servizio diplomatico, da un noto Capo di Stato islamico che gli disse:
“Voi ci avete fermato a…
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La nave Costa Concordia, ferita ed inclinata verso il precipizio, e i feroci oppositori del Governo Monti/Napolitano, di Paolo Ferrario
L’immagine della nave Costa Concordia ferita ed inclinata verso il precipizio è la perfetta e drammaticamente vera metafora dell’Italia sull’orlo del baratro.
E quindi è la rappresentazione visiva delle tragiche responsabilità che si stanno assumendo Lega Nord di Maroni e Bossi, Cgil di Camusso e altri sindacati, IDV (italia dei suoi valori) di Di Pietro nella loro feroce opposizione all’equipaggio guidato da Mario Monti e Giorgio Napolitano che tentano di evitare il peggio
Paolo Ferrario, 16 gennaio 2012
La nave Costa Concordia, ferita ed inclinata verso il precipizio, e i feroci oppositori del Governo Monti/Napolitano, di Paolo Ferrario « POLITICA DEI SERVIZI SOCIALI
L’immagine della nave Costa Concordia ferita ed inclinata verso il precipizio è la perfetta e drammaticamente vera metafora dell’Italia sull’orlo del baratro.
E quindi è la rappresentazione visiva delle tragiche responsabilità che si stanno assumendo Lega Nord di Maroni e Bossi, Cgil di Camusso e altri sindacati, IDV (italia dei suoi valori) di Di Pietro nella loro feroce opposizione all’equipaggio guidato da Mario Monti e Giorgio Napolitano che tentano di evitare il peggio
Paolo Ferrario, 16 gennaio 2012
la morte dei tiranni: Mu’ammar Gheddafi
Lei non crede che abbiano tentato di catturarlo vivo?
Gheddafi ha dominato la Libia per 42 anni, è stato amico dei terroristi e nemico degli Usa, adesso aveva rovesciato le sue posizioni, grossi ammiccamenti a Ovest e guerra senza quartiere ai fondamentalisti. Ha fatto affari con tutti, ha corrotto — anche personalmente — un sacco di gente importante. Se lo immagina alla ringhiera del tribunale dell’Aja? Avrebbe potuto mettere nei guai molti potenti della Terra.
Giorgio Dell’Arti
LA MEMORIA LUNGA “Noi sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, che può suonare Bach e Schubert, e andare a fare la sua giornata di lavoro ad Auschwitz la mattina”. George Steiner
LA MEMORIA LUNGA
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LIBRI |
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Vedi anche: |
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Gli ebrei e la Shoah |
2006
2005
2004
2003
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Armenia |
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Comunismi |
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Europa: i totalitarismi del Novecento |
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Terrorismo di matrice islamica |
LA MEMORIA BREVE: commemorazioni
“Commemorare non è vuota retorica e neppure sfogo di massa: è difendersi dalla tentazione dell’oblio. E questo perchè non siamo nulla in assoluto. Siamo soltanto ciò che siamo stati, meglio: ciò che ricordiamo di essere stati”
Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994, p. 107
LA MEMORIA BREVE: commemorazioni |
Al Museo Hermann Hesse di Montagnola, nel Canton Ticino: racconto di una giornata
Diario di un clima cattivo di Giampaolo Pansa Gli appunti del cronista nell’autunno-inverno 2009, in Il Riformista
un diario alla buona dell’autunno-inverno 2009.
Alla fine di settembre, Tonino Di Pietro ci offre un’ennesima sceneggiata: si fa fotografare davanti a Montecitorio con la coppola in testa e le smorfie di un boss di Cosa nostra, per dire che in Parlamento ci sono troppi mafiosi. Negli stessi giorni, Eugenio Scalfari si fa intervistare dall’Espresso e dipinge l’editore di Libero come un servo di Silvio Berlusconi. Il motivo? L’aver messo a dirigere il giornale Belpietro, «emissario del Cavaliere, una specie di commissario politico».
Sempre a fine settembre, muore per infarto Maurizio Laudi, uno dei magistrati che hanno battuto le Brigate rosse e Prima linea. I muri di Torino si coprono di scritte insultanti, opera di anarchici: «È morto un boia: Laudi», «Finalmente Laudi è morto», «Dio c’è, è morto Laudi», «Di Laudi si butta via tutto». A Pistoia, invece di scritte, le botte. Squadre antagoniste devastano la sede di Casa Pound, circolo di destra. È la quarta aggressione in meno di una settimana. Le altre sono avvenute a Napoli, Verona e Torino.
A metà ottobre, Alessandro Campi, poi consigliere culturale di Gianfranco Fini, scrive: «Basta navigare in rete, fare un giro tra blog e siti, per capire quale magma di odio e pregiudizio si trovi addensato nelle viscere della nazione, pronto a esplodere in qualsiasi momento». Detto fatto, Matteo Mezzadri, coordinatore del Partito democratico di Vignola (Modena), domanda su Facebook: «Santo cielo, possibile che nessuno sia in grado di ficcare una pallottola in testa a Berlusconi?». Il giovane dirigente viene cacciato.
Negli stessi giorni, le Brigate rivoluzionarie per il comunismo scrivono ai giornali: «Berlusconi, Fini e Bossi devono dimettersi e il primo deve consegnarsi alla giustizia comunista. La sentenza è inevitabile». Lo slogan è «No al colpo di stato, sì alla rivoluzione». Il 19 ottobre, a Torino, un gruppo che si firma Br con la stella a cinque punte, minaccia un delegato della Fiom-Cgil nella Flexider, azienda metalmeccanica.
Nella seconda metà di ottobre, si fa vivo il Comitato Anna Maria Mantini del nuovo Partito comunista italiano. Lei era una terrorista anni Settanta, sorella di Luca, militante dei Nuclei armati proletari ucciso durante una rapina per finanziare il gruppo. Anche la sorella cadrà in uno scontro con l’antiterrorismo. Il gruppo annuncia di entrare in clandestinità. Con l’aiuto dei Carc, i Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo.
Il 21 ottobre si scopre su Facebook che il gruppo «Uccidiamo Berlusconi» conta 12.333 iscritti. Quel giorno, nel giro di un’ora, se ne sono aggiunti seicento. Nel frattempo, una casa editrice di Chieti lancia il concorso «Descrivi la morte del Cavaliere e sarai pubblicato». Per contrappasso, sempre su Facebook nasce il gruppo intitolato: «A morte Marco Travaglio».
Sabato 24 ottobre a Torino, in piazza San Carlo, i centri sociali assaltano un presidio di Casa Pound e un banchetto della Lega. Tre ore di scontri con la polizia. Il 31 ottobre, nel carcere romano di Rebibbia, s’impicca la brigatista Diana Blefari. Aveva indicato alla polizia dove stavano nascoste le armi del suo gruppo, ma l’arsenale non si trova più. La Blefari aveva pedinato Marco Biagi, poi ucciso. Si era espressa così: «Fosse stato per me, Biagi l’avrei torturato prima di giustiziarlo».
Sabato 7 novembre, a Roma, i centri sociali vanno in corteo per protestare contro la morte in carcere di Stefano Cucchi. Anche qui scontri con la polizia, lanci di petardi e bottiglie, cassonetti rovesciati e dati alle fiamme. Lo stesso giorno a Firenze quattrocento antagonisti marciano chiedendo la scarcerazione di un loro compagno, arrestato per aver messo una bomba all’Agenzia delle entrate. Anche qui fumogeni, petardi e scritte sui muri: «Mannu libero e fuoco alle galere». Due giorni prima si era tentato l’assalto a un circolo di Forza Nuova, gruppo di destra.
A metà novembre, emergono i Nat, Nuclei di azione territoriale, sempre legati alla memoria dei fratelli Mantini. Hanno cinque cellule a Milano, Torino, Lecco, Bergamo e Bologna. Minacciano politici e giornalisti. Milano è la città più a rischio. Gli investigatori dicono: «Siamo molto vicini a un salto di qualità». Il 20 novembre a Torino, gli autonomi danno la caccia al ministro Mariastella Gelmini, arrivata in città. Poi assalgono la sede del Pdl, in corso Vittorio Emanuele. Vogliono occuparla. Scontri, devastazioni, feriti. Nel frattempo, alla Statale di Milano continuano le aggressioni agli studenti di Comunione e liberazione. E su Facebook nasce un nuovo gruppo che inneggia alle Brigate rosse.
Il 13 dicembre, a Milano, c’è l’attentato a Berlusconi. Tre giorni dopo un ordigno esplosivo distrugge un sottopasso dell’Università Bocconi. La firma è: “Federazione anarchica informale”. Stessa bomba e stessa sigla al Centro raccolta di immigrati clandestini a Gradisca d’Isonzo. In previsione del Natale, a Firenze, incursioni contro i negozi di via Tornabuoni e via Strozzi. E il sabato 19 dicembre, a Torino, corteo violento di squatter, anarchici, centri sociali. Ancora devastazioni e scritte contro il sindaco: «Chiamparino boia, speriamo che tu muoia». Basta così? Sì, per l’autunno-inverno 2009 può bastare.
da: Il Riformista.
Il monastero della tortura
Pubblichiamo un brano tratto da «La dacia delle torture» di Marta Dell’Asta, articolo che compare sull’ultimo numero della rivista «La Nuova Europa», edita da Russia Cristiana Edizioni ‘La Casa di Matriona’ di Seriate. Tra gli altri contributi del bimestrale: «Il cuore del dissenso nelle Lettere di Havel» di Sante Maletta, «Stalin e la carta stampata» di Aleksandr Posadskov, «L’arte è più potente della politica» di Ljudmila Saraskina, «Gli anni meravigliosi di Reiner Kunze» di Thomas Brose, «Iosif Germanovic, che celebrava nei lager» di Rostislav Kolupaev, «Margherita Karikas, prigioniera di due regimi» di Monia Lippi, «Pellegrini nel mirino» di Angelo Bonaguro.
Franco Ferrarotti, Il 68 quarant'anni dopo
Quarant’anni dopo
Autore: Franco Ferrarotti
Prezzo: € 12,00
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Il ’68 innova. Il terrorismo uccide. Ancora oggi i graffiti graffiano. Il potere che rifiuta di esercitarsi come potere viene attaccato come oppressione. Il ’68 non è legato al terrorismo. Gli è contiguo. Ha dato luogo ad una zona grigia, al “brodo sociale” in cui il terrorismo è cresciuto.
Ma il terrorismo è la tomba del ’68. Un’analisi lucida e partecipata dal sociologo che ha conosciuto personalmente tutti i principali protagonisti. Ferrarotti “barone” che ha appoggiato ma anche sfidato i sessantottini. Ne approvava le idee ma non i metodi di espressione.
Un Ferrarotti protagonista di una stagione che ha cambiato le sorti dell’Italia.
Il libro comprende una ricerca inedita sui graffiti comparsi sulle strade di Roma e all’Università “La Sapienza” curata da Maria Immacolata Macioti, sociologa e autrice di numerosi studi sulla società contemporanea.
Herta Müller, Altalena del respiro, Feltrinelli, 2010
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Unità d'Italia: la spedizione dei Mille, 5 maggio 1860
Fra la notte del 5 e il 6 maggio 1860 mille e settanta garibaldini partirono da Quarto, presso Genova, verso la Sicilia per realizzare l’Unità d’Italia.
Tra essi, oltre a Giuseppe Garibaldi e Nino Bixio: Benedetto Cairoli, Ippolito Nievo, Cesare Abba.
Giunsero a Marsala l’11 maggio
Storia delle foibe, La Storia siamo noi
La prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Li considerano “nemici del popolo”. Ma la violenza aumenta nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le foibe ci sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. Lo racconta Graziano Udovisi, l’unica vittima del terrore titino che riuscì ad uscire da una foiba. È una carneficina che testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra l’Italia e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce.
Approfondisci…
Cronologia1943 , 1944 , 1945 , 1946 , 1947 , 2005
Parole chiave
La Storia siamo noi – Storia delle foibe
Nascita nel 1948 di uno Stato Ebraico … il Presidente del consiglio Silvio Berlusconi alla Knesset, il Parlamento d'Israele, 3 febbraio 2010
L’amicizia dell’Italia per Israele è franca, aperta e reciproca, non è solo vicinanza verbale, non è solo diplomazia, è un moto dell’anima e viene dal cuore (…) Questo Parlamento rappresenta la più straordinaria vicenda del Novecento. Questo Parlamento testimonia la nascita nel 1948 di uno Stato Ebraico, libero e democratico che raccolse finalmente, dopo l’orrenda esperienza della Shoah, cittadini del mondo che parlavano tutte le lingue e che accorsero da ogni angolo del mondo. Voi rappresentate ideali che sono universali, siete il più grande esempio, se non l’unico, di democrazia e di libertà nel Medio Oriente, un esempio che ha radici profonde nella Bibbia e nell’ideale sionista (…) Oggi, la sicurezza di Israele nei suoi confini e il suo diritto di esistere come Stato ebraico, sono per noi una scelta etica e un imperativo morale contro ogni ritorno dell’antisemitismo e del negazionismo e contro la perdita di memoria dell’Occidente (…) Sono fiero di ricordare in questa solenne occasione che l’Italia seppe reagire con un grande ‘Israel Day’ di solidarietà e di amore quando le bombe umane seminavano morte ad Haifa, a Tel Aviv, a Gerusalemme sui vostri autobus, nei vostri luoghi di ritrovo, nelle vostre feste nuziali, nelle vostre cerimonie religiose (…) I liberali di ogni parte del globo vedono nel vostro Paese il simbolo positivo, doloroso e orgoglioso di una grande storia che parla di amore, di liberta’, di giustizia, di ribellione al male e noi, liberali di tutto il mondo, vi ringraziamo per il fatto stesso di esistere. Noi siamo uniti nella difesa della democrazia libera dal fanatismo, dal pregiudizio, dalla superstizione, dall’uso della violenza strumentalizzando il nome di Dio. A questa battaglia ci spinge la consapevolezza che ogni uomo e ogni donna nel mondo, quale che sia il loro credo, il loro colore, la loro etnia, ambiscono alla liberta. Israele e’ davvero il simbolo di questa possibilita’ di essere liberi e di far vivere la democrazia anche al di fuori dei confini dell’Occidente, ed e’ proprio per questo che risulta una presenza intollerabile per i fanatici di tutto il mondo“.
Elie Wiesel – Premio Nobel per la pace, Intervento per la celebrazione del Giorno della Memoria, Aula di Montecitorio, 27 Gennaio 2010
I nazisti si schierarono con i palestinesi, con i musulmani del Caucaso ecc. E soprattutto i palestinesi si schierarono con loro e non hanno mai smesso di tradurre e leggere Mein Kampf.
….. per quanto riguarda la sinistra estrema, non si tratta in sostanza di quanto vanno dicendo da sempre i vari “Manifesto” “Unità”, “Liberazione”, “Terra” e altri giornalucoli per cui Israele starebbe commettendo crimini di guerra e atrocità a vagonate contro i poveri palestinesi innocenti? Non è quello che strillano i Comunisti Italiani del Piemonte che hanno aderito al boicottaggio di Israele organizzato dagli islamisti? E non è Ahmadinejad abbastanza simpatico per loro, in quanto nemico di Israele, da fare dimenticare le atrocità del regime contro i suoi oppositori? E allora perché si scandalizzano? Come pretendono di essere all’avanguardia dell’antinazismo riguardo agli ebrei morti nella Shoà (pur “diluendoli” con altre categorie, rom, omosessuali ecc.), quando la pensano esattamente come i nazisti di oggi sugli ebrei di oggi, minacciati di un’altra Shoà dall’Iran con la possibile partecipazione dei volonterosi carnefici di tutto il mondo arabo?
L’alleanza fra neonazisti e neocomunisti contro Israele e gli ebrei non può certo sorprendere noi ….
…. L’alleanza fra neonazisti e neocomunisti contro Israele e gli ebrei non può certo sorprendere noi. I nazisti si schierarono con i palestinesi, con i musulmani del Caucaso ecc. E soprattutto i palestinesi si schierarono con loro e non hanno mai smesso di tradurre e leggere Mein Kampf. Quelli che secondo gli ultrasinistri dovrebbero fare “rossa” la “Palestina” sono a tutti gli effetti, neonazisti. D’altro canto, l’antisemitismo di Stalin era forse meno ossessivamente ideologico di quello di Hitler; ma sul piano pratico era altrettanto mortale. Chi non ci crede, e coltiva ancora il mito dell’Armata Rossa liberatrice, legga Grossman. I reduci della Rote Armee Faction (la banda terrorista Baader Meinhof, l’equivalente tedesco delle Brigate Rosse, che collaborò apertamente con i palestinesi nel terrorismo degli anni Settanta) oggi hanno preso la tessera dei neonazisti.Conclusione della riflessione: chi oggi porta il lutto per la Shoà di settant’anni fa ma appoggia oggi i tentativi di distruggere Israele nella migliore delle ipotesi è incoerente, incapace di mettere ordine nelle sue idee. Nella peggiore e più probabile, è ipocrita. La prova della memoria è quel che si fa oggi. C’è un solo modo vero per essere oggi contro Hitler, ed è essere per Israele. Tutto il resto è chiacchiera ….Ugo Volli
l’intero articolo qui:
Informazione Corretta
8 Settembre: le mie radici civiche
Questo albero di grande maestosità e bellezza è in un giardino condominiale di Albavilla, in provincia di Como.
Col tempo è’ diventato un simbolo naturale che mi parla con sapienza dell’importanza delle radici personali intrecciate a quelle civiche.
Col tempo è’ diventato un simbolo naturale che mi parla con sapienza dell’importanza delle radici personali intrecciate a quelle civiche.
L’8 Settembre 1943 per l’Italia (ma non per gli italiani, purtroppo) è una data periodizzante.
Quel giorno, che si commemora oggi con penose polemiche , il generale Pietro Badoglio siglò l’armistizio con i nuovi alleati americani, dopo che il fascismo mussoliniano aveva – invece – portato il nostro paese alla mostruosa alleanza con la Germania hitleriana della Seconda guerra mondiale e della Shoah. Dopo aver firmato l’armistizio, Badoglio fuggì con il re Vittorio Emanuele III a Brindisi, lasciando l’esercito e tutto il paese nelle mani della violenta reazione tedesca, che mise a ferro e fuoco l’Italia del Nord ancora per altri 2 anni.
Quella data mi ricorda che la Repubblica italiana ha le sue radici nella sconfitta – al prezzo di tantissimi morti e feriti –del fascismo. E questo fornisce alimento alla mia impossibilità morale di aderire a coalizioni di destra, anche quando ne condivido alcune specifiche scelte amministrative.
Ma quella data mi ricorda anche che alle radici della Repubblica italiana ci sono gli Stati Uniti d’America e gli anglo-americani, che parteciparono attivamente alla sconfitta del nazifascismo in Europa.
E questo mi differenzia politicamente dai partiti che fanno di una loro identità antiamericana il loro povero e miserabile cemento ideologico.
Una sola storia e due memorie: leggendo Sergio Luzzatto
Si dice: guardiamo al futuro e sul passato si faccia ricerca storica.
Diciamo che è necessario e realistico.
La politica funziona così: loro hanno il potere e loro dovranno provare a fare gli statisti.
Vorrei, tuttavia, sottrarmi alla litania della “memoria condivisa” su cui blaterano i post-fascisti.
Lo “loro” memoria non sarà mai la mia memoria.
Percorro il ragionamento aiutandomi con un basico scritto di Sergio Luzzatto e un ricordo delle torture ed uccisione del partigiano ebreo Emanuele Artom.
Sottolineature mie
“confusione che oggi si fa tra memoria condivisa e storia condivisa; più in generale tra bisogno di memoria e bisogno di storia…. Occorrerebbe spiegare che la memoria collettiva sulla quale si affaticava la mente geniale di uno studioso come Marc Bloch non equivale necessariamente alla memoria condivisa” (pag. 15) di cui tessono l’elogio i revisionisti da strapazzo.
“L’una (la storia) rimanda a un unico passato, cui nessuno di noi può sottrarsi, mentre l”altra (la memoria condivisa) sembra presumere un’operazione più o meno forzosa di azzeramento delle identità e di occultamento delle differenze. Il rischio di una memoria condivisa è una smemoratezza patteggiata, la comunione nella dimenticanza” (pag. 25).
“Credo sia venuto il momento di dire ai cattivi maestri – votino a destra o a sinistra – una cosa semplicissima, ma di dirla forte e chiara: la guerra civile combattuta tra il 1943 e 45 (o 46) non ha bisogno di interpretazioni bipartisan che ridistribuiscano equamente ragioni e torti, elogi e necrologi. Perché certe guerre civili meritano di essere combattute. E perché la moralità della Resistenza consistette anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l”Italia anche a costo di spargere sangue” (pag. 29). “Ripeto: si può condividere una storia – e si può condividere una nazione o addirittura una patria – senza per questo dover dividere delle memorie. Dico di più: una nazione e perfino una patria hanno bisogno come del pane di memorie antagonistiche, fondate su lacerazioni originarie, su valori identitari, su appartenenze non abdicabili né contrattabili“.
“Oggi, con il mio collega storico – nonchè mio ex professore alla Normale – Roberto Vivarelli io certamente condivido, da cittadino italiano, tutta una storia. È quella stessa storia (a posteriori cosi straziante, e infatti cosi poco studiata) che fece in maggioranza degli ebrei italiani, e forse di mio nonno, altrettanti volenterosi ammiratori di Mussolini.
Ma se parliamo di memoria, io desidero e pretendo che la mia e quella di Vivarelli restino memorie divise. Si tenga pure, lui, la memoria di suo padre squadrista, marciatore su Roma, volontario in tutte le guerre del duce; si tenga la memoria di se stesso, imberbe volontario delle brigate nere. Io mi tengo la memoria del nonno che non ho mai conosciuto: del medico che perse, dopo la cattedra universitaria, ogni diritto di curare pazienti «ariani», prima di nascondersi a Lucca come un topo braccato per sfuggire ai risultati estremi della persecuzione razziale. E mi tengo la memoria di mio padre bambino, che dovette celare tra i monti della Garfagnana la sua originaria condizione di «mezzo» ebreo, cosi da sottrarsi al treno per Auschwitz.
Inoltre, sostengo che è assurdo pretendere di versare il sangue di mio nonno, di mio padre, o di qualunque altro ebreo fortunosamente scampato alla Soluzione finale, nell’improbabile calderone di un sangue dei vincitori in tutto e per tutto distinto dal sangue dei vinti.
No, davvero non riesco a pensare a mio nonno come a un vincitore: lui che nel 1915, da fervido irredentista triestino, si era arruolato volontario nella Grande Guerra per combattere sotto le insegne di Casa Savoia; lui che, vent’anni più tardi, ha letto la firma del suo maestro Pende in calce al «Manifesto della razza»; lui che il io giugno del 1940 – ormai da ebreo perseguitato – è nondimeno sceso con suo figlio (mio padre) in piazza De Ferrari, a Genova, per raccogliere dall’altoparlante la voce di Mussolini che annunciava stentorea l’entrata dell’Italia fascista nella seconda guerre mondiale; lui che, nell’Italia della Repubblica, non avrebbe comunque più ritrovato lo scranne della sua cattedra universitaria. (Pag. 24-25)
Tra i due schieramenti vi era incompatibilità di valori:
“La qualità etica dei valori in nome dei quali le brigate partigiane (anche le Garibaldi) fecero la Resistenza risiede precisamente nella loro incompatibilità con i valori in nome dei quali le brigate nere spalleggiarono la Wehrmacht e le SS nell’opera di repressione del banditismo antifascista”(pag. 31).
“Mi riesce più gradito riconoscere nella guerra partigiana la carta di identità del paese in cui sono nato e mi riesce necessario pensare all’Italia della Resistenza come al terreno dove gli Italiani devono tracciare ‘ora e sempre’ i confini non negoziabili della loro identità, la soglia del non rinunciabile da sé” (pag. 33).
da Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi 2002
“Emanuele Artom sognava un mondo senza guerre: a renderlo possibile sarebbe stata una generazione di «uomini nuovi» scaturita direttamente dall’esperienza della lotta antifascista. In questo senso, il disincanto con cui all’inizio guardava i suoi compagni si trasmutò lentamente in speranza. «Siamo quello che siamo: un complesso di individui, in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania, in parte spinti dal desiderio di avventura, in parte da quello di rapina», aveva scritto il 22 novembre 1943, appena arrivato in banda. Subito dopo, però, affiorò la consapevolezza che in ogni uomo c’è una scintilla da cui partire, che «si cresce e si diventa migliori nel confronto con la vita e con la morte».
Fu catturato dai tedeschi durante un rastrellamento in prossimità del Colle Giulian, in Val Pellice, il 25 marzo 1944. Torturato per cinque giorni, fu trasferito nelle carceri Nuove di Torino. Lì, in una cella, fu rinvenuto cadavere il 7 aprile. Della sua sepoltura non si è mai trovata traccia. Le testimonianze dei compagni di prigionia sono raccapriccianti: bagni nell’acqua gelata, unghie estirpate, percosse fino a sfigurarlo, e poi gli scherni, gli insulti, Emanuele fotografato per la rivista Der Adler a cavallo di una mula, con una scopa in mano. Era stato riconosciuto come commissario politico e come ebreo: di qui l’accanimento dei carnefici, l’orrore di un martirio straziante.”
in Giovanni De Luna recensione di: Diario di un partigiano ebreo, Bollati Boringhieri, pp. 232, e18) a cura di Gury Schwarz.
Quale memoria condivisa con questa storia?
Brianzolitudine sul 25 aprile
Brianza Achtung Banditen!
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Questa piazza Arturo De-Capitani,
luogo più centrale del mio paese
natio, è dedicata a un uomo che prese
parte (pur minore) coi partigiani
locali alla guerra contro gli ariani
nazisti, alla Liberazione: arnese
ignoto ormai oggi, quasi un cinese
episodio d’altri tempi lontani,
non più nostra devastata memoria;
morì il ventisei aprile dell’anno
millenovecentoquarantacinque,
cadde equiparato con chi delinque
dai fascisti e invece (adesso lo sanno
in pochi) era complice della Storia.
Andiamo ormai verso i settant’anni dall’insurrezione che ha messo fine alla dittatura fascista, ma la memoria sempre più labile non aiuta a dare senso a quel momento fondante della nostra Repubblica.
E ogni giorno che passa i partigiani sempre più rischiano di essere ricordati come lo erano all’inizio, sui cartelli nazisti messi agli angoli delle strade dei territori del nord Italia occupato: achtung banditen!
Per questo la memoria è essenziale. Perchè la mancanza di memoria storica rischia di equiparare il giusto e l’ingiusto, il buono ed il malvagio, il relativismo e l’ansia di giustificazionismo (per non dire di peggio) rischiano di avvilire chi ha dato la vita per la libertà che oggi godiamo (e che forse non ci meritiamo, quando dimentichiamo le lotte di chi ha resistito).
Questo senza togliere il rispetto a chi – in buona fede e per malinteso senso dell’onore – decise dopo l’8 settembre 1943 di schierarsi dalla parte della Repubblica di Salò, ma occorre ricordare meritatamente chi col proprio sacrificio ha fatto in modo che di queste cose, oggi, si possa liberamente discutere, magari anche con opinioni diverse.
Il territorio della Brianza, proprio nei giorni decisivi di fine aprile 1945, fu insanguinato dalla morte di decine di partigiani insorti, molti dei quali sulla strada statale da Bergamo a Como, ove furono ammazzati da una brigata di fascisti in fuga verso il confine svizzero.
La piazza del mio paese – già nel primissimo dopoguerra – fu intitolata a un partigiano tra questi caduti: Arturo De Capitani di Olgiate Molgora, che morì appunto ucciso da una brigata di repubblichini che fuggiva verso Como, nel tratto di strada tra Rovagnate e Lambrugo, sul viale alberato della statale Como-Bergamo la notte del 26 aprile 1945.
Molti ancora pensano che la liberazione del Nord Italia si sia conclusa il 25 aprile 1945, in realtà quella data fu solo l’inizio dell’insurrezione, che scoppiò quel giorno a Milano e proseguì nei giorni successivi (ricordiamo che Mussolini fu giustiziato a Dongo solo nella giornata del 28 aprile).
Oggi in auto si va di fretta e distratti, in quel punto esatto dove De Capitani e altri partigiani furono uccisi nell’agguato, e si cammina sulla piazza del mio paese senza nemmeno alzare gli occhi a quella lapide annerita, quasi illeggibile: ben pochi sanno, ricordano chi sia quell’Arturo De Capitani cui la piazza è dedicata. Trentacinque in tutto furono i morti – combattenti nella Brigata Puecher, più sotto i loro nomi e le foto – che la Brianza ebbe a contare al termine dell’insurrezione, soprattutto in quell’attentato nella notte del 26 aprile. Molti di questi caduti riposano nel cimitero di Cremella.
Le parole servono poco dopo così tanti anni, ma almeno il ricordo dei loro nomi e dei loro volti credo sia giusto lasciarlo, su queste pagine dedicate alla brianzolitudine.
Tutti nomi importanti a modo loro, quelli di quei trentacinque brianzoli partigiani morti che hanno contribuito a fare la Storia del nostro Paese; credo meritino di essere segnalati i nomi dei tre più giovani, di soli 18 anni (una età nella quale oggi si passa quasi più tempo a cazzeggiare col cellulare che a pensare): Enrico Stellari di Erba, Ugo Fumagalli e Alessandro Sironi, questi due ultimi di Cremella.
L’immagine di Alessandro Sironi, in particolare, mi ha molto colpito. Guardatelo più sotto, in quella fotografia sbiadita: pare il viso di un bambino ed era in effetti appena più di un ragazzo, anche lui morto per la libertà dell’Italia.
Credits: www.brianzapopolare.it
da Brianzolitudine.
Spunti da JazzFromItaly sull’Essere in situazione
Che cosa vuol dire “essere in situazione”?
Ecco, essere in situazione – per me, MA ANCHE per gli altri – vuol dire esserci come INDIVIDUO singolo (materialmente costituito di corpo e pulsioni e geneticamente programmato a stabilire relazioni) che ha appreso – durante l’infanzia/adolescenza/età adulta/transizione alla vecchiaia – norme e valori dalla CULTURA che mi è stata attorno e che mi ha orientato a stare nella SOCIETA’, che è quell’insieme di costrutti umani (stato ed istituzioni, in primo luogo) che caratterizzano la specie umana (1).
Prima di morire, se sarò sereno e lucido, saranno questi flussi di pensiero a scorrermi davanti agli occhi che illuminano la mente. E sarà il fotogramma della vita in un attimo.

E’ questo insight che mi ha attivato la quasi reverie notturna di cui JazzFromItaly ha voluto farmi partecipe questa notte (commento 5):
amalteo…
passo di rado,
ma ogni volta mi sento come a casa di un caro amico, dove tutto mi è familiare, in sintonia, fortemente espresso, deciso e rassicurante al tempo stesso.
In questo periodo storico, le crisi che attraversano il mondo in varie forme mi hanno fatto vedere “l’evento politico” italiano come piccola cosa.
Lo sconsiderato consumo di energia come generatore di macro profitti ha causato la crisi energetica che ha risvolti sanguinosi nel delta del Niger, cambiando per sempre il volto della Madre Africa.
Lo stesso vale per i Paesi arabi ed il medio oriente, dove la messinscena dei rigurgiti integralisti camuffa la stessa cruenta lotta per l’oro nero.
La Cina, implosa sul suo enorme potere economico, altamente inquinante e da tutto il mondo alimentato in cambio di mano d’opera a costo zero, commette efferati crimini che nasconde sotto la luce dei cinque cerchi olimpionici.
Gli USA, che distillano terrore come avevano fatto solo ai tempi, purtroppo ancora vicini, del KKK.
E l’Europa, vecchia e grassa signora, stà a guardare…
non impariamo mai.
Cos’è il fazioso scontro televisivo dei politicanti italiani, l’osceno balletto di servi e lacché di fronte a questo, pensavo.
C’è altro a cui pensare, mi dicevo.
Invece vengo qui e, la tua sincerità, il tuo dichiarato gesto civico, la tua sensibilità ed intelligenza mi “costringono” a pensare…
A pensare a questo paese che, passato questo week-end avrà comunque un altro volto.
E potrà cambiare le sorti di noi cittadini.
Tra quattro giorni.
Poco tempo.
E’ notte, dovrei dormire, ma non posso smettere di pensare:
come sarà domani?
Mio padre mi racconta che quando gli alleati bombardarono S. Lorenzo, per “liberare” Roma dai nazisti,
lui non aveva paura.
Avrebbe dovuto averne, ma era piccolo e non ne aveva.
Però non poteva smettere di pensare:
come sarà domani?
domani tornerò a scuola con Sarah e Ariel, che sono inspiegabilmente spariti?
domani potrò tenere accesa la luce nel letto per leggere?
mio padre andrà a lavorare e tornerà a casa sorridente?
In un paio di notti ci può cambiare il mondo intorno.
E tu, questa notte hai fugato ogni mio dubbio.
Non che avessi dubbi su CHI votare, perchè per storia personale, coerenza, senso civico e memoria storica, non avrei mai potuto votare per un uomo, un partito o un’accozaglia di individui che trattano lo Stato Italiano come un’azienda.
Che si permettono di trattare la questione politica come una strategia di marketing, piuttosto che un valore costituente la nostra società.
Loschi figuri che comandano (gestiscono non rende l’idea) due terzi dei media italiani, alterando il contenuto – a loro convenienza – e l’efficacia dell’informazione, che mettono in atto gravi censure al libero pensiero, che prosperano in un conflitto di interessi che tutti noi abbiamo lasciato sviluppare, che ci propinano programmi che “rincoglioniscono” la gente, che sono stati condannati in falso in bilancio
(da loro stessi poi giudicato non più reato) e concussione, che hanno carichi pendenti con la magistratura che a noi, comuni mortali, non ci permetterebbero nemmeno di accedere ad un concorso pubblico,
che hanno rigurgiti di nazionalismi inutili, faziosi e deleteri, che investono miliardi di miliardi nel calcio e niente nello sviluppo e nella formazione del paese, che vogliono abolire leggi che si sono conquistate con anni di lotta e di emancipazione – come l’aborto – a favore di un potere clericale che ci riporta nel Medioevo,
e che sono ancora, da sempre, ai loro posti, strapagati da noi contribuenti indebitati.
Ma ora so cosa posso fare IO per il nostro domani,
andando a votare.
Mancano solo quattro giorni,
e noi possiamo decidere la direzione che prenderà questo paese.
Solo quattro notti, per cambiare il domani.
amalteo,
ma gli altri riescono a dormire?
ti abbraccio,
R.
(1) Sono gli appigli teorici e pratici di tutto il mio percorso professionale. Due fonti per tutte:
John Dewey, Come pensiamo, La Nuova Italia, 1968
Carlo Tullio-Altan, Antropologia culturale, Bompiani, 1968
la miseria personale ed etica del brigatista rosso valerio morucci e la grandezza umana e politica di ALDO MORO: la telefonata che anticipa l’assassinio, quella dopo l’assassinio e le lettere prima della morte, 16 marzo 2008
Telefonata di Valerio Morucci al professor Franco Tritto, amico di Moro.
“E’ il professor Franco Tritto?”
Chi parla?”
Il dottor Nicolai.”
Chi, Nicolai?”
È lei il professor Franco Tritto?”
“Sì, ma io voglio sapere chi parla. ”
“Brigate rosse. Ha capito?”
“Sì.”
“Adempiamo alle ultime volontà del presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’ onorevole. Aldo Moro. Mi sente?”
“Che devo fare? Se può ripetere…”
“Non posso ripetere, guardi. Allora, lei deve comunicare alla famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole. Aldo Moro in via Caetani. Via Caetani. Lì c’è una Renault 4 rossa. I primi numeri dì targa sono N5.”
La mattina del 16 marzo 1978 – il giorno in cui un nuovo governo guidato da Giulio Andreotti e sostenuto dall’allora Partito Comunista Italiano – stava andando in Parlamento per ottenere la fiducia, l’auto che trasportava Aldo Moro, dalla sua abitazione alla Camera dei Deputati, fu intercettata in via Fani, a Roma, da un commando delle Brigate Rosse. In pochi secondi i terroristi (Mario Moretti, Barbara Balzerani, Valerio Morucci, Prospero Gallinari, Alvaro Lojacono, Alessio Casimirri, Rita Algranati, Bruno Seghetti, Raffaele Fiore, Franco Bonisoli) uccisero i due carabinieri a bordo dell’auto di Moro (Domenico Ricci e Oreste Leonardi) e i tre poliziotti sull’auto di scorta (Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi) e sequestrarono il presidente della Democrazia Cristiana.
Penso che la storia dell’assassinio di Aldo Moro sia una storia tutta italiana. E’ la storia delle Brigate rosse. E’ la storia di una componente tutta interna alla “famiglia politica” del comunismo italiano. Lo testimoniano le biografie dei componenti di quel gruppo di assassini.
Ma è l’Aldo Moro “persona” che vorrei fare risaltare in questo mio ricordo.
Dopo una prigionia di 55 giorni – durante la quale venne sottoposto ad un interrogatorio e ad un “processo politico” (sic !) e venne chiesto invano uno scambio di prigionieri con lo stato italiano – il cadavere di Aldo Moro fu ritrovato il 9 maggio nel cofano di una Renault 4 a Roma, in via Caetani, emblematicamente a poca distanza da Piazza del Gesù (dov’era la sede nazionale della Democrazia Cristiana) e via delle Botteghe Oscure (dove era la sede nazionale del Partito Comunista Italiano).
Mario Moretti è stato condannato a sei ergastoli, dal 1994 è in libertà condizionata ed è attualmente coordinatore del laboratorio di informatica della Regione Lombardia, stipendiato da quella pubblica amministrazione che egli voleva un tempo distruggere. Barbara Balzerani (tra le ultime ad essere arrestata) è stata condannata all’ergastolo e dal 2006 è in libertà vigilata. Valerio Morucci ha avuto più condanne all’ergastolo, portate poi a ventidue anni e mezzo per l’applicazione della legge sulla dissociazione. Ha poi ottenuto la semilibertà e la libertà condizionale. Ha pubblicato alcuni libri e (anche lui!) lavora in informatica. Alvaro Lojacono vive in Svizzera e non ha mai scontato un solo giorno di carcere. Alessio Casimirri ha ottenuto la cittadinanza dello stato del Nicaragua – grazie ad un matrimonio e ai buoni rapporti con uomini politici e militari del paese – dove ha partecipato alla lotta dei sandinisti (uno dei tanti partiti ispirati a Che Guevara) contro i Contras. Attualmente è padrone di un ristorante a Managua. Nella metà degli anni 90 Prospero Gallinari, a causa di gravi motivi di salute, dopo quindici anni di prigione riesce ad ottenere i primi permessi premio per poter tornare a casa.
Durante il periodo della sua detenzione, Aldo Moro scrisse alcune lettere ai principali esponenti della Democrazia Cristiana, alla famiglia ed all’allora Papa Paolo VI .
Alcune arrivarono a destinazione, altre non furono mai recapitate.
Estraggo quelle di maggior significato personale, per segnare l’abisso morale che divide la persona Aldo Moro dai suoi assassini, dagli indifferenti e dalla zona grigia di coloro che ancora oggi assegnano valore a quella teoria politica in quanto “necessaria nel quadro dello scontro sociale di quegli anni”.
“Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più autorevole, il “teorico” e lo “stratega” indiscusso di questo regime democristiano che da trenta anni opprime il popolo italiano […] la controrivoluzione imperialista […] ha avuto in Aldo Moro il padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste.” (Brigate Rosse, Primo Comunicato)
Genesi 44-29 segg.
“e se mi togliete anche questo, e se gli avviene qualche disgrazia, voi farete scendere la mia canizie con dolore nel soggiorno dei morti. Or dunque, quando giungerò da mio padre, tuo servitore, se il fanciullo, all’anima del quale è legata, non è con noi, avverrà che, come avrà veduto che il fanciullo non c’è, egli morrà e i tuoi servitori avranno fatto scendere con cordoglio la canizie del tuo servitore nostro padre nel soggiorno dei morti. …Perché come farei a risalire da mio padre senz’aver meco il fanciullo? Ah, ch’io non vegga il dolore che ne verrebbe a mio padre.”
Così Luca lontano fa scendere la mia canizie con dolore nel soggiorno dei morti.
Mia dolcissima Noretta,
ti mando alcune lettere da distribuire che vorrei proprio arrivassero come mi è stato promesso. Aggiungo due testamenti che ho già mandato, ma che temo possono non essere arrivati. Uno è il mio lascito ad Anna della mia quota di condominio al terzo piano. L’altro è un lascito a Luca, il mio archivio che, come esecutori testamentari il Sen. Spadolini ed il Dott. Guerzoni dovrebbero opportunamente alienare ad Istituto o Biblioteca, preferibilmente italiani, per costituire una piccola rendita per il piccolo, al quale va la mia infinita tenerezza.
Carissima, vorrei avere la fede che avete tu e la nonna, per immaginare i cori degli angeli che mi conducono dalla terra al cielo. Ma io sono molto più rozzo. Ho solo capito in questi giorni che vuol dire che bisogna aggiungere la propria sofferenza alla sofferenza di Gesù Cristo per la salvezza del mondo. Il Papa forse questa mia sofferenza non l’ha capita. E sembra, d’altro canto, impossibile che di tanti amici non una voce si sia levata. Pacatamente direi a Cossiga che sono stato ucciso tre volte, per insufficiente protezione, per rifiuto della trattativa, per la politica inconcludente, ma che in questi giorni ha eccitato l’animo di coloro che mi detengono. …
Ma ormai è fatta. Mi è stato promesso che restituiranno il corpo ed alcuni ricordi. Speriamo che si possa. E voi siate forti e pregate per me che ne ho tanto bisogno. Tutto è così strano. Ma Iddio mi dia la forza di arrivare fino in fondo e mi faccia rivedere poi i tanto dolci visi che ho tanto amato ed ai quali darei qualunque cosa per essere ancora vicino. Ma non ho, purtroppo, tutto quello che dovrei dare. Così fosse possibile. Dopo si vedrà l’assurdità di tutto questo. Ed ora dolcissima sposa, ti abbraccio forte con tutto il cuore e stringo con te i nostri figli e i nipoti amatissimi, sperando di restare con voi così per sempre. Un tenerissimo bacio.
Aldo
A Eleonora Moro
(lettera non recapitata)
Mia dolcissima Noretta,
dopo un momento di esilissimo ottimismo4, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo 5, al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell’incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione. Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l’indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati in altro modo puniti, noi e i nostri piccoli. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della D.C. con il suo assurdo ed incredibile comportamento. È sua va detto con fermezza cosi come si deve rifiutare eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. E poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall’idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati delle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare 6. E questo è tutto per il passato. Per il futuro / c’è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in un’unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienmi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca) Anna Mario il piccolo non nato Agnese Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo
1 Recapitata il 5 maggio, insieme con la successiva, da don Mennini, ma la data di stesura potrebbe essere antecedente. Non è presente tra i dattiloscritti ritrovati nell’ottobre 1978, né tra le fotocopie dei manoscritti di dodici anni dopo. L’originale è riprodotto in CM, voi. CXXII, pp. 445-46. E lettera autonoma dalla seguente. Lo stesso giorno, qualche ora prima, il comunicato n. 9 delle Br annunciava: «Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato». Divulgata il 13 settembre 1978 dal «Corriere della Sera», p. 6, ma fu pubblicata per la prima volta integralmente e in modo autonomo dalla successiva, in L’intelligenza e gli avvenimenti, pp. 427-28.
2 Si distingue una «t» corretta: forse in precedenza aveva scritto «politiche».
3 È il solito esergo aggiunto posteriormente nello spazio residuo del foglio.
4 Questa espressione non sembra essere giustificata dai toni sicuri delle due versioni della lettera a Zaccagnini e soprattutto dal perentorio argomentare delle pagine finali del “Memoriale”, che non sono certo il prodotto di un «esilissimo ottimismo».
5 II prigioniero, rispetto alla lettera successiva, «crede» ancora, cioè non è del tutto sicuro di morire: in 55 giorni sarebbe questa la terza volta in cui vive un simile stato emotivo di imminente minaccia di morte.
6 A proposito di questa raccolta di firme, Guerzoni ha testimoniato in Commissione stragi, il 6 giugno 1995: «L’onorevole Moro chiese la raccolta di cento firme per convocare il Consiglio Nazionale e noi arrivammo a ventinove, a quel punto dissi che non avrei più collaborato per cercare le firme, perché non volevo che l’onorevole Moro rimanesse alla storia come colui che aveva determinato la rottura formale del partito. A mio parere infatti l’onorevole Moro non voleva la rottura del partito; semmai che venissero in evidenza delle contraddizioni. Tanto più ero convinto di questo, perché sapevo che egli non sarebbe mai tornato e che quindi oltretutto avremmo fatto delle operazioni di significato storico che non servivano nemmeno a salvarlo». Secondo la testimonianza di Vittorio Cervone, fra i promotori nel 1968 della corrente democristiana «Gli amici di Aldo Moro», il 9 maggio, alle 13,1 principali esponenti del gruppo, erano riuniti a pranzo al ristorante il « Barroccio» e stavano decidendo di chiedere la convocazione del Consiglio nazionale della De, quando furono raggiunti dalla tragica notizia del ritrovamento del cadavere dell’uomo politico (Cervone, Ho fatto di tutto, p. 44).
da: Aldo Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di Miguel Gotor, Einaudi 2008, p. 177-179
A Maria Fida Moro e D. Bonini
Miei carissimi Fida e Demi,
credo di essere alla conclusione del mio calvario e desidero abbracciarvi forte forte con tutto l’amore che, come sapete, vi porto. Forse in qualche momento sarò stato nervoso o non del tutto capace di comprensione. Ma l’amore dentro è stato grande in ogni momento con un desiderio profondo della vostra felicità sempre in una vita retta, quale voi conducete. Con Luca, dicevo, mi avete dato la gioia più grande che io potessi desiderare. Questa è per me la punta più acuta di questa dolorosissima vicenda. Non vedere il piccolo e non potergli dare tutto l’amore, tutto l’aiuto, tutto il servizio che avevo progettato. So poi i problemi di Fida che tutti dobbiamo aiutare. Ho già detto a quanti lo amano che gli siano vicini, che facciano la mia parte, che prendano il mio posto. Anche tu, Demi carissimo, tienilo pieno d’amore come egli merita; tienilo tra le braccia come vorrei tenerlo e come sarei felice di fare, lasciando ogni altra cosa. Vivete uniti con la nonna, con gli zii, con gli amici. …. Ricordatevi di me che ricordo e prego. Che Iddio vi aiuti a passare questo brutto momento e dia a voi ed al piccolo tutta la felicità. Che Iddio vi benedica come io vi benedico e vi abbraccio dal profondo del cuore.
Papà
per Fida e Demi
A Anna Moro e Mario Giordano
Miei carissimi Anna e Mario,
credo di essere ad un momento conclusivo e desidero abbracciarvi forte forte con tutto l’amore che meritate. C’è stato certo qualche momento di difficoltà dovuto ad un momento particolarmente impegnativo. Spero che sia davvero cancellato tutto e che siate uniti e in salute, come mamma mi scrive tramite il giornale. Tu sai, Anna mia, quanto bene ti ho voluto da sempre, come ho goduto della tua confidenza e fiducia, come sono riuscito a vincere alcune tue amarezze. Poi è venuto Mario ed io sono stato felice che un’altra persona cara abbia preso a svolgere la funzione che era stata mia. E ne sono felice tuttora. Non per questo però ti ho voluto e ti voglio meno bene. Sei sempre la mia piccolina della gamba destra, mentre Agnese era per parte sua quella della gamba del cuore. Tempi felici. Niente ha potuto annullare la grandezza dell’amore. A qualsiasi età i figli sono i nostri piccoli. E tu sei la mia piccola. Come vorrei vedere nascere il tuo bimbo. Che venga su bello, buono, vispo, felice. Mi parrà di averlo conosciuto. Non so darvi nessun consiglio. Vogliatevi bene sempre e siate uniti alle vostre due famiglie. Tutte ne hanno diritto: una, la nostra, un particolare bisogno. Siate buoni e puliti come siete stati sempre. Iddio vi aiuterà. Quello che Egli vi toglie, vi darà in altro modo. Certo tutto questo pesa. Ma sia fatta la volontà del Signore.
Carissimi, vi abbraccio forte dal profondo del cuore e vi benedico. Ricordatemi ai vostri cari.
Papà
per Anna e Mario
Mio carissimo Luca,
non so chi e quando ti leggerà, spiegando qualche cosa, la lettera che ti manda quello che tu chiamavi il tuo nonnetto. L’ immagine sarà certo impallidita, allora. Il nonno del casco, il nonno degli scacchi, il nonno dei pompieri della Spagna, del vestito di torero, dei tamburelli. E’ il nonno, forse ricordi, che ti portava in braccio come il S.S. Sacramento, che ti faceva fare la pipì all’ora giusta, che tentava di metterti a posto le coperte e poi ti addormentava con un lungo sorriso, sul quale piaceva ritornare. Il nonno che ti metteva la vestaglietta la mattina, ti dava la pizza, ti faceva mangiare sulle ginocchia. Ora il nonno è un po’ lontano, ma non tanto che non ti stringa idealmente al cuore e ti consideri la cosa più preziosa che la vita gli abbia donato e poi, miseramente, tolta. Luca dolcissimo, insieme col nonno che ora è un po’ fuori, ci sono tanti che ti vogliono bene. E tu vivi e dormi con tutto questo amore che ti circonda. Continua ad essere dolce, buono, ordinato, memore, come sei stato. Fai compagnia oltre che a Papà e Mamma, alla tua cara Nonna che ha più che mai bisogno di te. E quando sarà la stagione, una bella trottata coi piedini nudi sulla spiaggia e uno strattone per il tuo gommoncino. La sera, con le tue preghiere, non manchi la richiesta a Gesù di benedire tanti ed in ispecie il Nonno che ne ha particolare bisogno. E che Iddio pure ti benedica, il tuo dolcissimo volto, i tuoi biondi capelli che accarezzo da lontano, con tanto amore. Ti abbraccia tanto nonno
Aldo
Mio carissimo Luca,
non so chi e quando ti leggerà questa lettera del tuo caro nonnetto. Potrai capire che tu sei stato e resti per lui la cosa più importante della vita. Vedrai quanto sono preziosi i tuoi riccioli, i tuoi occhietti arguti e pieni di memoria, la tua inesauribile energia. Saprai così che tutti ti abbiamo voluto un gran bene ed il nonno, forse, appena un po’ più degli altri. Per quel poco che è durato sei stato tutta la sua vita.
Ed ora il nonno Aldo, che è costretto ad allontanarsi un poco, ti ridice tutto il suo infinito affetto ed afferma che vuole restarti vicino. Tu non mi vedrai, forse, ma io ti seguirò nei tuoi saltelli con la palla, nella tua corsa al [… ] nel guizzare nell’acqua, nel tirare la corda al motore. Io sarò là e ti accarezzerò, come sempre ti ho accarezzato, dolcemente il visino e le mani. Ti sarò accanto la notte, per cogliere l’ora giusta della pipì, e farti poi dolcemente riaddormentare. E la mattina portarti la vestaglietta, magari con le scarpette pronte in mano in attesa della pizza o del pane fresco. Queste sono state le grandi gioie di nonno e, per quanto è possibile lo resteranno. Cresci buono, forte, allegro serio. Il nonno ti abbraccia forte forte, ti benedice con tutto il cuore, spera sia in mezzo a gente che ti vuol bene e che forma anche la tua psiche.
Con tanto amore
il nonno
Mio carissimo Giovanni,
tu sei il più piccolo e insieme, in un certo senso, il capo della famiglia. Ti devo trattare da uomo, anche se non riesco a distaccarmi dalla tua immagine di piccolino, tanto amato e tanto accarezzato. Lo so c’è stato poi il momento in cui hai rivendicato la tua autonomia ed hai forse avuto un po’ fastidio di un padre un tantino opprimente (s’intende per amore). Ma è stato poi bello, quando, passata quell’età critica, sei stato tu stesso che sei tornato a carezzarmi di quando in quando. Ed io la tua carezza non l’ho dimenticata, né, in quest’ora triste, la dimentico. Così sei restato il mio piccolino, che avrei voluto accompagnare un po’ più a lungo nella vita. Che anno terribile. Che anno incomprensibile. Povero libro del buon Mancini che avrei dovuto leggere e che avevo con me in macchina da qualche parte. Che ne sarà stato? E’ meglio non pensare. Voglio solo dire, senza contrastare la tua vocazione, che vi sono in politica fattori irrazionali che creano situazioni difficilissime. E’ meglio essere prudenti e difendersi dall’incomprensione. Sarei più tranquillo per te e per Emma (che ricordo tanto e che ti farà buona compagnia), se non ti avviassi su questa strada. Io volentieri tornerei indietro, come consigliava la mamma, ma sono stato preso dal laccio di questa infausta presidenza del Consiglio nazionale. Sia fatta la volontà di Dio. Tu studia, prega, opera per il bene, aiuta la famiglia ed il piccolo Luca che mi fa finire nell’angoscia. Fai un po’ meno fuori, un po’ più per questo bambino carissimo che mi strazia il cuore. Sii prudente, saggio, misurato in tutto. Consigliati con Don Mancini che mi saluterai tanto. Quanto la sua previsione, fatta di amore, non ha avuto riscontro nella realtà. Ti abbraccio forte forte con Emma, piccolo mio e ti benedico dal profondo del cuore.
il tuo papà
Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là
Speciale Ballarò propone lo spettacolo teatrale
“Passa una vela…spingendo la notte più in là”
regia di Luca Zingaretti, tenutosi il 6 dicembre 2007 nella sala Santa Cecilia dell’Auditorium di Roma.
Trasmissione di valore.
Ha avuto origine dall’attore Luca Zingaretti che, emozionalmente preso dal tono di questa scrittura, l’ha voluta leggere in modo mirabile:
“Sono rimasto ammirato e commosso” è il commento di Zingaretti “dalla serenità e dalla pacatezza, sarei tentato di dire la dolcezza, con cui Mario Calabresi parla di temi che non sono sicuramente nuovi, ma che in questo libro assumono un significato e una potenza finora sconosciuta”Mi sono segnato alcuni appunti, mentre vedevo e sentivo:
– non c’era una guerra civile, ma solo dei giovani barbari e offuscati dai libro di famiglia della cultura violenta di sinistra e di destra, che hanno dichiarato una loro personale guerra che ha preso di mira magistrati, sindacalisti, giornalisti, direttori sanitari, avvocati. Non c’era una guerra, c’era invece chi si “sentiva in guerra”
– una costante di questi genitori assassinati è che “amavano il loro lavoro”
– terroristi come dei romantici: mito duro a morire
– rimozione di che è stato ucciso. Rimozione delle vittime e delle mogli e dei figli delle vittime
– cominciamo a chiamarli “ex assassini terroristi” e per quelli che sono diventati persone pubbliche scrivere nel loro curriculum chi hanno assassinato
– feroce, aggressivo, agghiacciante cancro ideologico alimentato dalle ideologie dell’odio basate sullo schema amico/nemico. Sostrato di cultura che esiste ancora oggi. Quel linguaggio, quell’asprezza è ancora presente oggi. C’è una cultura che non è cambiata
– c’è un Album di famiglia ancora aperto.
– incapacità di trasformare quei lutti privati in fatto pubblico
– mia riflessione depressa: Gad Lerner non ha avuto la decenza, questa sera, di sospendere la sua trasmissione parallele su La7. Il suo giornale Lotta continua, in quegli anni, ha avuto la funzione di eccitare quotidianamente la cultura dell’odio che, in alcune psicologie, si è tradotta in concreta azione e in uno stillicidio di assassini
Colgo l’occasione per ritornare sulle mie tracce e riproporre una scheda su questo libro.
La lettura dl libro Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, Mondadori, 2007, p. 130, se appena si fa agire un pochino il principio della intermittenza del cuore, suscita tanta commozione, ma subito dopo ha un benefico potere curativo.
Innanzitutto cura i sopravvissuti ai crimini del terrorismo politico.
Perché ora un involontario protagonista indiretto di quell’orribile decennio comincia a restituire la memoria di chi era morto:
“Spararono a mio padre alle 9.15 mentre apriva la portiera della Cinquecento blu di mia madre. Era appena uscito di casa, dopo vari tentennamenti che lo avevano portato a rientrare per ben due volte, la prima per sistemarsi il ciuffo, la seconda per cambiarsi la cravatta. Era uscito con una cravatta rosa, se la sfilò per metterne una bianca, e a mamma che lo guardava scuotendo la testa e prendendolo in giro rispose: «Preferisco questa perché ha il colore della purezza». Lei richiuse la porta senza dare peso a quelle parole.” (Pag. 32)
Dentro di me questo libro cura la cultura storica e il connesso desiderio di giustizia.
Di rado si accosta una scrittura così densa di sé.
In questo libro c’è un controllo di sè che suscita ammirazione.
Come quando, in una recente manifestazione a favore della Palestina cui partecipa anche l’esponente della sinistra comunista Oliverio Diliberto, un gruppo di ragazzi scrive ancora sui muri “Calabresi assassino”. O quando, per le vie di Genova, presso un centro sociale trova un volantino con scritto: “Basta menzogne! Luigi Calabresi era un torturatore”.
Ecco, Mario si interroga sulla persistenza di questa falsità storica, nonostante la verità processuale chiarita dal giudice, e dice:
“Con gli anni ho capito l’efficacia di quella campagna di stampa cominciata proprio nei giorni in cui nascevo. Coniarono uno slogan che appare inossidabile, semplice, chiaro, capace di attraversare le generazioni. Tanto ben costruito da far pensare a una di quelle operazioni di marketing che oggi riescono a imporre un marchio. Non c’era però un pubblicitario dietro la campagna, ma molte teste, tra le più illustri del giornalismo, del teatro, della cultura e dei movimenti, accomunate da una furia vendicatrice che le portò a costruire un mostro, a dispetto di evidenze, buon senso e dati di realtà. La benzina che alimentò il motore fu l’indignazione per la morte di Giuseppe Pinelli detto Pino.
Molte volte mi sono chiesto come mi sarei comportato se fossi stato un giornalista allora. E la risposta è netta: mi sarei indignato. La polizia e la questura avevano il dovere di spiegare cos’era successo, senza opacità, senza reticenze, dovevano accertare con severità e chiarezza come era stato possibile che un uomo arrivato in questura sul suo motorino e rimasto sotto interrogatorio per tre giorni fosse caduto da una finestra, morendo poco dopo. Invece ci furono ambiguità, chiusure, quel pezzo di Stato per il quale lavorava mio padre, che faceva capo al Viminale e aveva sede in via Fatebenefratelli a Milano, diede una pessima prova di sé e con le sue reticenze insulto il Paese e avallò i più terribili sospetti” (pag 43)
Certo fa impressione la continua idealizzazione di quel periodo e la persistenza dell’odio.
Entrambi alimentati da una imponente letteratura che esalta la cultura e le azioni terroristiche come “inevitabili”, “necessarie”, “giustificate” da quella congiuntura politica.
Mario intende restituire l’onore a suo padre Luigi Calabresi.
E nello stesso tempo riesce a dare voce ai sopravvissuti. Mogli (già, perche gli assassinati sono stati prevalentemente uomini) , figli, fratelli, nipoti.
I silenziati di questi ultimi 25 anni. In cui a scrivere la storia del terrorismo politico sono stati gli autori dei delitti.
E’ come se avessero dovuto diventare grandi ed adulti quei piccolini di 3 e 5 anni diventati orfani perché un gruppetto di terroristi fondamentalisti di sinistra e di destra avevano deciso di sparare o a singole persone inermi o a caso, nelle piazze o alle stazioni:
“La curiosità di capire, di scoprire cosa si diceva e si scriveva di mio padre, esplose quando avevo quattordici anni. In quarta ginnasio cominciai a saltare la scuola per andare a leggere i giornali dell’epoca nell’emeroteca della biblioteca Sormani, a poche centinaia di metri dal palazzo di Giustizia. Continuai a farlo per molto tempo, a volte con pause di mesi, almeno fino alla fine della prima liceo. Arrivavo presto la mattina, in anticipo sull’apertura del portone, per essere tra i primi a entrare. Mi fiondavo a fare la richiesta dei microfilm e, per evitare code e attese, spesso mi preparavo il foglietto giallo della domanda in anticipo. Prima affrontai il «Corriere della Sera». Partii dalla strage di piazza Fontana per arrivare al giorno dell’omicidio. Era un lavoro solitario e metodico, che cavava gli occhi, ma che mi rapì. Mi immergevo in un’altra epoca, perdevo il senso del tempo e del presente. Dimenticavo completamente i problemi scolastici, le interrogazioni, il greco, i compagni di classe. Era un’esperienza totalizzante.
… Ancora oggi quando leggo cosa scrivevano, anche contestualizzando ogni cosa, anche di fronte a uno Stato opaco e «nemico», non mi capacito di frasi come questa del 6 giugno 1970: «Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito». O una pagina come quella uscita il 1° ottobre 1970, una settimana prima dell’inizio del processo per diffamazione contro «Lotta Continua», che presto si trasformò in un processo a mio padre: «Siamo stati troppo teneri con il commissario di Ps Luigi Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, di continuare a fare il suo mestiere di poliziotto, di continuare a perseguitare i compagni. Facendo questo, però, si è dovuto scoprire, il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato a odiarlo. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara». (pag. 9-11)
C’è poi il tema della responsabilità.
L’eterno tema della responsabilità.
La questione per la quale, nel nome dei fattori esterni, quelli economici e “strutturali”, si mette in ombra il filone più fecondo in tema della responsabilità.
Ossia quello soggettivo che fa dire:
“Ma cosa ho fatto io?
Cosa ho provocato con la mia azione”
E’ una questione che viene elusa in più modi.
C’è quella dell’ex terrorista che neppure se lo pone questo problema. Costoro dicono: “quegli anni erano così. Abbiamo fatto quello che credevamo fosse giusto e corrispondente allo spirito del tempo”. “Non ho nulla di cui pentirmi”. Mentre scrivo queste righe ne vedo davanti a me uno che vive dalle mie parti. Crede di lavarsi la coscienza dedicandosi al recupero dei tossicodipendenti e ha lo sguardo torvo di chi ancora oggi giustifica ai propri occhi e a quelli del mondo le sue scelte. Credo che Stephen King si ispiri a concrete persone così quando ricostruisce le sue incarnazioni del Male.
C’è poi l’opinione pubblica, in genere di sinistra, che usa, ieri e oggi, lo slogan “Né con le brigate rosse, né con lo Stato”
E’ la linea della indifferenza morale.
Linea molto rassicurante per le loro psicologie superficiali. Perché li tira fuori dal gorgo della eterna e storica questione della responsabilità individuale.
“Io”, non la “Società”
“Io”, non la “Legge”.
C’è poi la posizione degli assassini (e usiamola questa parola sinistra che suona e sibila: assassini) protagonisti dei loro delitti.
Costoro dicono: “abbiamo pagato con la giustizia”.
E’ una posizione importante. Perché pone le cose sul terreno della legge.
Ebbene questa è la posizione che maggiormente addolora i sopravvissuti agli assassini dei loro parenti od amici.
Perché se li vedono blaterare nei loro libri. Li vedono saccenti e prepotenti come allora alle televisioni.
Su questo tema il libro di Mario Calabresi apre uno squarcio importante, decisivo, moralmente saldo e forte:
la responsabilità individuale resta,
anche dopo le pene scontate,
fino a quando ci sono i sopravvissuti
delle vittime
Un conto è la responsabilità penale, scontata con la pena (ma soprattutto con gli sconti di pena).
Tutto un altro scenario psicologico ed esistenziale è la responsabilità individuale che permane anche dopo avere pagato (ma soprattutto sotto-pagato) con la giustizia.
Su questo tema ci sono pagine solide e durature nel libro di Mario Calabresi (sottolineature mie):
“Bisogna partire dalle vittime, dalla loro memoria e dal bisogno di verità.
«Farsi carico» è la parola chiave.
Delle richieste di giustizia, di assistenza, di aiuto e di sensibilità.
Lo dovrebbero fare le istituzioni, la politica, ma anche le televisioni, i giornali, la società civile. Un Paese capace di voltare pagina in modo sereno e giusto conviene a tutti, non certo e non solo a chi è stato colpito. ….
I terroristi in carcere sono ormai assai pochi, la gran parte è uscita, basti pensare ai delitti più importanti e fare l’appello. È diffusa la sensazione che abbiano goduto dei benefici di legge e siano usciti senza dare fino in fondo un contributo alla verità. Lo Stato avrebbe dovuto scambiare la libertà anticipata con un netto impegno alla chiarezza e alla definizione delle responsabilità”. …
“C’è una donna che più di altre ha ragionato sull’incapacità italiana di elaborare un lutto collettivo. Carole Beebe, americana, conobbe a Boston Ezio Tarantelli, al centro degli studenti del Massachusetts Institute of Technology, dove lui studiava con Franco Modigliani e dove lei lo raggiungeva per ballare i balli popolari. Si sposarono, poi lo seguì in Italia. Tarantelli venne ucciso a Roma all’università, dove insegnava Economia, il 27 marzo 1985. Spararono in due, ma uno solo è stato individuato e condannato. «L’altro potrei anche trovarmelo seduto accanto al cinema una sera.»
Terapeuta e docente alla Sapienza di Letteratura inglese e Psicoanalisi, Carole Tarantelli è stata anche parlamentare per tre legislature, prima con la sinistra indipendente, poi con i Ds.
«Questo Paese non solo non è stato capace di elaborare un lutto ma neanche un pensiero.
Non ha voluto né potuto pensare al terrorismo. Non ha mai fatto i conti fino in fondo.» Sulla possibilità che si possa voltare pagina senza farsi carico delle vittime è nettissima:
«In Italia si è fatta strada un’illusione, che corrisponde alla fantasia dei terroristi, che si possa superare quello che hanno fatto come se nulla fosse successo.
Ma non può essere così.
Pagata la pena si è liberi, ma non sono finite le responsabilità: questa idea non corrisponde alla realtà.
E non è questione di volontà buona o cattiva, è solo una questione di realtà, perché gli effetti dei loro gesti si vedono ancora. Si vedono sulle persone che sono sopravvissute e si sentono ogni giorno nella mancanza delle persone che loro hanno ucciso.
Il terrorismo non sarà mai finito finché sarà in vita mio figlio che ne porta i segni.
Gli effetti negativi continuano nella vita tutti i giorni, non ce lo si può dimenticare». (pag 96-100)
Infine, il libro di Calabresi tocca solo incidentalmente il cosiddetto caso Sofri. Questo intellettuale che scrive su tutti i giornali immaginabili e che è stato condannato a 22 anni di reclusione per concorso nell’omicidio di Luigi Calabresi . Sentenza del 2 maggio 1990, confermata in Cassazione il 27 gennaio 1997.
Luigi ne parla solo in relazione ai suoi dubbi se accettare o no di diventare giornalista de La Repubblica, su cui scrive Adriano Sofri.
Dubbio risolto, con pacata intelligenza e vigoroso atto di fede nella vita che deve continuare, dalla sua straordinaria madre, Gemma Capra.
leggendo il libro Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, Mondadori, 2007
La lettura del libro Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo, Mondadori, 2007, p. 130, se appena si fa agire un pochino il principio della intermittenza del cuore, suscita tanta commozione, ma subito dopo ha un benefico potere curativo.
Innanzitutto cura i sopravvissuti ai crimini del terrorismo politico.
Perché ora un involontario protagonista indiretto di quell’orribile decennio comincia a restituire la memoria di chi era morto:
“Spararono a mio padre alle 9.15 mentre apriva la portiera della Cinquecento blu di mia madre. Era appena uscito di casa, dopo vari tentennamenti che lo avevano portato a rientrare per ben due volte, la prima per sistemarsi il ciuffo, la seconda per cambiarsi la cravatta. Era uscito con una cravatta rosa, se la sfilò per metterne una bianca, e a mamma che lo guardava scuotendo la testa e prendendolo in giro rispose: «Preferisco questa perché ha il colore della purezza». Lei richiuse la porta senza dare peso a quelle parole.” (Pag. 32)
Dentro di me questo libro cura la cultura storica e il connesso desiderio di giustizia.
Di rado si accosta una scrittura così densa di sé.
In questo libro c’è un controllo di sè che suscita ammirazione.
Come quando, in una recente manifestazione a favore della Palestina cui partecipa anche l’esponente della sinistra comunista Oliverio Diliberto, un gruppo di ragazzi scrive ancora sui muri “Calabresi assassino”. O quando, per le vie di Genova, presso un centro sociale trova un volantino con scritto: “Basta menzogne! Luigi Calabresi era un torturatore”. Ecco, Mario si interroga sulla persistenza di questa falsità storica, nonostante la verità processuale chiarita dal giudice, e dice:
“Con gli anni ho capito l’efficacia di quella campagna di stampa cominciata proprio nei giorni in cui nascevo. Coniarono uno slogan che appare inossidabile, semplice, chiaro, capace di attraversare le generazioni. Tanto ben costruito da far pensare a una di quelle operazioni di marketing che oggi riescono a imporre un marchio. Non c’era però un pubblicitario dietro la campagna, ma molte teste, tra le più illustri del giornalismo, del teatro, della cultura e dei movimenti, accomunate da una furia vendicatrice che le portò a costruire un mostro, a dispetto di evidenze, buon senso e dati di realtà. La benzina che alimentò il motore fu l’indignazione per la morte di Giuseppe Pinelli detto Pino.
Molte volte mi sono chiesto come mi sarei comportato se fossi stato un giornalista allora. E la risposta è netta: mi sarei indignato. La polizia e la questura avevano il dovere di spiegare cos’era successo, senza opacità, senza reticenze, dovevano accertare con severità e chiarezza come era stato possibile che un uomo arrivato in questura sul suo motorino e rimasto sotto interrogatorio per tre giorni fosse caduto da una finestra, morendo poco dopo. Invece ci furono ambiguità, chiusure, quel pezzo di Stato per il quale lavorava mio padre, che faceva capo al Viminale e aveva sede in via Fatebenefratelli a Milano, diede una pessima prova di sé e con le sue reticenze insulto il Paese e avallò i più terribili sospetti” (pag 43)
Certo fa impressione la continua idealizzazione di quel periodo e la persistenza dell’odio.
Entrambi alimentati da una imponente letteratura che esalta la cultura e le azioni terroristiche come “inevitabili”, “necessarie”, “giustificate” da quella congiuntura politica. Se ne è avuta prova nella ambigua, falsa, fuorviante trasmissione di Gad Lerner.
Qui si respira tutta un’altra aria.
Mario intende restituire l’onore a suo padre Luigi Calabresi.
E nello stesso tempo riesce a dare voce ai sopravvissuti. Mogli (già, perche gli assassinati sono stati prevalentemente uomini) , figli, fratelli, nipoti.
I silenziati di questi ultimi 25 anni. In cui a scrivere la storia del terrorismo politico sono stati gli autori dei delitti.
E’ come se avessero dovuto diventare grandi ed adulti quei piccolini di 3 e 5 anni diventati orfani perché un gruppetto di terroristi di fondamentalisti di sinistra e di destra avevano deciso di sparare o a singole persone inermi o a caso, nelle piazze o alle stazioni:
“La curiosità di capire, di scoprire cosa si diceva e si scriveva di mio padre, esplose quando avevo quattordici anni. In quarta ginnasio cominciai a saltare la scuola per andare a leggere i giornali dell’epoca nell’emeroteca della biblioteca Sormani, a poche centinaia di metri dal palazzo di Giustizia. Continuai a farlo per molto tempo, a volte con pause di mesi, almeno fino alla fine della prima liceo. Arrivavo presto la mattina, in anticipo sull’apertura del portone, per essere tra i primi a entrare. Mi fiondavo a fare la richiesta dei microfilm e, per evitare code e attese, spesso mi preparavo il foglietto giallo della domanda in anticipo. Prima affrontai il «Corriere della Sera». Partii dalla strage di piazza Fontana per arrivare al giorno dell’omicidio. Era un lavoro solitario e metodico, che cavava gli occhi, ma che mi rapì. Mi immergevo in un’altra epoca, perdevo il senso del tempo e del presente. Dimenticavo completamente i problemi scolastici, le interrogazioni, il greco, i compagni di classe. Era un’esperienza totalizzante.
… Ancora oggi quando leggo cosa scrivevano, anche contestualizzando ogni cosa, anche di fronte a uno Stato opaco e «nemico», non mi capacito di frasi come questa del 6 giugno 1970: «Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito». O una pagina come quella uscita il 1° ottobre 1970, una settimana prima dell’inizio del processo per diffamazione contro «Lotta Continua», che presto si trasformò in un processo a mio padre: «Siamo stati troppo teneri con il commissario di Ps Luigi Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, di continuare a fare il suo mestiere di poliziotto, di continuare a perseguitare i compagni. Facendo questo, però, si è dovuto scoprire, il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato a odiarlo. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara». (pag. 9-11)
C’è poi il tema della responsabilità.
L’eterno tema della responsabilità.
La questione per la quale, nel nome dei fattori esterni, quelli economici e “strutturali”, si mette in ombra il filone più fecondo in tema della responsabilità.
Ossia quello soggettivo che fa dire:
“Ma cosa ho fatto io. Cosa ho provocato con la mia azione”
E’ una questione che viene elusa in più modi.
C’è quella dell’ex terrorista che neppure se lo pone questo problema. Costoro dicono: “quegli anni erano così. Abbiamo fatto quello che credevamo fosse giusto e corrispondente allo spirito del tempo”. “Non ho nulla di cui pentirmi”. Mentre scrivo queste righe ne vedo davanti a me uno che vive dalle mie parti. Crede di lavarsi la coscienza dedicandosi al recupero dei tossicodipendenti e ha lo sguardo torvo di chi ancora oggi giustifica ai propri occhi e a quelli del mondo le sue scelte. Credo che Stephen King si ispiri a concrete persone così quando ricostruisce le sue incarnazioni del Male.
C’è poi l’opinione pubblica, in genere di sinistra, che usa, ieri e oggi, lo slogan “Né con le brigate rosse, né con lo Stato”
E’ la linea della indifferenza morale.
Linea molto rassicurante per le loro psicologie superficiali. Perché li tira fuori dal gorgo della eterna e storica questione della responsabilità individuale.
“Io”, non la “Società”
“Io”.
Non la “Legge”.
C’è poi la posizione degli assassini (e usiamola questa parola sinistra che suona e sibila: assassini) protagonisti dei loro delitti.
Costoro dicono: “abbiamo pagato con la giustizia”.
E’ una posizione importante. Perché pone le cose sul terreno della legge.
Ebbene questa è la posizione che maggiormente addolora i sopravissuti agli assassini dei loro parenti od amici.
Perché se li vedono blaterare nei loro libri. Li vedono saccenti e prepotenti come allora alle televisioni.
Su questo tema il libro di Mario Calabresi apre uno squarcio importante, decisivo, moralmente saldo e forte:
la responsabilità individuale resta,
anche dopo le pene scontate,
fino a quando ci sono i sopravvissuti
delle vittime
Un conto è la responsabilità penale, scontata con la pena (ma soprattutto con gli sconti di pena).
Tutto un altro scenario psicologico ed esistenziale è la responsabilità individuale che permane anche dopo avere pagato (ma soprattutto sotto-pagato) con la giustizia.
Su questo tema ci sono pagine solide e durature nel libro di Mario Calabresi (sottolineature mie):
“Bisogna partire dalle vittime, dalla loro memoria e dal bisogno di verità.
«Farsi carico» è la parola chiave.
Delle richieste di giustizia, di assistenza, di aiuto e di sensibilità.
Lo dovrebbero fare le istituzioni, la politica, ma anche le televisioni, i giornali, la società civile. Un Paese capace di voltare pagina in modo sereno e giusto conviene a tutti, non certo e non solo a chi è stato colpito. ….
I terroristi in carcere sono ormai assai pochi, la gran parte è uscita, basti pensare ai delitti più importanti e fare l’appello. È diffusa la sensazione che abbiano goduto dei benefici di legge e siano usciti senza dare fino in fondo un contributo alla verità. Lo Stato avrebbe dovuto scambiare la libertà anticipata con un netto impegno alla chiarezza e alla definizione delle responsabilità”. …
“C’è una donna che più di altre ha ragionato sull’incapacità italiana di elaborare un lutto collettivo. Carole Beebe, americana, conobbe a Boston Ezio Tarantelli, al centro degli studenti del Massachusetts Institute of Technology, dove lui studiava con Franco Modigliani e dove lei lo raggiungeva per ballare i balli popolari. Si sposarono, poi lo seguì in Italia. Tarantelli venne ucciso a Roma all’università, dove insegnava Economia, il 27 marzo 1985. Spararono in due, ma uno solo è stato individuato e condannato. «L’altro potrei anche trovarmelo seduto accanto al cinema una sera.»
Terapeuta e docente alla Sapienza di Letteratura inglese e Psicoanalisi, Carole Tarantelli è stata anche parlamentare per tre legislature, prima con la sinistra indipendente, poi con i Ds.
«Questo Paese non solo non è stato capace di elaborare un lutto ma neanche un pensiero.
Non ha voluto né potuto pensare al terrorismo. Non ha mai fatto i conti fino in fondo.» Sulla possibilità che si possa voltare pagina senza farsi carico delle vittime è nettissima:
«In Italia si è fatta strada un’illusione, che corrisponde alla fantasia dei terroristi, che si possa superare quello che hanno fatto come se nulla fosse successo.
Ma non può essere così.
Pagata la pena si è liberi, ma non sono finite le responsabilità: questa idea non corrisponde alla realtà.
E non è questione di volontà buona o cattiva, è solo una questione di realtà, perché gli effetti dei loro gesti si vedono ancora. Si vedono sulle persone che sono sopravvissute e si sentono ogni giorno nella mancanza delle persone che loro hanno ucciso.
Il terrorismo non sarà mai finito finché sarà in vita mio figlio che ne porta i segni.
Gli effetti negativi continuano nella vita tutti i giorni, non ce lo si può dimenticare». (pag 96-100)
Su questo libro c’è stata una delle più belle puntate di Otto e mezzo.
Si sentiva una corrente di commozione in tutti i partecipanti
Mi appunto qui gli audio di quella serata:
Infine, il libro di Calabresi tocca solo incidentalmente il cosiddetto caso Sofri. Questo intellettuale che scrive su tutti i giornali immaginabili e che è stato condannato a 22 anni di reclusione per concorso nell’omicidio di Luigi Calabresi . Sentenza del 2 maggio 1990, confermata in Cassazione il 27 gennaio 1997.
Ne parla solo in relazione ai suoi dubbi se accettare o no di diventare giornalista de La Repubblica, su cui scrive Adriano Sofri.
Dubbio risolto, con pacata intelligenza e vigoroso atto di fede nella vita che deve continuare, dalla sua straordinaria madre, Gemma Capra.
Io però non corro via su questo passaggio.
E tiro fuori dal mio archivio questo più che convincente articolo di Giampaolo Pansa, altro scampato ad assassinio per puro caso (sottolineature mie):
La grazia del Cavaliere? Sì Ogni essere umano vive più vite. E quella di Sofri oggi non merita di essere vissuta tra le mura del carcere di Pisadi Giampaolo Pansa |
Adriano Sofri mi è sempre piaciuto poco. Forse perché mi sono imbattuto in lui tanti anni fa, quando era al culmine della sua vicenda politica. Parliamo degli anni Settanta, un’era tragica, segnata dall’emergere del terrorismo rosso e nero. E da un estremismo ideologico e nei comportamenti che avrebbe connotato per sempre più di una generazione.
In quel tempo, Sofri aveva meno di trent’anni (oggi ne ha sessanta giusti), ma mi sembrava un poco più anziano, come un ragazzo che si truccasse da vecchio. Piccolo, smilzo, lo sguardo febbrile, una carica inesauribile di intelligenza gelida che lo rendeva sideralmente lontano dagli altri capi di Lotta continua. Lo trovavo arrogante, gonfio di disprezzo per chi la pensava diverso, spesso pervaso da un odio politico così assoluto da farmi paura. Al tempo stesso, mi appariva tanto doppio e triplo che il mio giudizio su di lui risultava difficile da mettere a fuoco sino in fondo. E tutto si complicava alla luce di quegli occhi freddi o inespressivi, la spia di pensieri quasi tutti cattivi.
Attorno a lui ribolliva il magma di Lotta continua, un piccolo mondo abitato da caratteri e da intelligenze che si sarebbero rivelati compiutamente soltanto negli anni a venire. Erano ragazzi e ragazze spesso del tutto speciali. Dei primi della classe che, per furore politico e spirito di fazione, si erano rinchiusi in un mondo irreale nel quale progettavano costruzioni fantastiche che, alla fine, si sarebbero disfatte e li avrebbero travolti. Ma tutti erano comprimari che pesavano poco al confronto di Sofri. Lui era il monarca assoluto del reame di Lc. L’unico a contare. Il solo a decidere. Un leader dal carisma totale. E anche un giudice inappellabile.
Me ne resi conto di persona per un microscopico incidente che mi capitò nell’estate del 1971. Lotta continua aveva deciso di riunirsi a convegno in una città rischiosa per l’estremismo di sinistra, la placida, compatta e ostile Bologna. «Vai a vedere e racconta quel che succede» mi ordinò Alberto Ronchey, direttore della “Stampa”. Obbedii senza entusiasmo. Il congresso vero Lc l’aveva tenuto il 10 e 11 luglio a Pavia. Quella al Palazzetto dello sport di Bologna era soltanto una parata di militanti, più o meno duemila, per ratificare scelte già decise, a cominciare dalla mutazione di Lc in un movimento organizzato, un quasi-partito.
Così, quel sabato 24 luglio entrai presto al Palasport con il mio quaderno e una cartocciata di pesche comprate a un banchetto politico che diffondeva a tutto volume “Il cuore è uno zingaro” cantato da Nicola Di Bari. Mi vide subito un dirigente che conoscevo, Franco Bolis, di Pavia, da poco coordinatore nazionale di Lc con Giorgio Pietrostefani, allora per niente famoso. Dal palco, Bolis mi chiese: «Hai pagato?». Gli risposi di no, che non avevo versato la tassa prevista per la stampa borghese, ma in compenso mi ero comprato tanta della loro carta stampata: opuscoli, giornali, manifesti, cartoline.
Bolis sembrava incline ad accontentarsi dei miei acquisti, pesche comprese. Ma alle sue spalle comparve un robustone per niente cordiale. Ringhiò: «Quella roba non conta. Paga. Devi pagare. Fatelo pagare. Almeno 50 o 100 mila lire» (un quotidiano, allora, costava 90 lire). «Non credo che pagherò» annunciai, piccato. Cominciò una contesa verbale che si trascinò per un pezzo, sino a quando si affacciò dal palco Sofri. Mi guardò ed emise la sentenza su di me: «Io mi sono già espresso su questo qui». Non ci fu Cassazione né legittimo sospetto a salvarmi. Sofri aveva deciso e dovevo alzare i tacchi. Così, venni accompagnato alla porta con ruvida cortesia da un giovanotto in camicia verde e rettangolo rosso (come si vede Umberto Bossi non ha inventato niente).
Quell’episodio da nulla mi ritornò in mente tanti anni dopo, quando emerse lo schema del delitto Calabresi, secondo la confessione del pentito Leonardo Marino: lo stesso Marino che guida l’auto dell’agguato, Ovidio Bompressi che spara, Pietrostefani che organizza l’omicidio e Sofri che dà il suo assenso. Avrà detto a Marino: «Su quel poliziotto mi sono già espresso», o qualcosa di analogo? Non lo so. Ma, a questo punto, per me non conta più molto come siano andate le cose allora. Sono e resto un colpevolista, per usare una parola spiccia. Però…
Il però l’ho già descritto tante volte su queste colonne. Dall’assassinio di Luigi Calabresi sono trascorsi trent’anni e sei mesi. L’Italia di quel tempo non c’è più. Siamo un altro paese, migliore o peggiore non lo so. Anche gli uomini che io penso responsabili di quel delitto non sono più gli stessi. Per di più, soltanto uno di loro, Sofri, sta in carcere. Marino è libero. Bompressi è a casa, ammalato. Pietrostefani è uccel di bosco, a Parigi o chissà dove.
Dunque, un solo problema pesa su di noi o su quel che resta dell’opinione pubblica italiana: Sofri, appunto. Da quando sta in carcere, non ci siamo mai parlati né scritti. Ma ho stampato molte parole su di lui e ho letto le parole che lui stampa su “Repubblica”, su “Panorama”, sul “Foglio”. A poco a poco, il tempo e i suoi scritti me lo hanno reso quasi un amico. Beninteso, è una faccenda che riguarda me, e non lui nei miei confronti. Ma è una faccenda seria che è cominciata quasi dieci anni fa. Quando Sofri, sull'”Unità” di Walter Veltroni, scriveva il suo “Diario” da una Jugoslavia straziata da una pazzesca guerra insieme civile ed etnica.
Voglio dirlo: in ogni puntata di quel diario, l’arrogante, il doppio, il gelido Sofri scoccava una freccia che mi centrava il cuore. E mi faceva sentire quel che ero: un italiano apatico e menefreghista. Che per anni, quattro anni!, aveva cancellato l’orrore del ghetto di Sarajevo, chiudendo gli occhi della pietà e della ribellione. E che non sapeva neppure collocare sulla carta geografica mentale dove fosse Vukovar, e dove Tuzla, e dove Mostar est…
Ogni essere umano vive più vite. Quella di Sofri oggi non merita di essere vissuta tra le mura di un carcere. La grazia è possibile, se non vogliamo continuare a essere una nazione in stivali di ferro, sempre pronta a schiacciare i vinti. Anche il Sofri degli anni Settanta è uno sconfitto. E chi se ne importa se a chiedere la grazia è, buon ultimo, Silvio Berlusconi! Ben venga anche la voce del Cavaliere. Forse ci aiuterà a tirare fuori dal carcere pure i vecchi terroristi rossi e neri che ancora vi stanno.
E a una certa sinistra, la sinistra dei Vattimo e dei Pancho Pardi, che chiede a Sofri di restarsene in prigione, voglio dire: attenti alla vostra faziosità cieca. Rischiate di diventare uguali a quella Lotta continua che, trent’anni fa, costruiva i roghi sui quali si bruciò e scomparve.
11 settembre 2001 – 11 settembre 2007
11 settembre 2001
Ricorre il sesto anno dall’attacco del terrorismo islamico alle torri gemelle di New York. Con la distruzione , assieme alle persone, di uno skyline simbolico dell’immaginario culturale del Novecento.
Per me ha contato molto quanto scrisse, quasi in tempo reale,Oriana Fallaci.
Dalla sua indagine giornalistica ho appreso ciò mi serviva ad orientarmi in quell’avvio di congiuntura storica.
L’11 settembre 2001 ha inciso moltissimo nella mia biografia.
To Cross the Line. Nei mesi successivi ho varcato la soglia e ho dovuto rimettere in discussione 28 anni di militanza politica nel Pci-Pds-Ds. 28 anni sono un bel pezzo di strada
Ma è negli scossoni storici che si vedono in modo illuminante le profonde relazioni esistenti fra l’Io, l’identità soggettiva, e il mondo esterno, ossia la società e la cultura.
Sarà una giornata di tante rievocazioni, di tanti punti di vista.
Io mi appunto qualche pensiero che va sui TEMPI LUNGHI, non sulla contingenza.
Il dato storico mi appare sempre di più questo:
l’islamismo non è un semplice integralismo cultural-religioso,
ma è un totalitarismo che si basa sul fondamentalismo religioso
L’islamismo è omologo (certo non uguale, per la diversità dei contesti) al nazismo della prima metà del Novecento.
Sostiene Alexandre Del Valle:
Possiamo, come suggerisce Pierre-Andre Taguieff, considerare il totalitarismo sotto tre forme e accezioni, più complementari che anti-nomiche, riprendendo la classificazione che Renzo De Felice ha tentato riguardo il fascismo: il fascismo come movimento, il fascismo come regime e il fascismo come ideologia. Se si applica questa triplice classificazione all’oggetto del nostro studio, si può distinguere il totalitarismo comemovimento, con la genealogia dei fascismi e del marxismo e della loro incubazione totalitaria nei secoli XIX e XX, il totalitarismo come regime con i regimi nazista, sovietico, maoista, khmer rosso, saudita, talibano-khomeinista o sudanese, infine il totalitarismo come ideologia con il marxismo-leninismo, lo stalinismo, il nazionalsocialismo o l’islamismo. L’ideologia islamista traspare nella dottrina totalitaria dei Fratelli musulmani, del Gamiat-i-islami pachistano, della rivoluzione sciita iraniana o del wahhabismo saudita – quindi il neo wahhabismo rivoluzionario di Ben Laden – o, più in generale, nel salafismo sunnita, nelle sue forme fondamentaliste e gihadiste. La definizione generica del totalitarismo come
“pretesa dottrinaria ideologico-politica a conglobare la totalità della vita in un monismo del potere e della visione del mondo, usando segnatamente l’arma del terrore e della violenza“
è, secondo noi, la più adeguata a definire l’islamismo, principale rappresentante oggi della realtà totalitaria.
In Alexandre Del Valle, Il totalitarismo islamista all’assalto delle democrazie, Solinum editore, 2007, p. 87-88
Due obiezioni contro l’impiego del termine “totalitarismo” consistono nell’affermare che questa nozione è storicamente associata al nazionalsocialismo tedesco e allo stalinismo russo e che il totalitarismo è necessariamente incarnato in uno stato. Da cui la non applicabilità alla situazione odierna di quella nozione.
Per contro Del Valle sostiene che il progetto islamista prevede la soppressione degli stati tradizionali (Israele in primis) e l’edificazione di uno stato califfale transnazionale che raggruppi tutti i membri della umma islamica, ossia la comunità dei credenti.
Il totalitarismo è l’esatto opposto delle democrazie liberali, che sono dei “sistemi pluralisti fondati sulle costituzioni”.
Quali , dunque, i criteri che, con lo sguardo proiettato al presente e non con gli occhiali del Novecento, permettono oggi di definire il totalitarismo?
Usando il pensiero di Raymond Aron e di Hannah Arendt lo studioso citato ne individua tre:
– la confusione fra campo della politica e campo della società civile:
il rifiuto totale di ogni laicità proprio del sistema islamista deve essere considerato come uno dei criteri del totalitarismo nella misura in cui la secolarizzazione è una delle condizioni essenziali dei regimi democratici e liberali
op. cit p. 89
– la mobilitazione totale e permanente e la fuga in avanti dell’estremismo
– la militarizzazione non sottomessa alle norme dello stato di diritto:
Anche qui, come i corpi franchi o altri ordini del tipo SA e SS, l’islamismo invita ogni credente ad assolvere il suo dovere di “sforzo di guerra sul sentiero di Allah”(gihadfì sabil’Illah) contro i nemici dell’ordine islamista essendo la ricompensa il paradiso di Allah, l’equivalente del Valalla dei nazisti neopagani. Imperativo che i movimenti gihadisti più o meno nati dai Fratelli musulmani o dal Gamiat-i-islami pakistano (Takfir, Gamaa, Gihad, Hamas, GIÀ, GSPC, Lashkar-i-Taiba, Geish-i-Muhammad) hanno spinto fin nelle più terribili trincee chiamando i musulmani di tutto il mondo a “uccidere gli ebrei e i crociati ovunque si trovano”. Questo spiega perché terroristi kamikaze si improvvisano a volte al di fuori di ogni struttura organizzata, così come si è visto in Francia a fine agosto 2001 con il caso dell’islamista di Béziers, Safir Bghuia.ù
Op.Cit. p. 89
– il rifiuto dell’individualismo. La vita singola non ha alcun valore, perché è solamente il gruppo che conta. Questo aspetto, addirittura, è più presente nell’islamismo che nei fascismi o nel comunismo, se si pensa al loro motto: “Amiamo più la morte che voi la vita”
– il terrore e la paura generalizzata. La coppia fede/terrore è rintracciabile in tutta evidenza in Iran, nelle giunte alla Saddam o nelle strutture monarchico tribali dell’Arabia Saudita
– il fine giustifica i mezzi e la menzogna è un dovere:
Ci ricordiamo del modo in cui i nazisti arrivarono al potere dopo aver utilizzato tecniche sovversive come l’incendio del Reichstag o la strumentalizzazione del cristianesimo che invece detestavano, o ancora il modo in cui i comunisti sovietici distinguevano la verità superiore (pravda), ideologica, dalla verità di fatto(istina) sacrificabile a piacere. Puskin scrisse del resto: “La menzogna che ci eleva non mi è più cara della moltitudine delle piccole istina…” Perciò molti grandi pensatori e giuristi dell’isiam classico ai quali si riferiscono gli islamisti hanno anch’essi teorizzato la “menzogna pietosa” o “l’adesione dei cuori” (tàlib al-qulub) e l’hanno destinata a quelli che Lenin chiamava gli “utili idioti”: “Le menzogne sono peccati, salvo quando sono dette per il benessere del musulmano” (Al-Tabarani); “la menzogna verbale è autorizzata nella guerra” (Ibn Al-Arabi)7. Nello sciismo troviamo il principio della taqiyya, che autorizza il credente a rinnegare pubblicamente la sua fede in un contesto ostile, mentre il salafismo sannita si riferisce alla menzogna di circostanza: “È permesso mentire per respingere un male più grande (…). La menzogna è laida ma si può usare per il bene. Si può mentire a un kafìr (infedele) al di fuori della guerra (…) per assicurarsi un interesse materiale”, si spiega ai giovani militanti islamisti, essendo la menzogna qui paragonata a un’opera di pietà come a una guerra santa, perché “la guerra santa deve essere condotta utilizzando la furbizia e l’inganno contro i capi kafìr, contro quelli che attaccano ciò che Dio ha rivelato (…). Ibn Taymiyya ha detto che è permesso e che è anche un dovere per un musulmano in certi casi, di assomigliare agli “associatori” nelle cose esteriori come il vestiario e altre apparenze
Op.Cit. , p. 91-92
– il fanatismo ideologico:
ciò che caratterizza più profondamente il totalitarismo, non è solamente la violenza e l’ipertrofia di uno Stato liberticida ma l’ideologia stessa, intesa nel senso etimologico del termine come logica di una idea totale, il fatto di spiegare il movimento della storia come un processo unico e coerente dedotto a partire da una idea centrale: la legge della natura e della razza per il nazismo, della storia o della lotta di classe per il marxismo, oppure della sottomissione dell’umanità ad Allah e quindi la lotta delle religioni e delle civiltà per l’islamismo.
Op.Cit. p.92
Mi sono appuntato questi pochi stralci di una ricerca ad ampissimo spettro: storico, religioso, politologico, giuridico, sociologico.
Il libro di Alexandre Del Valle va sui tempi lunghi.
E’ per questo che mi ha guidato nel tracciare questo ricordo dell’11 settembre.
Per decenni i miei criteri orientatori sono stati l’antifascismo e la guerra antifascista.
Sono una parte durevole della mia identità. Sono soddisfatto di me che sia andata così. Un po’ ho fatto buoni incontri e ho incrociato buoni maestri. E un po’ ci ho messo del mio,
Ed è per questo che la formula del saggista della sinistra americana Paul Berman:
la guerra al fondamentalismo è una guerra antifascista
mi ha fatto tornare alla casa dell’altra mia vita, quando ammiravo coloro che si erano battuti, in situazioni estreme e fino al sacrificio personale, contro il nazifascismo:
I nazisti rappresentarono la Seconda guerra mondiale come una battaglia biologica tra la razza superiore (loro) e le razze inferiori e impure (noi). I Sovietici e i loro compagni rappresentarono la Guerra fredda come una lotta economica tra i proletari del mondo (loro) e gli sfruttatori borghesi (noi). L’immagine medioevale del fondamentalismo, con guerrieri del gihad che brandiscono la scimitarra contro la cospirazione sionista-crociata era non meno fantasiosa, e non meno folle. La realtà della guerra al terrorismo – il panorama della vita reale che divenne evidente in quei primi giorni della guerra in Afghanistan – non era quindi un’operazione di polizia, non era uno scontro di civiltà e neanche una situazione cosmica. Era un avvenimento in stile ventesimo secolo. Era uno scontro di ideologie. Era la guerra tra il liberalismo e i movimenti apocalittici e fantasmagorici insorti contro la civiltà liberale fin dalla catastrofe della Prima guerra mondiale.
Paul Berman, Terrore e liberalismo, Einaudi, 2004, p. 216
Invece all’indomani dell’11 settembre l’amministrazione americana ha dovuto fronteggiare, sostanzialmente da sola, fatta eccezione della Inghilterra di Tony Blair, la guerra dichiarata dal totalitarismo islamista, attraverso la distruzione simbolica e materiale delle torri, all’intera civiltà occidentale.
Stasera gli americani si pongono molte domande. Gli americani si chiedono: chi ha attaccato il nostro Paese? Tutte le prove che abbiamo raccolto puntano verso un’accozzaglia di organizzazioni terroristiche liberamente affiliate a un’organizzazione nota come Al Qaeda. Sono gli stessi assassini accusati di aver bombardato le ambasciate americane in Tanzania e in Kenia, gli stessi responsabili del bombardamento dell’incrociatore USS Cole. Al Qaeda sta al terrore come la mafia sta al crimine. Essa tuttavia non ha per obiettivo il denaro; il suo obiettivo è rifare il mondo e imporre il suo credo integralista ai popoli di ogni dove. I terroristi praticano una forma di estremismo islamico di frangia che è stato respinto dagli studiosi musulmani e dalla stragrande maggioranza dei religiosi musulmani; un movimento di frangia che perverte gli insegnamenti pacifici dell’Islam. Le direttive dei terroristi ordinano di uccidere i cristiani e gli ebrei, di uccidere tutti gli americani e di non fare alcuna distinzione tra militari e civili , donne e bambini compresi.
Questo gruppo e il suo leader, una persona di nome Osama Bin Laden, sono collegati a molte altre organizzazioni in diversi Paesi, e tra queste la Jihad islamica in Egitto e il Movimento islamico in Uzbekistan. Ci sono migliaia di questi terroristi in oltre 60 Paesi.
….
La nostra guerra al terrorismo comincia con Al Qaeda, ma non finisce lì. Non sarà finita fino a quando non saranno stati trovati, fermati e sconfitti tutti i gruppi terroristici di portata globale. Gli americani si chiedono: perché ci odiano? Odiano quello che possiamo vedere proprio qui, in questo luogo: un governo eletto democraticamente. I loro leader si nominano da soli. Odiano le nostre libertà, la nostra libertà di culto, la nostra libertà di parola, la nostra libertà di voto e di riunirci ed essere in disaccordo l’uno con l’altro, Vogliono sovvertire i governi attuali di molti Paesi musulmani, quali l’Egitto, l’Arabia Saudita e la Giordania. Vogliono spingere Israele fuori dal Medio Oriente. Vogliono spingere i cristiani e gli ebrei fuori da ampie zone dell’Asia e dell’Africa. Questi terroristi uccidono non soltanto per porre fine alla vita, ma per disgregare e porre termine a un modo di vivere. Con le loro atrocità, sperano che l’America si impaurisca, che si ritiri dal mondo e abbandoni i suoi amici. Sono contro di noi perché noi ci frapponiamo al loro cammino. La loro falsa devozione non ci trae in inganno. Abbiamo visto i loro simili in passato. Sono gli eredi di tutte le ideologie assassine del Ventesimo secolo. Sacrificando la vita umana per servire le loro visioni integraliste, abbandonando ogni valore a eccezione della volontà di uccidere, seguono le orme del fascismo, del nazismo e del totalitarismo. E seguiranno quelle orme fino alla fine, fin dove conducono: nella fossa comune dove sono sepolte le bugie della storia.
Georg W. Bush – Presidente degli Stati Uniti, Discorso al Congresso in sessione congiunta e al popolo americano, Campidoglio degli Stati Uniti, Washington, 20 settembre 2001
Non vedo nessuna contraddizione con la mia collocazione politica proveniente dalla sinistra lo stare da quella parte.
Sì … dalla parte della amministrazione americana.
Solo mi spiace che a prendere in mano questa bandiera sia stata in questi anni la destra italiana.
Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, 2003 interpretato da Marco Ballerini in occasione del Giorno della Memoria e del Giorno del Ricordo Biblioteca di Veniano (CO), domenica 12 febbraio 2006 ore 17
Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, 2003
interpretato da Marco Ballerini in occasione del Giorno della Memoria e del Giorno del Ricordo
Biblioteca di Veniano (CO), domenica 12 febbraio 2006 ore 17
Cari lettori,
riflettevo sul fatto che l’odierna giovane generazione potrebbe essere l’ultima ad avere l’opportunità di stabilire una relazione diretta con chi è sopravvissuto all’inenarrabile tragedia dell’Olocausto.
I figli dei figli di oggi, e i loro figli e, ancora, i figli di chi li seguirà rischieranno di veder sbiadire, nel corso dei decenni, le tracce dell’orribile ricordo che ha marchiato il secolo scorso.
Si sa, la memoria si trasforma, affidandosi alla potenza della narrazione, alla velocità della trasmissione ed alla ricettività di chi ne raccoglie la testimonianza.
E’ il terrore di questa possibile mutazione che turba colui che immagina, oggi, nello scorrere del tempo, il pericolo di paragonare l’immane eccidio di sei milioni di nostri simili al passaggio in moviola di un raccapricciante film dell’orrore.
Dobbiamo quindi bloccare questa memoria, fissarla a ganci acuminati, inchiodarla nella coscienza, poiché è solo il dolore che la può scuotere e risvegliare. Questa almeno ne è la speranza.
“Yossl Rakover si rivolge a Dio” è un uncino appuntito che ti penetra nella carne e lì scava, rendendo a brandelli le viscere più profonde.
Ogni tentativo di spiegare, commentare, interpretare questa supplica diretta a Dio resta vano, perché sono solo le parole che la dispiegano a vivificare il tormento e il conforto di dire addio alla vita.
Più straziante ancora non è l’oscenità della crudeltà che l’uomo può perpetrare al suo eguale:
“Le belve della foresta mi sembrano così amabili e care che è per me un profondo dolore sentir paragonare a belve gli scellerati che dominano l’Europa”
bensì la sublime, infinita riconferma di una fede che non muta, ma che richiede un risarcimento:
“Ora quello che ho con lui [Dio] è il rapporto con uno che anche a me deve qualcosa, che mi deve molto. E poiché sento che anche lui è in debito con me, credo di avere il diritto di esigere ciò che mi spetta … la vendetta è stata e rimarrà sempre l’ultimo mezzo di lotta e la massima soddisfazione interiore per gli oppressi”.
Può avere un senso attardarsi nel pesare, giudicare, misurare l’intensità di amore ed odio, di fede e di sete di vendetta?
La scrittura di Yossl è resa sempre più incerta dalle ombre crepuscolari, ma più luminosa la sua invocazione di ascendere ad un mondo in cui rinasce la coscienza che quello stesso Dio ha voluto annullare, lasciando che l’uomo si riappropriasse dei suoi istinti selvaggi.
Ancora, cari lettori, io non so aggiungere nulla che possa rendere l’immagine del patimento, della commozione, dell’intensità emotiva della tragedia attraversata, vissuta. Non so esprimere il pensiero della forza di credere che qualcuno, nel suo divino disegno, ha voluto nascondere il suo volto al mondo.
Sono muta perché lo sconcerto qualche volta impone il silenzio.
Pieno d’incanto, invece, è il suono della voce di Marco Ballerini, magistrale interprete di Yossl Rakover.
Là, ripiegato su se stesso, le rovine di mattoni sparsi, tre bottiglie di benzina – le ultime.
Nell’avanzare dell’oscurità la fioca luce di una fiammella trema con l’approssimarsi dell’estremo addio. Ma non si spegne ancora quella luce, perchè arde sostenuta da una voce amareggiata, ma ferma, aggrappata disperatamente ad una fede incrollabile, impossibile da rinnegare, nonostante la prova cui è chiamata a far fronte.
Tra le mani di Yossl logori e brancicati frammenti di carta trasportano verso chi è rimasto l’imperativo di dire No! Quello che è stato non dovrà più trovare lo spazio di essere di nuovo.
Grazie, Marco, per averci aiutato a non dimenticare.